La scienza nell’era dell’economia della conoscenza
da L’Ospite ingrato VIII, 2005
Marcello Cini
I. Dal dominio sulla materia inerte al controllo della vita e della mente
Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Ha appreso, attraverso la conoscenza sempre più approfondita dei suoi costituenti elementari, a trasformarla in forme e aggregati nuovi, in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale fatto di sostanze, macchine, apparati, finalizzato ad incrementare, mediante protesi sempre più potenti e penetranti, la portata e l’intensità delle proprie capacità naturali di percezione, di azione e di controllo del mondo esterno.
Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell’uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. Dopo aver cominciato ad apprendere come trasformare la vita in forme e aggregati nuovi, e come controllare i fenomeni mentali, gli uomini si apprestano dunque a progettare e costruire una biosfera artificiale fatta di organismi transgenici, chimere, cloni, e chissà quali altre forme viventi, regolata da una rete di menti artificiali di complessità crescente, con conseguenze imprevedibili.
È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza. Essa infatti comporta l’abbattimento di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività sociali umane: uno separava la scienza (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima realizzata attraverso l’invenzione), e l’altro separava le attività che si occupano di fatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali.
Entrambe queste separazioni nette tendono a scomparire. Per quanto riguarda la prima è evidente che il nesso tra la ricerca scientifica “pura”, cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l’innovazione tecnologica, stimolata dall’interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile.
Anche per quanto riguarda la separazione fra fatti e valori la svolta ha un effetto dirompente. È ormai esperienza comune che i dibattiti e le polemiche interne alla scienza comincino a entrare nelle arene del discorso e dell’azione non scientifiche. Le scoperte scientifiche sono messe in discussione, criticate o utilizzate insieme ad altre fonti di conoscenza disponibili da parte di un pubblico sempre più vasto. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull’uomo. Nel primo caso il lecito può coincidere con l’utile, nel secondo il lecito dovrebbe perlomeno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. Le “verità” della scienza e gli “strumenti” della tecnologia acquistano proprietà che dipendono dal contesto. Nasce il problema del rapporto fra conoscenza e valori, cioè del nesso fra la ricerca della “verità” e il perseguimento di “retti” comportamenti individuali e collettivi.
È tuttavia evidente che la svolta non viene percepita, nell’immaginario collettivo, in tutta la sua radicalità. Sia gli scienziati che i decisori – nella sfera pubblica (politici e amministratori) come in quella privata (industriali e managers) – si affannano infatti, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a mantenere intatta l’immagine tradizionale della scienza, come ricerca disinteressata e oggettiva (avalutativa) della verità capace di rappresentare la realtà così com’è, in modo sempre più fedele e dettagliato. I primi perché sono interessati a sottolineare la continuità del “metodo scientifico” che garantirebbe una volta per tutte uno statuto epistemologico privilegiato a questa forma di conoscenza, conferendo nel contempo alla categoria un elevato prestigio sociale e non disprezzabili porte di accesso alla sfera del potere. I secondi perché sono ancor più interessati a marcare la continuità delle leggi dell’economia e del mercato come regolatrici ultime dell’introduzione di innovazione scientifica e tecnologica di qualsiasi natura nel processo produttivo. «Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca – afferma a questo proposito un oscuro ma aggiornato biotecnologo di Oakland – non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti».1
II. La produzione di merci immateriali
Il vero problema è che nella società contemporanea tutto è ormai ridotto a merce, e dunque che non si può capire il mondo senza andare al supermercato. Da questo punto di vista diventa “naturale” attribuire le fattezze di merce a ogni componente – dal singolo gene all’intero organismo – della straordinaria varietà di forme viventi e a ogni manifestazione – dal singolo bit all’opera più monumentale – delle infinite possibili espressioni del pensiero umano.
Nel XX secolo il meccanismo di accumulazione del capitale si è fondato sulla formazione del profitto nel processo di produzione delle merci materiali e sull’espansione del loro consumo da parte dei lavoratori stessi (fordismo). Di qui ha avuto origine il conflitto drammatico tra capitale e lavoro che ha segnato il secolo “breve”. Nel XXI secolo il meccanismo di accumulazione del capitale sempre più si fonderà sulla formazione del profitto nella produzione di merci immateriali (bit) (“informazione”, “conoscenza”, “comunicazione”). Più propriamente, la formazione del profitto si sgancia dal “tempo di lavoro”, perché le merci immateriali possono essere moltiplicate all’infinito senza costo ulteriore rispetto a quello del prototipo, e dunque il profitto, una volta fatto il prototipo, può crescere illimitatamente al crescere del consumo.
