Neanch’io, lo dico subito, ne vedo molti. Ora, potrebbe anche darsi che Pusterla ed io – e numerosi altri che il libro hanno elogiato – non siamo ben aggiornati; ma credo proprio che il «passo» di Alziati colpisca davvero il lettore per la sua perentoria andatura, di chi sa dove vuole andare. E credo, anche, che questo avvenga perché chi ha scritto le poesie di Come non piangenti ha fatto i conti con se stesso, lucidamente, ma i conti li ha fatti anche con chi è venuto prima; ed ha saputo scegliere, quindi, i propri maestri. Ma su questo, tornerò più avanti; e non vorrei scoraggiare il lettore, dopo averlo invitato ai versi di Come non piangenti, ma un’osservazione di ordine generale che mi sento di fare, in prima battuta, è che questo non è un libro facile. Anche qui, non sono il solo a dirlo: alcuni recensori infatti hanno parlato, pur lodandolo, di libro “difficile”, e per un discorso generale si può anche partire da qui; un punto di partenza come un altro, che non è il caso di sopravvalutare ma che nemmeno vorrei addomesticare. Vorrei anche precisare, però, che se per difficoltà intendiamo una opacità procurata, un oscuro simbolismo o una provocazione avanguardista, non di questo si tratta per Come non piangenti: la difficoltà o “non facilità” del libro di Alziati è di altro genere, e proverò subito a spiegarmi, per linee essenziali.
Tra le ragioni (o le circostanze) della difficoltà del libro, si potrebbe indicare, di primo acchito, la formazione filosofica di chi l’ha scritto; sarebbe tuttavia una indicazione superficiale, non caratterizzante. Certo, circola un pensiero in movimento, in queste poesie; ma è forse meglio dire che la scrittura poetica risveglia e mette in movimento il pensiero, senza esser propriamente “filosofica”. Si tratta di capire come lo fa, con quali strumenti poetici.
Come: uno dei modi è quello, innanzitutto, con cui maneggia il tempo. Lasciamo da parte il lessico o i metri, e concentriamoci su questo punto. C’è in Come non piangenti un trattamento del tempo che recalcitra ad una lettura piana e che, sì, fa in effetti problema, in quanto non corrisponde agli standard della poesia di stampo lirico, né a nozioni correnti. Se infatti ci chiediamo di quale tempo ci parlano questi versi – e parlano del tempo in senso proprio: lo nominano a più riprese e in varie versioni: il tempo che implode, il tempo senza tempo, il tempo redento, il distemposuite o alto oratorio per voce recitante: I riccioli della chemio. è questo, nel suo sviluppo, un piccolo e intenso poema ed uno snodo essenziale della raccolta. Lo sguardo che qui guarda al mondo come da un’altra parte ha viaggiato molto più che se avesse pellegrinato per anni (viene in mente, per questo ritorno da una distanza e per la chiamata a raccolta di forze che vi si condensa – «risorgi», è il verbo – il terzo movimento del Quartetto op. 132 di Beethoven).
Entri nei varchi fra le gocce, nella pioggia.
Quello che deve sopravvivere viva.
di quello strano straordinario inverno
di gemme anche quassù, e sole
fra i rami nel dicembre, quando il manto
di neve ero io, io la corteccia glabra
lo scricchiolio del gelo nelle ossa – per quale
voce straordinaria dirti l’inverno,
quando l’inverno ero io?
per sgomberare il campo
per demolire le baracche
dove vivono uomini donne bambini,
l’ordine è stato eseguito.
Hanno rassicurato i cittadini:
nessun allarme animali, nessun felino
risulta abbandonato di quelli
“che usano romeni e altre etnie
per dare caccia ai topi” è stato scritto.
Posso indicarti i luoghi e il giorno.
Perché la mia età ho scordato?
Sulla melma del fiume
guardo scorrere lentissimi
cadaveri, qui sotto Ponte Milvio.
