«La miccia del petardo
si accende a pagina uno»
Intervista a Luca Bertolotti
Carlo Baghetti
La sacralità del lavoro, il lavoro come strumento d’elevazione, mezzo per realizzare sé stessi, ma soprattutto per rendere migliore la comunità di cui si fa parte, è una concezione radicata in molte famiglie italiane, soprattutto quelle degli anni Cinquanta e Sessanta. Un punto di vista, potremmo quasi dire un’ideologia, che si rarefà – non completamente – andando avanti nei decenni: il Sessantotto e l’autunno caldo ridimensionano fortemente tale principio, il Settantasette continua nel solco della contestazione e lo fa vacillare ancora di più, ma la stoccata definitiva non arriva grazie a un modello alternativo, bensì dalla degradazione del lavoro stesso. L’instabilità, l’incertezza, le scarse misure di sicurezza trasmutano la percezione del lavoro e anche un personaggio come Livio, allevato nel più alto rispetto del lavoro, sogna di far parte di una società segreta «per non lavorare più».3
Livio così entra in una piccola e irragionevolmente ambiziosa fabbrica, gestita da un suo amico d’infanzia, Elia, e diventa uno strumento nelle mani di Bertolotti per raccontare il degrado del mondo industriale italiano, anche quello maggiormente à la page, anche il modello d’economia flessibile capace d’imporsi a livello europeo. L’autore milanese però non si limita a costruire un romanzo di denuncia circa aberrazioni del secondario, un genere che la realtà italiana costringe a non passare di moda, ma gli dona un forte impianto narrativo, mescolando i codici del romanzo di lavoro4 a quelli del romanzo d’avventura. La commistura di tali modelli ha per esito un romanzo godibile, che pur non sacrificando nulla in chiave narrativa riesce comunque a portare all’attenzione del lettore nuove e antiche ingiustizie, più o meno recenti storture del mondo lavorativo.
Ci è dunque sembrato utile intervistare Luca Bertolotti su varie questioni, come ad esempio il rapporto ch’egli intrattiene con la letteratura industriale, con autori più recenti di letteratura del lavoro, d’interrogarlo sulle scelte narrative compiute e sugli esiti ricercati.
Carlo Baghetti: In Italia abbiamo una lunga tradizione di scrittori che hanno tentato di raccontare la fabbrica. La stagione più nota è quella che va sotto l’etichetta di “letteratura industriale”, tra gli anni ‘50 e ‘70: Volponi, Ottieri, Davì, Balestrini, Levi, Di Ruscio, fino a Di Ciaula,5 a cui vanno aggiunti narratori e poeti che non hanno raccontato esclusivamente il lavoro negli opifici, ma anche quello negli uffici o nelle scuole: tra gli altri, Bianciardi, Mastronardi, Parise, Pagliarani o Buzzi.6 Partirei con una domanda un po’ scontata, forse, ma credo che interessi chi si occupa di letteratura del lavoro: qual è il tuo rapporto con questo filone letterario? Quali sono gli autori che senti più vicini e per quali ragioni?
Luca Bertolotti: Il mio rapporto con questo filone letterario è controverso: da una parte hai citato nomi molto importanti (Levi, Volponi, Bianciardi… mettono quasi soggezione), dall’altra però nella nostra letteratura manca una visione prettamente operaia della fabbrica. Quelli citati sono intellettuali o comunque esponenti di quella che un tempo si poteva definire “borghesia”. Vivono la fabbrica con uno sguardo “privilegiato” e quando sono dentro (mi viene in mente Levi che era dirigente in un impianto chimico) tendono a occupare i piani alti della gerarchia. Diversa cosa è vivere la fabbrica da operaio adesso, dopo il crollo dei sindacati nell’immaginario collettivo. Forse il discorso sulla fabbrica andrebbe riattualizzato. Di fabbrica si vive ancora, si muore ancora, anche se non sono più gli anni Settanta, in cui c’erano film come quello di Elio Petri7 che la consegnavano alla storia. La gente sembra essersene dimenticata, ma la fabbrica esiste ancora.