La proprietà fondamentale dei beni immateriali è infatti che, a differenza di quelli materiali, la loro fruizione da parte di un “consumatore” non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Tuttavia è improprio parlare di con-sumatori, perché le merci immateriali, in realtà non si “consumano”. In un disco non è la plastica che conta, ma la canzone che c’è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l’ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale, e giustifica in tal modo le leggi che vietano la riproduzione libera del contenuto. Ma se anche il supporto diventa immateriale, il trucco si scopre (mi dicono che è facile scaricare canzoni da Internet senza pagare una lira, anche se le case discografiche fanno il diavolo a quattro per impedirlo).
La riduzione dell’informazione a merce destinata ad essere acquistata e fruita individualmente in esclusiva è, dunque, un’artificiosa reificazione di un bene che, se è da un lato frutto della creatività individuale di persone eccezionalmente dotate, dall’altro non nasce dal nulla ma trae ispirazione dal patrimonio culturale comune dell’umanità e, a sua volta, acquista senso soltanto se va ad accrescere questo patrimonio. A conferma della natura prettamente sociale della produzione di conoscenza sta il fatto innegabile che la diffusione della conoscenza è condizione indispensabile per produrne di nuova.
Questa reificazione ha un duplice effetto. In primo luogo permette una illimitata moltiplicazione a costo praticamente nullo del profitto del capitale investito, che cessa di trarre giustificazione dal suo essere investito nei fattori del processo produttivo per diventare frutto di una specie di miracolo dei pani e dei pesci. In secondo luogo – e questo, dal punto di vista delle conseguenze, è ancora più grave – distorce il processo di produzione di nuova conoscenza favorendo l’innovazione che promette di dare maggiori profitti a scapito di quella che, pur potenzialmente utile o addirittura indispensabile per la solu-zione dei problemi sociali più urgenti, non ha mercato immediato. Tutta la problematica che deriva dalla brevettazione della materia vivente – dal singolo gene all’organismo più complesso – e della mente umana – dal singolo bit all’opera più monumentale – ha la sua radice in questo meccanismo perverso. Ma, come dice il noto finanziere George Soros (che il mercato lo conosce bene):
III. Le radici storiche della svolta
Ci si può domandare a questo punto quali siano i collegamenti tra questa duplice svolta, che segna il passaggio epocale alla società capitalistica del XXI secolo, e il movimento di critica alla neutralità della scienza che caratterizzò in modo singolare il periodo storico che va dalla fine degli anni Sessanta alla seconda metà degli anni Settanta. Non basterebbe un lungo saggio per tentare di rispondere a questa domanda. Qui mi limiterò ad alcuni brevi cenni.
In primo luogo voglio ricordare due contributi importanti su temi specifici che hanno in qualche modo precorso gli eventi e tentato di introdurre nella cultura della sinistra segnali di attenzione e di allarme per le trasformazioni radicali che si profilavano all’orizzonte. Il primo, del quale lo psichiatra Franco Basaglia è stato il leader carismatico, ha sottoposto a una critica radicale la concezione tradizionale di malattia mentale, con conseguenze teoriche e pratiche profonde e durature sulle istituzioni psichiatriche del nostro paese. Il secondo, al quale è strettamente legato il nome di un’altra grande figura di medico, Giulio Maccacaro, ha indirizzato la sua critica nei confronti della supposta “oggettività” dell’organizzazione capitalistica del lavoro, in stretta relazione con la contemporanea elaborazione di un “sapere operaio” da parte dei lavoratori sui temi della nocività dell’ambiente in fabbrica e nel territorio.