Ne riconosco i volti, furono assassinati
Buttati vivi o morti nella Senna,
li chiamavano ratti, è ottobre, sono d’argento.
Compio ora gli anni della terra offesa.
L’adesso del titolo vale insomma per un tempo riassuntivo, singolare e plurale, privato e pubblico, che attraverso le varie fasi della composizione viene qui a rivelarsi, per così dire, nella sua natura, tragico, carico d’ingiustizia, di crudeltà, di sopraffazione. Ma è in quel tempo che l’io prende la parola. Lì non si dà vero progresso, non si tratta di incidenti di percorso; semmai la storia si manifesta come negazione, continuità nell’oppressione, impetuosa corrente ricolma di rimozioni. Siamo in una zona estrema, senza alibi o vie di fuga: al lettore tocca affrontarla e, certo, come si diceva, trovarsi in difficoltà. Il senso del tempo-ora resta infatti incomprensibile, indecifrabile, assurdo nella sua efferata contemporaneità; occorre guadagnare una prospettiva particolare, non solo “dal basso”, come prima notavo, ma un’angolazione attiva e non contemplativa, interpretante e per così dire “inquietante”, per riconquistare il senso, almeno per quanto la poesia può attivare in noi risorse nascoste, aprire vie incognite, ridestare zone soggette alla dimenticanza; dove “dimenticanza” è anche (e forse soprattutto) la memoria inerte e narcotizzante dei calendari ufficiali, del ricordo bi-partisan, del passato sfruttato per addomesticare il presente (o forse, ancora più in profondo e in peggio, la dimenticanza è quella di noi a noi stessi in quanto esseri umani e in quanto tali fratelli).
In sintesi, credo che la “non facilità” (e la riuscita) di Come non piangenti sia radicata in quel nodo doloroso di tempi, nell’intreccio tra una continuità subita e una discontinuità evocata in assenza, tra risveglio e dimenticanza. Ed è ponendosi da questo punto di vista che possiamo scorgere la linea o meglio la tradizione (anche stilistica) in cui questa poesia s’inserisce: che non è una tradizione facile ma nemmeno può essere nominata semplicemente come “civile” o “impegnata”, etichette che non dicono molto più di niente. Ma per dar seguito a quest’ultimo spunto e abbozzare un discorso sulla tradizione, bisogna guardare ad un tempo ulteriore, un’altra dimensione del tempo, propria del libro. Nell’ottava composizione dei Riccioli della chemio c’è un passaggio che recita: «…dentro / ciascuna ora del mondo senti / gemere il tempo del tempo che resta». Ebbene, come si può definire questo paesaggio temporale? E di che genere sono, il tempo che “geme” e quello che “resta”?
Il passo è particolarmente significativo, in quanto si collega direttamente all’espressione che fornisce il titolo al libro («Come non piangenti», citazione da Paolo, Corinzi, I, 7, 29-32). Ora, con tutta evidenza il paesaggio che qui abbiamo di fronte è di tipo apocalittico (ed una citazione dal libro dell’Apocalisse è in un’altra poesia): il tempo “abbreviato” (Diodati), quello che in Paolo secondo una versione letterale “imbroglia le sue vele”, espressione del gergo nautico per il momento topico per la nave che raccolte le vele giunge, per abbrivio, al porto. Questo tempo è dentro l’orizzonte della fine: nell’imminenza del Nuovo Regno. L’invito è a stare nel presente; secondo alcuni commentatori, a non prendere impegni, a essere distaccati, ma anche in altro senso pronti. Il passo di Paolo è questo:
Quindi lo scenario di fondo è dominato dalla “caducità” a cui la natura, e noi con lei, è sottomessa; e la natura è molto presente nel libro di Alziati, che ad alberi e animali affida una quota importante del suo messaggio (e sono fra i testi più belli). Ma nemmeno dir questo è sufficiente: la prossimità della fine restringe il tempo ma, d’altra parte, siamo anche nella dimensione di un’attesa, di un non-ancora, in cui si fa spazio – uno spazio incerto, un breve stallo – una speranza innominata e invisibile, ma ben presente (tra le poesie ce n’è una, non a caso, che si richiama a Ordet, lo straordinario film di Dreyer). Così potremmo rilevare un paradosso, quello per cui solo nel tempo ristretto può schiudersi un varco, un inizio. In Romani 8 si legge anche: «Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».
