
«Un terribile mostro si era insediato in cielo e di lassù aveva conficcato i suoi tentacoli nella terra. Uccideva le piante, si accaniva contro gli animali e gli uomini. La morte aveva battuto prima i dintorni della città, subito spogli d’ogni vegetazione, e si era rovesciata sulle colline come un’onda gigantesca, dilagando ancora nella distesa dei campi e dei prati» (La siccità, 1940: edizione definitiva 1984). Queste scarne frasi, scandite in crescendo, paiono scritte durante la soffocante estate di quest’anno infausto. La loro duplicità emblematizza strutture ricorrenti nel narratore Romano Bilenchi (Colle di Val d’Elsa 1909-Firenze 1989). Gli eventi fatali del mito si abbattono incontrollabili e aggravano i destini personali. E prendete a verifica un attacco che ha un soggetto astratto ed è seguito da una notazione familiare della stessa misura: «La miseria vibrava i suoi colpi uno dopo l’altro, uno più violento dell’altro. La mamma e la nonna si dibattevano in ristrettezze umilianti» (La miseria, 1941; ora in Gli anni impossibili, 1984). La tensione allegorica sovrasta gli atti dei singoli, la loro lotta per sopravvivere. Evidente è l’eredità dei primitivi, di quelli toscani in specie, l’eco di tanta pittura che metteva in scena lo scorzoso quotidiano in contrappunto ad una «temporalità infinita» (Luzi). «La chiave – secondo C.A. Madrignani – è quella del linguaggio umile, che sarà tipico del narratore in ogni sua pagina». Un velo memoriale tempera crudeltà e disagi. Lo sguardo si appunta sui sogni dell’infanzia, sul malessere dell’adolescenza, sulle crudeltà di un mondo che ignora il volere dell’individuo. I moti delle memoria vagliano i fondamenti primi, le sensazioni impalpabili in atmosfere di elegiaca tristezza. Il gelo si aggiunse, a comporre la trilogia, nel 1981-2 e l’inizio riprese lo stesso tono asseverativo unendo generalità e intimità: «Il gelo del sospetto e dell’incomprensione si levò fra me e gli uomini quando avevo sedici anni, al tempo della licenza ginnasiale». Bastano questi tre lacerti per attestare la calcolata continuità costruita con ostinazione da Bilenchi.
La cadenza memoriale non è sostenuta sempre da un medesimo scatto. Quando evoca l’incontro con Elio Vittorini o la salda amicizia con Mino Maccari nella Firenze letteraria degli anni d’oro si sfrenano amarezze e ritratti satirici, nero umorismo e tardive prese di distanza. Gli eroi hanno nome e fama: Rosai, Ricci, Viani, Pratolini sono tra i primi nomi che lo stesso Bilenchi fa.
La recente monografia di Gabriele Fichera (Romano Bilenchi. Storia e antologia della critica 1933-2018, Fiesole, Cadmo, 2022) ricostruisce l’esperienza di Bilenchi in tutti i suoi risvolti senza prefiggersi di approdare ad una semplificante collocazione nel canone della letteratura italiana del XIX secolo. Ed ha l’ambizione di un’onnicomprensività necessaria e utile. È l’undicesimo titolo di «Bilenchiana» che ha fornito testi essenziali per ampliare e approfondire la conoscenza di un autore difficile, trascurato se non dimenticato del tutto. E Fichera, che insegna Lettere al senese Liceo classico Piccolomini, ha svolto un’indagine che invita a intrecciare scrupolosa rilettura e modalità di ricezione critica dei racconti e degli articoli di Bilenchi, anno dopo anno: ne vien fuori una biografia intellettuale suffragata dalle ripercussioni che l’appassionato lavoro ha avuto nella cultura e nella politica, segnatamente della sinistra comunista. L’aspetto del giornalista militante è stato esplorato in lungo e largo, così come la soppressione del suo «Nuovo Corriere» nel tragico 1956 da parte di un partito che non seppe interpretare la repressione delle rivolta polacca come il segnale di una crisi che richiedeva un vero coraggio revisionista. Bilenchi abbandonò il Pci in dignitoso silenzio. Era consapevole che la lotta di classe era agibili con una partiti di massa non chiuso in una disciplina ideologica. Eretico ma dentro un universo che era la sua parte. Non aveva alcuna simpatia per i gruppettari delle settarie conventicole. Da ultimo auspicò in una rapida intervista un partito di tutti i democratici di sinistra con stupefacente ingenuità.
II.
Se tu dovessi tirare le somme del tuo viaggio con Bilenchi e il succo che ne hai tratto – chiedo all’autore – come sintetizzeresti il tuo giudizio? «Si tratta – precisa Fichera, che ha al suo attivo ottimi contributi su sul saggismo di Volponi, su Pasolini, e su Mertens, Kalisky – di uno scrittore che può calzare a pennello diverse maschere narrative, senza farsi racchiudere per intero in nessuna di esse: il vivissimo intesse che nutre per le vicende storiche e i rapporti sociali si sviluppa in quadri che perlopiù seguono le direttrici della rivisitazione memoriale, non patetica, non accomodante».
C’è un rovello etico alla base della sua scrittura che può essere avvicinato ad una scabra prosa d’arte. «Non direi – è la replica –, sintomatico è il suo amore per la manzoniana Storia della colonna infame, e Manzoni è autore da richiamare più di quanto si sia fatto finora. Mi pare di percepire una certa sotterranea affinità con alcuni grandi autori del modernismo europeo come la Virginia Woolf, o con un certo Joyce, peraltro da lui molto apprezzato; e al limite con Proust, di cui affermava di rammentare a memoria parecchie pagine». Ma Bilenchi, controbatto, serba una sua appartata artigianalità e non è mai acquietato pei risultati raggiunti: la variantistica ha in lui un campo strepitoso di occorrenze e di correzioni, quasi che la parola non riuscisse a trasmettere il fondo oscuro, indecifrabile o impalpabile, dei personaggi. Un po’ come Tozzi. «Bilenchi non è mai soddisfatto di ciò che scorge nella natura umana e scandaglia fondali inesplorati alla ricerca di una verità autentica, fresca, innocente. Nel Conservatorio di Santa Teresa, che è del 1940 (ma nel 1985 uscì una versione ampliata di sei capitoli riscritti) freme una ricerca verso l’indistinto, verso il primordiale che ritroviamo in Pavese suo coetaneo. Per andare oltre la storia apparente Bilenchi deve trasformare la realtà che rappresenta depurandola da ogni scoria al fine di renderla tersa e rarefatta». Franco Fortini notò nella prosa di Bilenchi una «scontrosa ricerca di magrezza». E Montale riconobbe che «di suo Bilenchi ha portato nel racconto quel ‘partire da zero’ che più tardi i critici studieranno nel Cassola e in altri giovani e che consiste nel comporre come se non fosse mai esistita un’arte narrativa».
Com’è avvenuto un incontro così totale da parte tua, chiedo a Gabriele Fichera a clausola di saluto, con l’autore di un romanzo così atipico come Il bottone di Stalingrado del 1972? Un siciliano ha più confidenza con Verga, con Sciascia… «Bilenchi – spiega l’autore – mi è parsa un’ottima occasione per provare a conoscere meglio i meandri di una cultura e di un modus vivendi che ora sono l’habitat civile in cui ho deciso di vivere. E poi Bilenchi ha tentato come pochi altri di dar conto di un universo, quello dell’infanzia/adolescenza, che oggi non è meno complicato e tormentato di quello dei suoi anni cupi e violenti».