Anche se l’accoglienza delle idee e delle esperienze del primo movimento da parte degli operatori del settore e delle stesse istituzioni è stata più favorevole rispetto agli ostacoli teorici e pratici che sono stati eretti contro lo sviluppo e la diffusione del messaggio trasmesso dal secondo, entrambi hanno lasciato tracce durature nel tessuto sociale del nostro paese. Se nel primo caso si è arrivati infatti fino al riconoscimento istituzionale rappresentato dalla legge 180 (che ha abolito i manicomi, molti dei quali erano dei veri e propri lager), anche il secondo (che pure è finito nel 1981 con la sconfitta delle sue punte più avanzate) ha dato un contributo alla nascita e alla diffusione in tutti gli strati sociali della consapevolezza dell’importanza e della gravità dei problemi connessi con il degrado ambientale e con gli squilibri ecologici del pianeta, e della necessità di rendere lo sviluppo economico compatibile con i vincoli imposti da quei problemi. In particolare, credo che il successo della campagna contro la costruzione di centrali nucleari nel nostro paese sia stato in larga misura frutto del seme gettato in quegli anni.
In secondo luogo voglio ricordare, sul piano più generale, il ruolo gioca-to dalla rivista «Sapere» – diretta da Giulio Maccacaro fino alla sua improv-visa morte nel ’78 –, che fu il principale mezzo di diffusione delle idee di quei movimenti, e dalla collana di libri per l’editore Feltrinelli intitolata «Scienza e politica», che programmaticamente si proponeva di contribuire a «criticare quella immagine della scienza che la rappresenta come razionalità assoluta e astorica, frutto di innata e disinteressata sete di conoscenza da parte dell’Uomo in astratto, sottratta alla valutazione e all’intervento di quegli uomini concreti che operano e vivono all’esterno di essa».3 Vale la pena, per mantenere viva la memoria dell’impegno culturale di questa iniziativa, riportare la parole conclusive del suo programma: «Smantellare il feticcio dello scientismo è, dunque, un obiettivo sempre più attuale di ogni strategia di trasformazione sociale che voglia avere quegli uomini concreti come protagonisti».4
IV. La mercificazione dell’informazione
In uno dei libri di questa collana, L’Ape e l’architetto,5 un gruppo di fisici romani dei quali anch’io facevo parte sostenne per la prima volta la tesi che la riduzione dell’informazione a merce avrebbe rappresentato un punto di svolta nello sviluppo della società capitalistica. Nonostante il grande successo editoriale, soprattutto fra i protagonisti del movimento studentesco, nessuno capì, nella sinistra istituzionale, di cosa stavamo parlando. Né i marxisti ortodossi, che ritenevano il nostro discorso non abbastanza ancorato ai principi del materialismo più o meno dialettico, né i riformisti, che non tolleravano fosse messo in discussione il ruolo intrinsecamente progressivo della scienza.
Fino alla seconda guerra mondiale – argomentavamo – la società capitalistica era, come si legge nelle prime righe del Capitale, «un’immane ammasso di merci». Ma si trattava di cose, di oggetti, di beni materiali e concreti prodotti dalle mani dell’uomo a partire dalle materie prime, in luoghi ben definiti (le fabbriche e i campi) e trasportati altrove per essere usati e consumati individualmente da chi ne entrava in possesso attraverso il mercato. Non erano parole, immagini, suoni, simboli.
Tuttavia – continuavamo – già a partire dagli anni Trenta, ma in modo massiccio nel secondo dopoguerra, la produzione di merci materiali ha cessato di essere l’unica fonte di profitto per il capitale. Non solo cresce l’investimento nel terziario e nella produzione per il mercato di servizi, ma soprattutto cresce quello nella produzione di informazione. Capitali sempre più ingenti vengono investiti sia per produrre nuova informazione destinata alla produzione di altre merci (innovazione di prodotto e di processo, know-how, organizzazione del lavoro, ma anche marketing, pubblicità, e soprattutto software di tutti i tipi) che per produrre informazione direttamente “consumata”: dai mezzi di comunicazione di massa (radio, Tv, giornali, spettacolo, nastri, dischi, fino ai servizi di Internet e della rete telematica odierna).
La conclusione di questa analisi era dunque che questa trasformazione avrebbe prodotto due cambiamenti fondamentali nell’organizzazione del lavoro. Il primo sarebbe stato quello di creare una miriade di nuovi mestieri, professioni e specializzazioni frammentando in un caleidoscopio di funzioni e di compiti la figura del lavoratore salariato, e trasformando il carattere della sua prestazione da partecipazione in una attività collettiva strettamente collegata con quella degli altri lavoratori a rapporto di lavoro individuale con l’imprenditore. Il secondo, che l’avrebbe accompagnato, sarebbe stato quello di permettere, grazie al carattere immateriale dell’informazione (che non richiede di essere trasportata fisicamente ma può essere facilmente trasmessa anche a grandi distanze), il decentramento della produzione in una molteplicità di luoghi diversi.