Giunto a questo punto, però, esito a entrare nel merito dell’interpretazione di luoghi così alti e ipercommentati del messaggio biblico: per tacere dei precedenti, nel secolo scorso si va da Barth a Benjamin, da Taubes fino, ai giorni nostri, al recente Agamben. Tale è il contributo che si è addensato intorno ai testi paolini che in una recensione è forse meglio restare a rispettosa distanza. Mi limito a ricordare, allora, che a partire dal tema della caducità e del “come se” si possono dare soluzioni e proposte molto diverse, sia sul piano dottrinale che su quello (propriamente, nel senso più alto) politico (è il caso di Benjamin e Taubes): l’invito tratto dal passare del mondo si può leggere come spinta al distacco dalle cose terrene, al disimpegno, ma anche in un senso molto diverso, sovversivo e irriducibile alla contemplazione di quel che è come è sempre (per Taubes c’era addirittura in Paolo una intenzione “anti-imperiale”): a vigilare nel presente, a militare, a scegliersi una parte. Dal tempo abbreviato può allora venire un avviso di novità, di discontinuità, che si può riportare ad un orizzonte mondano e non esclusivamente “teologico”, dentro quella pluralità dei tempi in cui stavamo addentrandoci. Quanto alla poesia di Alziati, a questo punto è utile rammentare che un suo poeta di riferimento, oltre a Brecht, è Fortini, il quale proprio al passo della lettera ai Romani si richiama in versi testamentari compresi in Composita solvantur, l’ultimo suo libro.
In conclusione, due appunti di ordine generale. Il primo a proposito della difficoltà: fare esperienza di una diversa dimensione del tempo, del suo stratificarsi e imbrogliare le vele, cioè rivoluzionare il nostro senso corrente del tempo, non può avvenire senza un elemento di rottura, una forzatura della normale consecutio temporum e della stessa lingua della poesia. Il libro di Alziati appartiene a un filone della sensibilità, a una tradizione che scommette sul cambiamento, e per questo non offre comode tregue al lettore. Come non piangenti non può né vuole essere un libro facile.
La seconda è che infine non pretendo, con queste mie annotazioni sul tempo, di aver minimamente reso conto della ricchezza del libro, anzi mi accorgo di averne trascurato parti essenziali. Se è vero infatti che il male della «storia che ci crepa» è pervasivo nelle pagine di Come non piangenti, proprio per questo l’invito che ci viene da quelle pagine, in forma di poesia, è a non rassegnarsi e a vedere, insieme, il «dono» e l’«offesa» del nostro tempo, così come in un verso, in uno stesso verso, leggiamo: «e provo intero il dolore, so la gioia intatta.» Il dolore, intero, ma anche la gioia: a questo libro è lecito nominare una parola che altrove suona ormai come una parodia, o priva di senso e anzi addirittura urtante. Qui la troviamo in una poesia, pensate, dedicata a Etty Hillesum; e per come io leggo Come non piangenti si tratta infine di una gioia interamente e solamente umana e mondana, quella che per Benjamin dovrebbe guidare gli uomini nel necessario cambiamento del mondo. Provare ad ascoltare il gemito della natura e, nello stesso tempo (il nostro tempo) mantenere intatta la promessa di quella gioia è la pretesa che fonda la militanza e la perseveranza di Cristina Alziati; e senza quella pretesa, credo, non capiremmo la sua poesia (e tanto altro).