Céline, fantasmagoria e traduzione
Per una recente ristampa
Pierluigi Pellini
È il trauma originario, da cui nasce non solo il primo romanzo, Voyage au bout de la nuit (1932), che resta senz’ombra di dubbio il suo capolavoro, e che proprio dall’arruolamento, e dai mesi della “battaglia delle frontiere”, prende l’abbrivio; ma anche tutta la successiva, drammatica e ancora oggi controversa, vicenda dello scrittore e dell’ideologo antisemita e filo-nazista, se è vero che il fine esibito – e probabilmente, almeno in parte, sinceramente perseguito – dei suoi pamphlets razzisti e della sua militanza collaborazionista è quello, nobilmente pacifista, di evitare a ogni costo una nuova carneficina («Volevo impedire il Macello!»), una nuova strage di soldati semplici, orchestrata da quei poteri economici e politici che le leggende nere del più becero nazionalismo identificavano con la finanza ebraica. Non è certo per caso, del resto, che il ’14, con i suoi massacri, e il ’17, con le sue fucilazioni, tornano ossessivamente anche nei romanzi sulla seconda guerra mondiale.
Dell’abiezione senza limiti dell’uomo Céline, oggi non è più lecito dubitare, dopo la requisitoria di Annick Duraffour e Pierre-André Taguieff:1 grosso tomo quanto mai sgradevole alla lettura, per l’ostentata indifferenza alle qualità estetiche e alla complessità della parola letteraria, ma d’impianto probatorio documentatissimo e schiacciante – sarebbe tempo, anche in Italia, di non prender più per oro colato biografie datate e vagamente apologetiche come quella di François Gibault (1985). Altrettanto illimitate, e fraterne per ogni lettore non accecato da militanza ideologica (fraterne sempre, e a maggior ragione in queste settimane di reclusione domestica), sono però anche la sofferenza, la paura, la rancorosa ribellione di un individuo anarchico, che in ogni forma di controllo sociale (dai pettegolezzi di un condominio parigino alle pastoie della burocrazia sovietica), in ogni gerarchia di valori culturali (specie se ufficiali), riconosce l’ordine omicida di una macchina bellica, l’allineamento feroce di un plotone d’esecuzione; e solo alle primarie esigenze del nudo corpo, a un elementare e incoercibile vitalismo («io sono del Partito della vita ecco!») attribuisce i crismi della verità umana.
Proprio nei tre famigerati pamphlets, Céline elabora quello stile sincopato, quel ritmo concitato e interiettivo, quell’accumulo di urlate e illogiche imprecazioni, che dominerà nei romanzi del secondo dopoguerra, trasformando la pagina in esploso mosaico di figurazioni espressioniste e deliranti j’accuse. Per questo hanno sbagliato di grosso prima Lucette, e poi i custodi del politicamente corretto alla francese, a interdire Oltralpe la ristampa delle Bagatelles pour un massacre, il cui magma farraginoso di fiele e pregiudizi (non a caso sospetto agli occhi dei più avvertiti fra i gerarchi nazisti) si rivela immediatamente per quello che è: ferita immedicabile, lacerazione dell’io, odiosamente sublimata in micidiale felicità espressiva.
Alla stessa retorica ostentatamente non argomentativa, alla stessa prosa interiettiva, scandita dall’afasia dei puntini di sospensione, ricorre Céline nei primi due romanzi autobiografici scritti dopo la guerra, Féerie pour une autre fois I e II: il primo ambientato negli ultimi giorni prima della fuga dalla Francia, e poi nella prigione danese; il secondo virtuosistica mimesi, e insieme espressionistica ri-creazione, e onirica amplificazione, di un bombardamento alleato su Parigi – più di 350 pagine per un’unica notte. Entrambi denuncia vittimistica di un complotto ai danni del «solo scrittore francese che è stato in gattabuia nel corso di questi anni sinistri» (come se quattordici mesi dietro alle sbarre danesi fossero stati peggio della fucilazione toccata a un Brasillach, o del suicidio scelto da un Drieu la Rochelle), e rivendicazione di un’assai dubbia innocenza del Céline medico dei poveri, al servizio degli umili e degli animali («amo Bébert», il gatto, «amo i miei malati»), corpo estraneo nei salotti collaborazionisti, filo-tedesco per mero calcolo pacifista, e ora capro espiatorio dell’ipocrisia engagée. Entrambi i romanzi esibiscono una vorticosa commistione di cronaca e memoria: «Confusione dei luoghi, dei tempi!». Entrambi sono incalzati da un’ansia esistenziale, immediatamente tradotta in stile, che travalica le contingenze giudiziarie, per diventare cifra dell’intera vicenda céliniana: «Mai, mai ho potuto aspettare!», perché aspettare è il privilegio dei ricchi.