CB.: Il filone della letteratura del lavoro ha, però, anche un proseguimento contemporaneo. A partire dagli anni ’90, in particolare da quel 1994 che per l’Italia, anche politicamente, ha significato molto, il tema del lavoro torna prepotentemente di moda. I primi furono Nata, Pennacchi e Culicchia, ma poco dopo se ne aggiunsero altri: Murgia, Fazzi, Rea, Nigro, Santarossa, Avallone, Falco, Trevisan, Prunetti, Valenti8 e dovrei nominarne ancora molti. Ti faccio ancora una domanda scontata: quali sono gli autori che senti più vicini? Trovi che alcuni di loro abbiano poetiche o, perché no, obiettivi politici che senti condivisibili? E da chi, invece, provi un sentimento di distanza?
LB.: Sicuramente sento molto vicino il Trevisan di Works, al punto tale da aver fatto quasi gli stessi lavori! La sua non è la visione consolatoria di chi può parlare di lavoro e manovalanza a distanza di sicurezza. In Works viene fuori tutta l’angoscia di chi cerca un’ultima via di fuga nella scrittura e in questo mi sento simile a lui, anche se poi sul piano stilistico tra noi ci sono più divergenze che similitudini. Di Pennacchi ho letto più di un libro, ma la sua fabbrica (parlo dei racconti)9 è ancora quella degli anni in cui la politica arrivava a coinvolgere attivamente le maestranze. Ora la fabbrica è territorio di nessuno, una zona grigia senza una vera a propria identità, pronta a vendersi al miglior offerente. Il Falco di Ipotesi di una sconfitta è un altro esempio interessante e validissimo di come si può parlare di lavoro oggi.
CB.: Parlerei adesso del tuo Poliestere. Una delle caratteristiche che mi ha maggiormente sorpreso è la virata narrativa che imprimi alla trama a partire dalla metà dell’opera. A un certo punto, quella che sembrava una storia di fabbrica ordinaria e che riprende persino temi cari alla tradizione cui abbiamo appena fatto riferimento, assume i panni di una spy story, di un romanzo d’avventura, con tanto di navi, misteri, capitani e pirati (passami il termine, anche se non li vesti con la benda sull’occhio). Come mai hai avuto questo desiderio? E perché il ricorso ai moduli del romanzo di genere si delineano a metà dell’opera e non dall’inizio? L’avevi progettato così, oppure è un’idea che ti è venuta nella fase di scrittura, un cambio inatteso?
LB.: Il progetto della seconda parte nasce sin dall’inizio. Una volta parlai con il titolare della fabbrica che mi ha ispirato il libro e venne fuori questa idea, tra il serio e il faceto (più faceto che serio, a onor del vero), di liberarsi di un container come succede in Poliestere. Idea, per fortuna, mai presa in considerazione. Al mio alter ego ho lasciato che la cosa accadesse per davvero. Potere della narrativa! Per il tono e l’umore del libro, per me, era fondamentale che, ad un certo punto, in una storia fatta di interni e luci al neon, i conflitti venissero affrontati su di un campo universale come è l’oceano, includendo anche tematiche più ampie (vedi i rifiuti elettronici dell’occidente e il riferimento implicito ad un modo ancora più brutale e arcaico di lavorare). La figura del capitano, in un certo senso molto allegorica, è come se guidasse Livio ed Elia nel vicolo cieco del finale e li costringesse ad affrontare il gigantismo di quello che sta fuori dalla fabbrica. In mezzo alle onde loro due tornano ad essere persone non più strutturate dal lavoro: non rappresentano più classi sociali diverse e avverse. Sono solo loro due e basta. Amici.
Detto questo, sono contento che le tematiche affrontate nel libro abbiano uno sbocco quasi avventuroso in questo finale. La miccia del petardo si accende a pagina uno, quasi impercettibile, ma scoppia nel momento in cui Livio ed Elia finalmente devono gettare il container nel mare. È stata la parte più rischiosa da scrivere e quella per cui ho dovuto documentarmi di più, ma alla fine è quella che, spero, renda questo libro diverso da qualsiasi altro resoconto sul mondo del lavoro.