Queste affermazioni sono oggi diventate luogo comune, ma ci sono voluti trent’anni per cominciare a porsi la questione di come affrontare i problemi enormi che non solo il nostro paese, ma l’Europa e il mondo intero si trovano a dover affrontare, in conseguenza di queste trasformazioni, nel XXI secolo.
Cerchiamo dunque di concentrarci su alcuni punti secondo me necessari se si vuole affrontare questo ambizioso e difficile obiettivo con la speranza di fare passi avanti nella giusta direzione. Non è mio compito, e non ne sono in grado, avanzare proposte concrete di intervento in questo o quell’altro settore, né tanto meno indicare strumenti organizzativi o amministrativi nuovi capaci di contribuire a una rivitalizzazione della ricerca scientifica del nostro paese e in grado di stimolare una ripresa del suo sviluppo economico.
Sarei già soddisfatto se potessi contribuire alla diffusione – tanto all’interno del mondo della ricerca quanto in quello dell’economia e della politica – di un retroterra culturale che abbia le radici nei temi della sostenibilità dello sviluppo, della universalità dei diritti e dei saperi, della tutela dell’immensa ricchezza costituita dalle diversità biologiche e culturali del pianeta. In breve, le basi di una cultura che sia impegnata da un lato a favorire una equa distribuzione dei benefici della crescita della conoscenza e della scienza in tutti i campi, e dall’altro a salvaguardare l’autonomia della loro produzione dalla totale subordinazione alle leggi del mercato.
V. Società del rischio e principio di precauzione
Il primo punto riguarda la deontologia professionale degli scienziati. Secondo il fondatore della sociologia della scienza, Robert Merton, «quattro sono gli imperativi istituzionali a fondamento dell’ethos della scienza moderna: l’universalismo, il comunitarismo, il disinteresse e il dubbio sistematico».6
La convinzione che la conoscenza scientifica sia oggettiva e univoca implica che gli scienziati, nella loro attività professionale, debbano adottare criteri universali e impersonali. Analogamente, il dubbio sistematico e l’indipendenza intellettuale sono necessari per evitare l’accettazione di rivendicazioni di conoscenza basate sulla fede o sull’autorità. Infine, anche il comunitarismo (cioè l’obbligo morale, per ogni scienziato, di render pubblica ogni nuova scoperta per farla conoscere ai suoi colleghi) e il disinteresse (cioè la spinta morale ad anteporre gli interessi del progresso della scienza ai propri interessi individuali) sono indispensabili per garantire che ogni nuova rivendicazione di conoscenza venga esaminata criticamente alla luce dei criteri universalmente accettati. L’obiettivo di produrre conoscenza oggettiva e razionale e la sottomissione alle norme dell’ethos della scienza si sorreggono dunque vicendevolmente.
Questi quattro imperativi sono chiaramente quasi tutti entrati in crisi. Non tutti allo stesso modo, però. Il crescente intreccio tra scienza e tecnologia, ad esempio, mina alla base il principio del disinteresse. Lo sgretolamento della barriera che separava fatti e valori mette in dubbio la possibilità di adottare criteri universali e impersonali nella scelta degli obiettivi della ricerca. Ma è soprattutto l’imperativo del comunitarismo che è brutalmente vanificato dall’appropriazione privata dei risultati della conoscenza attraverso la loro brevettazione.
Come ricostruire dunque norme deontologiche valide, capaci di ridare all’attività di ricerca strumenti validi per ottenere risultati affidabili e offrire agli attori sociali (individui singoli, comunità, gruppi di interessi, istituzioni pubbliche e private e quant’altri) gli elementi per compiere scelte razionalmente giustificabili e moralmente soddisfacenti?
Una prima risposta a questa domanda ci viene dall’introduzione, ormai accolta da una serie di documenti ufficiali e da norme dell’Unione Europea (gli Stati Uniti si differenziano anche su questa come su molte altre quesitoni), del principio di precauzione.