Se però il bersaglio più frequente delle più colorite invettive non sono i vari intellettuali della gauche, «il fantoccio Narte e la bella Elsa» (Triolet: che, in una pagina coprolalica e visionaria orina addosso all’io narrante), ma Jules, il pittore e scultore alcolizzato e destrorso, mutilato della Grande Guerra, doppio finzionale di Gen Paul, un tempo amico strettissimo di Céline, non è solo per sopravvenuta distanza ideologica o per dissapori personali. Certo, Jules è il collaborazionista prudente, che dopo Stalingrado scarica lo scrittore, dandogli del «crucco»; e per di più insidia sua moglie, in un accesso di disgustosa lubricità, ambiguamente tollerato da Lili e ossessivamente rievocato dalla gelosia paranoide del narratore. Se l’astemio Céline si presenta come «l’uomo delle mistiche che non pagano», Gen Paul è al contrario l’opportunista, che alla Liberazione scamperà da ogni purga – lui, che era stato commensale dell’ambasciatore tedesco Otto Abetz nella Parigi occupata. Ma è anche il pittore di Montmartre, che incarna un’idea di arte al tempo stesso popolare e espressionista. L’incubo che stravolge l’universo narrativo di Céline, trasformando la cella danese in cassa di risonanza del trauma, o il bombardamento alleato in luciferina esibizione pirotecnica – quasi il quadro di uno Chagall ‘nero’ che, nel cielo di Parigi, al volo dei bombardieri intreccia il vorticare dei palazzi distrutti –, traspone in linguaggio un’analoga tensione creatrice, spennellando e modellando un’immagine di strazio («era più terribile che le sue tempere»), che accomuna le macerie belliche e l’interiorità del colpevole sopravvissuto, vittima del sadismo gregario e del macabro voyeurismo dei vincitori.
Un corposo volume, appena uscito nell’elegante collana delle «Letture Einaudi»,2 riunisce finalmente anche in italiano i due libri gemelli. Ma non restituisce al secondo il titolo scelto dall’autore, a sancire l’unità del dittico: Féerie pour une autre fois II. Il ritorno del reprobo nelle librerie francesi, con la prima Féerie, nel 1952, fu un fiasco, nonostante la prestigiosa cauzione offerta dai tipi di Gallimard; fu proprio l’editore, due anni dopo, a sbattezzare Féerie II, che diventò Normance, dal nome di un comprimario ottuso, pachidermico, sonnolento, e nondimeno bestialmente aggressivo: per segnare una distanza fra i due libri, a fini meramente commerciali. La ricostruzione del maggiore specialista di filologia céliniana, Henri Godard, non lascia adito a dubbi: poco comprensibile, perciò, la scelta di Einaudi di conservare il titolo spurio. E anche quella di rinunciare a ogni forma di apparato critico: almeno qualche nota di servizio sarebbe stata indispensabile all’intelligenza minima della lettera di due romanzi che rigurgitano di allusioni a un presente ormai lontano, a una cronaca dimenticata anche in Francia, a un’autobiografia per molti versi ancora oscura. (Non aiuta il saggio, pur bello, di Raffaeli: integrato al volume alquanto frettolosamente, al punto che le citazioni dai due romanzi rinviano alle vecchie edizioni novecentesche).
Suscita un più limitato stupore (ma non minore perplessità) il fatto che Einaudi riproduca per entrambi i testi, senza correzioni, la traduzione del poeta Giuseppe Guglielmi, che risale agli anni Ottanta del secolo scorso, e si rivela idiosincratica, se non fuorviante, fin dal frontespizio, dove Pantomima vira al comico e al teatrale l’ambivalenza della Féerie: fantasmagoria in bilico fra incantesimo lirico, o fiabesco, e grottesca deformazione (curiosamente, nel testo, Guglielmi è costretto a rendere quasi sempre féerie appunto con «fantasmagoria»). Ma si tratta di una versione ormai entrata nel mito, spesso promossa a ineguagliabile modello dai più agguerriti studiosi di teoria della traduzione (la cosiddetta traduttologia); di certo, più ammirata concettualmente che concretamente letta. Nell’habitus traduttivo di Guglielmi – che con analoga strumentazione teorico-linguistica ha riscritto (più che tradotto) anche la cosiddetta Trilogia del nord (sempre per Einaudi) e Morte a credito (rimasto nel cassetto, per ragioni legate ai diritti d’autore) – convergono, per dirla in soldoni, le suggestioni di Walter Benjamin e quelle del Gruppo ’63. In primo luogo, una lettura banalizzante del troppo celebre saggio benjaminiano sul Compito del traduttore, che dichiara avanguardistico sprezzo per le esigenze del lettore («Mai, di fronte a un’opera d’arte o a una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo per chi la riceve»), e sembra autorizzare il calco in nome di un’estremistica fedeltà «interlineare» alla partitura linguistica dell’originale. In secondo luogo, il partito preso ‘sperimentale’, per cui l’effetto ritmico fa aggio sul senso, la riuscita sonora della singola frase conta più del filo narrativo (che pure nell’originale è rivendicato: «C’è un filo continuo giuro»), e insomma l’autonomia del significante nega ogni diritto alla denotazione.