CB.: Rimarrei anche qualche istante sulla questione del romanzo di genere. In Italia, lo abbiamo visto con alcuni eccezionali esempi narrativi (penso a Carlotto, a Genna, a Lucarelli), tale tipologia è stata utilizzata per esplorare i bassifondi della storia più recente, per indagare alcuni fitti misteri nostrani. Nel tuo romanzo non si parla della Storia recente, ma la storia (quella con la minuscola, quotidiana, dimenticabile) è messa ben in evidenza: capannoni industriali che non rispettano normative ambientali o di sicurezza dei lavoratori, macchinari non a norma che amputano gli operai, lavoratori assunti a nero e costretti a fuggire all’arrivo di un ispettore del lavoro. Possiamo dire, nel tuo caso, che il ricorso al romanzo di genere sia un modo per intercettare un più vasto pubblico e metterli di fronte alla brutalità dell’industria italiana? Senti stretta o, al contrario, pesante e inadeguata la definizione di “romanzo di denuncia”?
LB.: Se qualcuno vuole leggere nel mio libro una qualche denuncia del presente ben venga, ma vederlo unicamente sotto questo aspetto può anche esser fuorviante. È principalmente l’opera di un operaio che doveva togliersi un dente marcio da tempo e che ha dovuto affondare le mani nell’autobiografismo, così come nella mistificazione e nella menzogna (vedi la parte ambientata in mare). È anzitutto, ci tengo a precisare, un’opera di narrativa, e come tale ha una sua dose di “intrattenimento”. Poliestere è nato principalmente per dare un senso a tre anni lavorativi piuttosto duri, per cercare una vita narrativa sotto la crosta della realtà quotidiana.
CB.: Vorrei farti ancora due domande. La prima riguarda il rapporto tra dimensione personale e collettiva. Spesso, nei romanzi contemporanei sul lavoro, è una singola individualità che viene raccontata, rari sono gli esempi in cui si parli di un gruppo, un insieme, una “classe” (uso questo termine démodé, ma che credo ascolteremo spesso nei prossimi tempi) e Poliestere non fa eccezione: il protagonista, Livio, è solo, i pochi amici che ha non sono affettuosi, non mostrano premure. Semmai si metterà in salvo, Livio lo farà per sé, in quando individuo e non perché fa parte di una comunità. Perché hai scelto questa modalità? Non credi che se c’è una via d’uscita dalla crisi attuale, è proprio la comunità, la classe, il prendere coscienza che, nonostante le mille tipologie di contratti precari, siamo tutti parte di una classe subalterna, che costituiamo un proletariato in versione 2.0?
LB.: Sarebbe un mio sogno che la classe operaia (e non solo) tornasse coesa a rivendicare i propri diritti, ma riguardo ad una coscienza collettiva sono fortemente disilluso. Sono troppi anni che sento parlare nella fabbrica di sindacati come se fossero animali di grossa taglia estinti da un pezzo. Se poi vogliamo inoltrarci nella pletora di partite iva, co.co.co, interinali e via dicendo il discorso si fa ancora più problematico. Siamo tutti naufraghi senza una visione di insieme. E per campare siamo costretti a non guardare più in là del nostro naso; la nostra visuale a pelo d’acqua è buona per farci trovare pezzi di legno e quant’altro ci facciano galleggiare. Spero sempre che arrivi qualcuno in grado di smentirmi.
CB.: Un’ultima domanda riguarda la concezione del lavoro, un aspetto che nel corso dell’ultimo secolo, nelle fabbriche d’Italia è cambiato molto, soprattutto con l’avvento del ’68-’69. Livio proviene da una famiglia di operai, in cui resiste una sorta di “religione del lavoro”. È la sua educazione, è cresciuto a pane e sacrifici, e questo si vede per l’applicazione che mette nel suo lavoro di verniciatore, nonostante le pessime condizioni. Va però a visitare la mostra di Kiefer, Sette Palazzi Celesti, e il narratore commenta come Livio aspetti «si celebrasse il funerale del lavoro».10 Poche righe dopo, Livio dirà alla figlia della sua compagna, Martina, che è in una società segreta che si batte per «non lavorare più».11 Il protagonista sembra così intrappolato tra due concezioni opposte del lavoro: il lavoro come religione e il rifiuto del lavoro. Pensi che questa ambivalenza sia caratteristica del mondo del lavoro contemporaneo, in cui si cerca di far coincidere passione e lavoro, ma le condizioni in cui lo svolgiamo sono pessime e respingenti?
