Andrea Inglese,
Stralunati
Luca Lenzini

Andrea Inglese, Stralunati, Roma-Trieste, Italo Svevo, 2022.

Vision is the Art of seeing Things invisible.
Jonathan Swift

There’s More to the Picture than Meets the Eye.
Neil Young

Circola nelle pagine di Stralunati, la recente silloge di racconti di Andrea Inglese (ammesso e non concesso che di racconti si tratti), una salutare brezza swiftiana. Il primo bersaglio pertanto, se è vero che il tema del lavoro (o il suo spettro maligno, piuttosto) vi occupa una parte rilevante, è di ordine sociale: esemplare, in questo senso, Un mestiere, oggigiorno, dove la logica paradossale che governa il libro mette in scena l’intervista con l’impiegato di una Multinazionale la cui attività consiste nel tirar calci alle persone, il che viene infine dichiarato tranquillamente un traguardo esistenziale e non solo un surreale espediente per tirare avanti. Dice infatti Giulio Pratese, il lavoratore in questione: «Soprattutto io mi ritengo realizzato. Credo che questa attività la svolgerei comunque» (p. 58). Lo scarico di aggressività che all’inizio è stigmatizzato dalla famiglia come patologia da affidare allo psichiatra, viene istituzionalizzato e richiesto in quanto risorsa utile al buon funzionamento aziendale, nonché strumento di Self-fulfillment; e di qui s’intende come la “prosa del mondo” in Inglese approdi naturalmente, per via parodica e senza fare una piega, alla percezione di un paesaggio devastato e anomico, in preda a un infausto e torvo esistente:

Oggi la gente non sa più che pesci pigliare. Sono tutti come in una morte leggera. Io li vedo andare e venire contando i soldi, come controfigure di un film di vampiri o zombie. Passano mesi agli angoli dei bar, in un silenzio luttuoso, a pensare se ce la faranno a comprare l’auto nuova. Nessuno è più sicuro di nulla. Anche l’abbonamento all’operatore telefonico suscita angosce e tormenti.(p. 59)

Non diversamente in Essi vivono i soggetti innominati-immortalati «sono lì a contarsi le macchie sulla pelle, le mosche dentro la camera, i semi nella fetta di cocomero, guardandosi tutti in cagnesco» (p. 75); e così ancora gli uomini e donne chiamate in causa in Una storia «mi è poco chiaro cosa fanno, a parte una gran quantità di telefonate o di rifornimenti. Fanno rifornimenti di continuo, portano avanti e indietro scatoloni pieni di roba» (p. 43). In questi come in altri passaggi emerge a evidenza un carattere proprio della scrittura di Inglese, quale avviene di cogliere tanto nei romanzi (Parigi è un desiderio, 2016; La vita adulta, 2021) che nelle prose e poesie: la destrezza con cui singoli particolari realistici, ovvero le schegge minute del mondo materiale sono calate come elementi da effet de réel – una giacca di lana cotta, l’orticello comunale, «il velo di brina cristallizzata sulle sbarre dei cancelli», una precisa topografia – in un discorso che da una parte assorbe in modo prensile e puntuale l’eco polifonica degli stereotipi e degli ideologemi diffusi nella sfera pubblica e mediatica («La riforma migliorerà le cose. La storia procede a piccoli passi», p. 12), dall’altro cattura al volo l’attimo dello straniamento e i trionfi del non-senso. Non è perciò il monologo soggettivo, come potrebbe sembrare, a dare il tono all’insieme, quanto uno sfondo corale e plurale: qualcosa di collettivo e insieme di assurdo tracima ogni volta nella grana testuale, le «litanie autistiche» è come se confluissero nel “tutti” di una sinfonia orchestrale che a libro chiuso lascia per lungo tratto una scia inquieta nella mente del lettore.