La base fattuale del principio di precauzione è data dalla constatazione che viviamo ormai nella “società del rischio” (titolo di un testo ormai classico di Ulrich Beck, risalente alla metà degli anniOttanta), definita come la nuova fase della società industriale, in cui «il rapporto tra produzione di ricchezza e produzione di rischi si inverte dando priorità alla seconda rispetto alla prima».7 Chiunque segua anche superficialmente la sterminata letteratura sui temi della globalizzazione dell’economia, dell’individualizzazione del lavoro, della crisi delle tradizioni e della fine della natura come realtà esterna indipendente dalle azioni umane (dallo stesso Beck a Anthony Giddens e a Zygmunt Bauman, da Immanuel Wallerstein a Cristopher Lasch e a Mark Sennett) sa che sstiamo vivendo una transizione epocale della cultura della modernità.
Siamo passati da una fase nella quale era diffusa l’aspettativa che la crescita della conoscenza della reltà sociale e naturale avrebbe permesso di intervenire su di essa sempre più efficacemente e razionalmente in modo mirato e controllato, a una fase in cui la proliferazione di questi interventi è a sua volta origine di imprevedibilità e di insicurezza. Un aspetto centrale di questo passaggio è la diffusione a livello di massa della coscienza che «il rischio prodotto è il risultato dell’intervento umano nelle circostanze della vita sociale e nella natura».8 Secondo la formulazione datane dai due autori (P. Kourilski e G. Viney) che per primi hanno affrontato la questione, «il principio di precauzione implica l’adozione di un insieme di regole finalizzate ad impedire un possibile danno futuro, prendendo in considerazione rischi tuttora non del tutto accertati».9 Le precauzione occupa un ambito intermedio fra quello in cui si applicano le procedure della prevenzione (cioè dell’attivazione di misure volte a evitare o a limitare le conseguenze di un agente di rischio accertato) e quello delle semplici congetture (che non giustificano la sospensione di uno sviluppo tecnologico utile dal quale i futuri possibili effetti avversi, in assenza di evidenze anche parziali, possano soltanto essere ipotizzati).
È chiaro, tuttavia, che l’applicazione di questo principio lascia larghi margini di discrezionalità sia agli scienziati che si occupano della valutazione del rischio sia ai decisori che si occupano della gestione del rischio. Per quanto riguarda questi ultimi è evidente che essi sono particolarmente sensibili agli umori dell’opinione pubblica e alla pressione dei media. Spetta dunque alle associazioni che hanno per obbiettivo la tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente allertare i cittadini, senza catastrofismi ma con documentata attenzione, sui possibili rischi che superino la soglia della congettura per entrare nel campo delle previsioni fondate su evidenze significative.
Per quanto riguarda i ricercatori, invece, occorre per prima cosa riconoscere la differenza profonda fra ricerca privata e ricerca pubblica e, dunque, fra i dipendenti (o i consulenti) di imprese private legati al segreto industriale e gli operatori degli enti pubblici di ricerca, che dovrebbero rispondere dei loro programmi alla collettività da cui sono finanziati, o perlomeno concordare con i suoi rappresentanti le scale di priorità da rispettare. I primi hanno come dovere contrattuale quello di massimizzare i dividendi dei propri azionisti, mentre i secondi dovrebbero in primo luogo esplorare a fondo le evidenze di rischio, non ancora divenute certezze ma già più solide delle congetture, che giustificherebbero l’adozione di una sospensione precauzionale dell’immissione sul mercato dei prodotti frutto delle ricerche dei primi.
Come si fa a metterli insieme, in una categoria ideale al di sopra delle parti, come se fossimo tutti uguali ai fondatori della Royal Society? Come si fa a non stupirsi nel constatare che la elementare norma di correttezza civile, oltre che giuridica, secondo la quale controllori e controllati non possono coincidere, non vige all’interno della scienza? Oggi molti scienziati di grido sono al tempo stesso consulenti delle multinazionali o addirittura azionisti delle industrie di punta e, al tempo stesso, membri delle commissioni governative che dovrebbero certificarne i prodotti dal punto di vista dell’efficacia e della sicurezza.
Un controllo efficace sarebbe dunque quello di istituire albi professionali separati per chi partecipa allo sviluppo di innovazioni destinate ad essere immesse sul mercato e per chi deve non solo identificarne e valutarne gli eventuali danni già prodotti o che potrebbero insorgere in futuro, ma anche investigare e prefigurare i diversi scenari (valutandone i diversi gradi di incertezza) che dalla loro diffusione potrebbero a breve, o a lungo termine, derivare. Ognuno è libero di stare da una parte o dall’altra, ma deve dirlo.