LB.: Assolutamente sì. Hai centrato il problema. Però questa ambivalenza potrebbe rivelarsi in ultima istanza una risorsa, un modo per non immolarsi del tutto nella ricerca di un salario, ad esempio. Anch’io come Livio Belotti ho un atteggiamento decisamente ambivalente riguardo al lavoro. Ho introiettato quella necessità del fare che è tipica di famiglie come la mia, ma al contempo una parte di me, rimasta selvatica, strattona in direzione contraria, soprattutto quando le condizioni lavorative diventano critiche. Difatti mi è capitato di licenziarmi, come fa Livio Belotti in Poliestere, da un lavoro a tempo indeterminato senza avere nessun’altra alternativa e nonostante la contrarietà del mio datore di lavoro.
1 L. Bertolotti, Poliestere, Roma, Fandango, 2020.
2 Id., La bambina falena, Roma, Fandango, 2018.
3 Id., Poliestere, cit., p. 18.
4 Per un’analisi dettagliata di questo aspetto mi permetto di rimandare a C. Baghetti, «Works» by Vitaliano Trevisan and the representation of work in the neo-liberal age, in A. Condello, T. Toracca, Law, Labour and the Humanities. Contemporary European Perspectives, London, Routledge, 2019, pp. 183-198.
5 P. Volponi, Memoriale, Torino, Einaudi, 1962; Id., Le mosche del capitale, Torino, Einaudi, 1989; O. Ottieri, Tempi stretti [1957], Matelica, Hacca, 2012; Id., Donnarumma all’assalto, Torino, Einaudi, 1959; Id., La linea gotica. Taccuino industriale [1963], Parma, Guanda, 2012; L. Davì, Gymkhana-Cross [1957], Matelica, Hacca, 2011; N. Balestrini, Vogliamo tutto, Milano, Feltrinelli, 1971; P. Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1978; L. Di Ruscio, Romanzi, Milano, Feltrinelli, 2014; Id., Poesie operaie. Scelta antologica, Roma, Ediesse, 2007; T. Di Ciaula, Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud [1978], Castelfranco Veneto, Zambron, 2002.
6 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 1957; Id., L’integrazione [1960], Milano, Feltrinelli, 2014; Id., La vita agra [1962], Milano, Bompiani, 2009; Id., Cassola C., I minatori della Maremma, Bari, Laterza, 1956; L. Mastronardi, Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano, Torino, Einaudi, 2016; G. Parise, Il padrone [1965], Torino, Einaudi, 1971; E. Pagliarani, La ragazza Carla, Milano, Mondadori, 1962; G. Buzzi, Il senatore, Milano, Feltrinelli, 1958.
7 E. Petri, La classe operaia va in paradiso (1971).
8 M. Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Milano, Isbn, 2006; G. Fazzi, Ferita di guerra, Roma, Gaffi, 2005; E. Rea, La dismissione [2002], Milano, Feltrinelli, 2014; R. Nigro, Malvarosa, Milano, Rizzoli, 2005; M. Santarossa, Viaggio nella notte, Matelica, Hacca, 2012; S. Avallone, Acciaio, Milano, Rizzoli, 2010; G. Falco, Pausa caffè, Milano, Sironi, 2004, Id., Ipotesi di una sconfitta, Torino, Einaudi, 2017; V. Trevisan, Works, Torino, Einaudi, 2016; A. Prunetti, Amianto. Una storia operaia [2012], Roma, Alegre, 2014; Id., 108 metri. The new working class hero, Roma-Bari, Laterza, 2018; S. Valenti, La fabbrica del panico, Milano, Feltrinelli, 2013.
9 A. Pennacchi, Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni, Milano, Mondadori, 2006.
10 L. Bertolotti, Poliestere, cit., p. 17.
11 Ivi, p. 18.