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Si sa che ai tempi del Maggio sui muri di Parigi qualcuno aveva riciclato una frase attribuita a Bakunin: «una risata vi seppellirà». Non è andata così, e per chi si ponga dal punto di vista di Hamm e Clov nel beckettiano Finale di partita la battuta prende, a ripensarci, un colore apocalittico e profetico per nulla gradevole, come per una ritorsione in chiave con il Qui e Ora del presente globale e planetario. Del resto quando nel dialogo di Una storia si dice «Racconta di quando saremo grandi» (p. 45), con quel che segue, si è subito portati a immaginare un palcoscenico à la Beckett che accolga le «cose fugaci» immaginate dallo Storyteller-senza-storie di quel testo («Io non ho storie, non ho nessuna cosa che sia una storia», p. 43) e magari anche i Caino e Abele di I due fratelli e lo zio. Tutti i bei castelli in aria del narratore utopico dei tempi andati, con le loro trame lucenti, sono crollati in frammenti; il futuro esce di scena e alle spalle non c’è nulla, lo spazio dell’esperienza è ridotto ai minimi termini o ricavato per sottrazione e perciò non solo slitta di continuo, ma normalmente e velenosamente: uso quest’avverbio perché è il testo stesso a imporlo: «È che tutti vanno a veleno, non fanno che funzionare a veleno, e come camminano veloci […], viaggiano, spinti, animati, trasfigurati dal veleno» (p. 44). Forse lo «sguardo nero» e il «volto terreo» di questa moltitudine, un po’ come l’«Internazionale di uomini nauseati» di Sloterdijk che «esiste nell’auto-scioglimento permanente».1, riflette il prezzo della passività e della rinuncia che accompagna, come un leitmotiv, la sinistra impronta del feroce “darwinismo sociale” («Lei ha mai visto Fight Club?», p. 59) nelle esistenze e persino nell’inconscio. Tutto sembra confortevole ma non ci sono comfort zone di sorta. Aggressività e risentimento, disaffezione e disincanto veicolano l’accento del vero.

Eppure l’eco di una risata perdura da qualche parte, come da un’altra stanza. La casa della prosa ne è abitata.

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Racconti, ma non proprio. C’è tutta un’area di lavoro che ormai da un ventennio percorre strade che non sono riportabili alle mappe consuete ed alla segnaletica tradizionale del cosiddetto campo letterario, anzi la mancanza di rispetto per i Generi codificati, romanzo saggio poesia e quant’altro non smette di produrre, con remunerativa inerzia, l’industria culturale, è costitutiva di quanto si colloca, non senza un background teorico tutt’altro che velleitario, in queste zone di frontiera o «terre di mezzo» (come le chiama Inglese),2 che nei migliori mostrano una capacità di ascolto del reale inseparabile dall’insofferenza per le connivenze e convenienze del Mercato, inclusa la critica. Per lungo tempo la prosa è stato un fantasma nominalistico, qualcosa definibile solo in via negativa ed astratta; ora è forse il luogo di un superamento, di un’apertura molto concreta alle istanze più profonde del nostro tempo. Entro quest’orizzonte mobile e sperimentale, non privo di precedenti3 ed in cui è costante il versante autoriflessivo, la scrittura di Inglese si muove con la svelta sicurezza di chi “ha rotto il fiato”, guardandosi bene dallo sguazzare nelle acque apocalittiche o distopiche dei plotoni postmoderni. La sua ironia è di altro stampo e forse non è nemmeno ironia, o non soltanto.

Non lo è, nel senso che non comporta quel tanto di cinico e di saputo che è implicito nell’atteggiamento tongue-in-cheek, mentre qui è rivendicata una più intima prossimità con le sorgenti dell’humour più irriverente e sovversivo: donde, oltre al ricorrente elemento “carnevalesco” e dissacrante, la tendenza a estremizzare ed esasperare quel che di irrazionale e insensato appartiene alla “razionalità”, al “senso comune”, al “progresso” illimitato e distruttivo della temperie liberista, anzi alle radici arcaiche della corrente “fase” efferata-spensierata dell’antropocene. Giova rammentare, in proposito, la distinzione proposta da Jankélévitch tra ironia e humour, per cui quest’ultimo «è ritagliato nella stessa stoffa fluida del divenire»,4 laddove la «strategia» dell’ironia possiede «un carattere generalmente pedagogico, spesso dogmatico e a volte un po’ pedante»:5 sicché si può dire che quel tanto di irrigidito e conservativo che permane nell’ironia è contestato dalla mobilità e fluidità dell’humour, dal controcanto del divenire, dal suo modo di abitare il tempo; e proprio qui si manifesta la scelta di parte e la solidarietà di fondo, in Inglese, con i vagabondi (i «nomadi» di Jankélévitch), i precari a vita, gli sconfitti e burnout – gli stralunati insomma, coloro che in dote hanno solo «la vita sghemba, l’unica concessa» (p. 90).