VI. Conoscenza libera
Una seconda risposta alla domanda posta dalla crisi della tradizionale deontologia professionale degli scienziati ci viene dallo sviluppo travolgente delle nuove tecnologie dell’informazione. Lo scontro che ormai da qualche anno ha contrapposto i sostenitori delle pratiche che vanno sotto il nome di open source (“sorgente aperta”) e di free software (“software libero”) alla filosofia di Bill Gates è diventato un conflitto mondiale tra la diffusione dei sistemi basati su Linux e quelli della Microsoft.
Questa contrapposizione si basa su due opposte concezioni dell’etica pro-fessionale. Mentre infatti nella new economy le aziende realizzano i loro profitti attraverso la proprietà delle informazioni garantita tramite brevetti, marchi di fabbrica e accordi di non divulgazione e giustificano questa pratica con l’etica protestante del denaro (che, secondo Weber, sta alla base dello sviluppo del capitalismo), l’etica che caratterizza la comunità degli hacker (intesi non secondo un uso distorto del termine che li considera pirati che violano i segreti altrui, ma come creatori di nuovo software) è fondata sul principio che «la condivisione dell’informazione sia un bene di formidabile efficacia, e che la condivisione delle competenze, scrivendo software libero sia per gli hacker un dovere etico»).10
Un numeroso gruppo di hacker, che hanno come padre spirituale Richard Stallman – fondatore del movimento «Free software» e autore, in tale veste, di una singolare Canzone del software libero che, tra l’altro, dice: «Quando avremo abbastanza software libero a nostra disposizione butteremo via quelle luride licenze» – sta esplorando nuove direzioni per diffondere un nuovo tipo di economia, basata sulla cosiddetta “impresa open source“. In questo modello, chiunque è libero di imparare studiando il codice sorgente dei pro-grammi messi a disposizione e di svilupparlo ulteriormente in propri prodotti anch’essi aperti.
In un libretto di grande interesse, intitolato L’etica hacker, Pekka Himanen spiega:
VII. Brevettare la vita?
Strettamente connessa con il tema appena accennato del riconoscimento di nuove norme per la deontologia professionale degli scienziati è la questione della brevettabilità della materia vivente. In genere si giustifica il brevetto con l’argomento della protezione della “proprietà intellettuale”. Scrive a questo proposito George Soros:
Occorre perciò arrivare a riconoscere che la ricerca in generale, e in parti-colare anche quella biotecnologica, deve essere gradatamente sottratta al dominio esclusivo del mercato, o comunque deve essere sottoposta a vincoli accettati dagli scienziati e fatti rispettare dalle istituzioni nazionali e sovranazionali. Mi rendo conto di quanto questo obiettivo sia lontano e difficile da raggiungere, se non addirittura utopico. Anche perché sappiamo che, per evitare che esso venga messo in agenda, gli Stati Uniti e le istituzioni internazionali da essi controllate sono disposti, seguendo la nuova visione strategica di Bush sul futuro del mondo, a usare tutta la potenza, eventualmente anche militare, di cui dispongono. Per ora, tuttavia, la “vecchia” Europa sembra mantenere una posizione più aperta e dobbiamo sperare che questa autonomia possa continuare ad essere esercitata. Di più non sono in grado di dire su questa materia e lascio alla competenza e all’esperienza altrui il compito di scendere sul terreno della concretezza.
Tagliare il cordone ombelicale che lega la ricerca alla produzione di cono-scenza in forma di merce è comunque, secondo me, la via maestra per garantire la libertà di ricerca. Le imprese dovrebbero poter brevettare i procedimenti specifici per ottenere un determinato organismo o una sua componente, ma non il prodotto stesso. La ragione è semplice. È ancora George Soros a spiegarla:
Le argomentazioni avanzate dai sostenitori ad oltranza della libertà della scienza e della tecnologia di realizzare tutto ciò che può essere realizzato (e di immetterne sul mercato i prodotti così ottenuti) si basano da un lato sulla pretesa continuità tra le forme, le regole e le finalità dello sviluppo scientifico e tecnologico in vigore da due secoli e quelle che devono valere per il presente e per il futuro, e dall’altro sulla necessità di continuare a mantenere rigidamente separati i giudizi di valore e i criteri di scelta basati sulla razionalità scientifica e l’efficienza economica. In particolare, da un lato si sostiene che la produzione di ogm attraverso le tecniche dell’ingegneria genetica non sarebbe che la prosecuzione delle tecniche di selezione di varietà di piante e di razze animali utilizzate da coltivatori e allevatori da diecimila anni, e dall’altro che le modificazioni migliorative del genoma umano non farebbero che prose-guire l’opera dell’evoluzione umana dagli australopitechi all’homo sapiens, e comunque rientrerebbero nelle finalità della professione medica e nell’ambito della sua etica professionale.