Il racconto, nell’ultimo Céline, è al tempo stesso frammentato e ridondante, ma non rinuncia a una stravolta rappresentazione della realtà; la lingua è sovraccarica, agglutinata, sopra le righe, mai però intransitiva – anzi, vuole essere «trasposizione immediata spontanea» di un intimo monologo, come spiega la lettera famosa a Milton Hindus del 15 maggio 1947. Lo scrittore sa bene che l’effetto di parlato nasce da un complesso, raffinato artificio verbale: che deve tuttavia rimanere invisibile, mirando a un’impressione di mimesi dell’oralità, di violenta immediatezza. È la celebre «resa emotiva», la celeberrima petite musique: personalissima, e nondimeno comunicativa. Guglielmi s’inventa invece una lingua intransitiva e inesistente, che per conservare in qualche modo la cadenza ritmica dell’originale accumula i calchi sintattici e le infedeltà lessicali, al punto da rendere molte pagine quasi (o del tutto) incomprensibili.
Féerie II, per esempio, è ambientato in gran parte nella loge, cioè nella ‘portineria’, al pianterreno del palazzo in cui abita il narratore, a Montmartre. In italiano si svolge invece in una «loggia», inopinatamente abitata da una «bidella»: poiché Céline dice bignolle, ‘portinaia’ in argot, il traduttore sacrifica il senso al piacere di una vaga consonanza. Jules è sistemato in una gondole: il termine in francese può designare, oltre che un’imbarcazione, una poltrona; qui indica una sedia per invalidi; ma per Guglielmi è, a ripetizione, «gondola». Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma più ancora delle alterazioni del senso, che sfociano nel nonsense, e più ancora dell’arbitraria Wortbildung – toboganner, per dirne una, è neologismo céliniano di immediata comprensione: ‘fare lo scivolo’; Guglielmi s’inventa un assurdo «tobogarullare» –, disturbano i cervellotici sconvolgimenti della sintassi. La sistematica posposizione della particella negativa, che scimmiotta il pas francese, può certo trovare riscontri, in ambito italiano, nei dialetti settentrionali; ma l’accumulo stride: «lui ha no il delirio», «È no da ieri che ci si conosce», «Hai no conosciuto l’Antico», «Rendi no il mezzo servizio?», «Voi mi sentireste no due volte», «Io mi nascondo no», e così via, a ogni pagina. Siccome anteporre l’avverbio negativo pareva a Guglielmi disdicevole, se nel suo testo si legge «sta più vicino alla moglie», bisogna intendere «non sta più…»; così, «è più che un coagulo la sua testa» vuol dire naturalmente «non è altro che un coagulo». Ma ancora più fastidiosi e inutili appaiono lo stucchevole “solo che”, a volte per ricalcare rien que, a volte per puro gusto della distorsione: «niente risposte evasive! solo che il categorico!», «c’è solo che me là», «più solo che menzogne di partigiani», «solo che fiori di melinite», «c’è mica solo che svenuti là sotto», «c’è solo che Delphine che li interessa»; o l’onnipresente ‘che’ asemantico, intercalare: «Con me che se la prendono», «Tu pagherai per tutto! che hanno detto!»; o il puro e semplice calco: «la memoria ha ben poco ritenuto», «Me la purezza della danza io capisco», «i tuoi begli occhi svoltano rospi» (il meraviglioso «que vos beaux yeux tournent crapauds», forse con memoria di Molière e di Hugo: ‘diventano’, o ‘si trasformano in’, ovviamente); «è più il piccolo maestro per niente» (cioè: «non è più l’elegantone, per niente»); o addirittura «a pelo, che è!» (à poil, «nudo»).
Il lettore chic e snob, che si limitasse a delibare qualche brano sparso, aprendo a caso il volume, potrebbe facilmente imbattersi in una trovata felice: così, per esempio, Normance, commerciante disonesto in tempo di guerra, in francese designato con l’italianismo mercanti (singolare), diventa «borsaro nero». Forse questo lettore supercilioso troverebbe materia per perpetuare il mito del Guglielmi traduttore d’avanguardia; o forse si farebbe l’dea che Céline scrivesse in petit nègre: «quindici giorni faceste niente cacca abbaiereste no voi?». Chi tuttavia pretendesse (ingenua pretesa?) di leggere di filato l’intero volume – come s’è sentito in dovere di fare il sottoscritto, per deontologia di scrupoloso recensore: ricorrendo continuamente all’originale francese, per capirci qualcosa – proverebbe (per dirla nella lingua di Guglielmi) solo che un senso d’irritata frustrazione.
[Una versione considerevolmente più breve di questo articolo è uscita su «Alias» («il manifesto»), domenica 26 aprile 2020, pp. 1 e 4, con il titolo L’ansia di Céline si fa stile]
1 A. Duraffour, P.-A. Taguieff, Céline, la race, le Juif. Légende littéraire et vérité historique, Paris, Fayard, 2017.
2 L.-F. Céline, Pantomima per un’altra volta. Normance, trad. it. di G. Guglielmi, Torino, Einaudi, 2020