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Alla natura di frammento dei testi, alla loro necessaria pluralità e insieme al loro affidarsi, ognuno e complessivamente, ad una lettura svincolata da ogni paradigma ricevuto corrisponde a livello compositivo il tratto stilistico del tour de force, che evoca una esecuzione sul filo del paradosso e del solipsismo, una forma di controllata oltranza che a sua volta suggerisce una parodia mimetica delle «azioni automatiche» (p. 90) a cui accenna uno dei pezzi più riusciti e densi di implicazioni del libro, quello che va sotto il titolo Al risveglio. È un testo, quest’ultimo, che con l’aria di annotare il quotidiano e il solito ci conduce in un territorio frequentato da antenati quanto mai esigenti e lungimiranti, per nominarne due Marcel Proust e Ernst Bloch («Mi desto. Fin dal primo mattino siamo alla ricerca. Siamo pieni di brame, gridiamo. Non abbiamo quel che vogliamo» è l’incipit del Principio speranza); un luogo in cui lo scandaglio della scrittura emette segnali a lunga gittata. C’è ormai qualcosa di epico nello svegliarsi, nel mettersi moto, nel cominciamento in cui si decide alcunché di dimensioni e conseguenze inaudite, covato clandestinamente e occultato nei minimi gesti: per questo la dilatazione dei particolari, i rinvii tra interno ed esterno, il ralenti del pensiero e dello sguardo, lo spazio dischiuso dell’attimo e l’apparizione del quasi-invisibile, in breve tutto corteggia e sollecita quasi per lievitazione interna il piano allegorico del vissuto, se qualcosa del genere esiste. In ogni caso la posta del gioco è alta e si consiglia di prenderlo molto sul serio.

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Militare contro l’assuefazione, magari divertendo ma senza distrarre, al contrario combattendo il “così è” del monito perenne. Potrebbe esser questo uno dei messaggi che, senza saperlo, la banda degli Stralunati consegna. Non sanno dove andare ma sono in surplace su una soglia, tra passato e futuro, sull’orlo della rimozione infinita che fa andare avanti (verso l’autodistruzione, potrebbe anche darsi) il mondo. Si aggirano intorno alla «esitazione quasi universale» che resiste nella prima luce del giorno, con il sole invernale che «permette ai rami degli alberi di ergersi nudi dietro i muri di cinta, come tratti nitidi contro l’azzurro, come segnalazioni gratuite puntate verso l’altrove…» (p. 90).

Note

1 P. Sloterdijk, Ira e tempo. Saggio politico-psicologico, trad. it. di F. Pelloni, Roma, Meltemi, 2007, p. 254.

2 Vedi G. Garrapa, «Stralunati»: intervista ad Andrea Inglese, in «Satisfiction», 6 giugno 2022.

3 Significative, in epigrafe al libro, due citazioni da Malerba e Manganelli (oltre a Ashbery), ma la cornice dei possibili riferimenti è assai ampia, dato anche il trasversalismo della prosa praticata (che include il teatro e la poesia); così le parentele si estendono ad autori tra i più disparati, come quelli di area francese e statunitense citati nell’intervista ora ricordata (n. 12), da Pinget a Barthelme. Quanto alle convergenze, non necessariamente presenti a titolo di genealogia, ricorderei almeno l’originale “saggismo” di Peter Handke (Saggio sulla giornata riuscita e gli altri).

4 V. Jankélévitch, B. Berlowitz, Da qualche parte nell’incompiuto, a cura di E. Lisciani Petrini, Torino, Einaudi, 2012, p. 128.

5 Ivi, p. 123.