Entrambe queste giustificazioni sono pretestuose e fuorvianti. Esse, infatti, sorvolano sugli elementi di assoluta discontinuità che caratterizzano le tecniche biotecnologiche rispetto alle pratiche tradizionali. In primo luogo, infatti, esse trattano come equivalenti processi di durata incomparabilmente diversa: dell’ordine delle migliaia, o addirittura dei milioni di anni quelli naturali e di poche decine quelli artificiali. In secondo luogo, si tace che nei processi evolutivi naturali intervengono fattori (la generazione aleatoria della diversità e la selezione da parte dell’ambiente) completamente diversi da quelli che intervengono nella progettazione di nuovi individui (la direzionalità deterministica delle mutazioni e la selezione finalizzata all’utilità). In sostanza, la sostituzione dell’evoluzione darwiniana con l’evoluzione lamarckiana. Paradossalmente, i fautori della cosiddetta “libertà della scienza” emulano il funesto programma di Lyssenko.
Per quanto riguarda gli ogm, in particolare, le giustificazioni addotte ignorano la differenza essenziale fra le modificazioni del genoma all’interno di una specie, vincolate dalla barriera che impedisce il mescolamento dei genomi di specie diverse – un principio fondamentale che ha regolato l’evoluzione della vita per più di due miliardi di anni –, e le modificazioni che scavalcano questa barriera e innescano dunque processi evolutivi di tipo completamente nuovo e imprevedibile. Nel caso invece di interventi destinati a “migliorare” la specie umana, gli “ottimisti tecnologici” negano che un’alterazione del delicato equilibrio fra ciò che è biologicamente innato e ciò che è socialmente acquisito nella vita dopo la nascita possa rappresentare una incognita gravida di oscure conseguenze.
Già trent’anni fa Gregory Bateson ha affrontato in modo originalissimo il problema dei comportamenti collettivi che possono portare alla distruzione dell’ecosistema terrestre. Partendo dal rifiuto dei “due incubi insensati” del “rozzo materialismo” e del “soprannaturalismo romantico”, egli ebbe l’in-tuizione fondamentale del collegamento profondo fra la sfera della bellezza e del sacro e la sfera dell’inconscio. È sulla base di questo collegamento che ci ha ammonito a non prendere «scorciatoie che ci permettono di raggiungere presto ciò che vogliamo, [cioè] di seguire il più breve cammino logico e causale per ottenere ciò che si desidera».16 Sono infatti queste scorciatoie che tolgono al futuro la sua fondamentale caratteristica di essere aperto a un ventaglio di possibilità, per ridurlo a una meccanicistica realizzazione di ciò che è già tutto potenzialmente contenuto nel presente.
Cerchiamo dunque di diffondere questo suo messaggio.
1 J. Rifkin, Il secolo biotech, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, p. 88.
2 G. Soros, Globalizzazione, Milano, Edizioni Ponte alle Grazie, 2002, p. 19.
3 La citazione è tratta dal risvolto di copertina della collana «Scienza e politica», Milano, Feltrinelli, 1976.
4 Ibidem.
5 G. Cicciotti et al., L’Ape e l’architetto, Milano, Feltrinelli, 1976.
6 M. Cini, Un paradiso perduto, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 263.
7 U. Beck, La società del rischio, Roma, Carocci, 2000.
8 A. Giddens, Oltre la destra e la sinistra, Bologna, il Mulino, 1994, p. 10.
9 P. Kourilski, G. Viney, Le principe de précaution. Rapport au Premier Ministre, Parigi, Odile Jacob Editions, 2000, pp. 253-276.
10 P. Himanen, L’etica hacker, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 45.
11 Ivi, p. 53.
12 S. Williams, Codice libero. Richard Stallman e la crociata per il codice libero, Milano, Apogeo, 2003.
13 P. Himanen, L’etica hacker cit., p. 54.
14 G. Soros, Globalizzazione cit., p. 5o.
15 Ivi, p. 19.
16 G. Bateson, M.C. Bateson, Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989, p. 102.