La letteratura in prospettiva interculturale
Donatello Santarone

I. L’educazione letteraria in un’ottica contrappuntistica

L’educazione interculturale può essere definita una prospettiva pedagogica che assume la dimensione internazionale del sapere come asse centrale della teoria e della prassi formative: includere la storia e la cultura del mondo nei curricoli scolastici in un’ottica “contrappuntistica”, quindi non esotica né eurocentrica, ma relazionale e dinamica. Come ha scritto il critico palestinese-statunitense Edward Said,

abbiamo a che fare con la formazione di identità culturali intese non come essenze date (nonostante parte del loro perdurante fascino è che esse sembrino e siano considerate tali), ma come insiemi contrappuntistici, poiché si dà il caso che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti, negazioni e opposizioni: i greci hanno sempre avuto bisogno dei barbari, come gli europei degli africani, degli orientali e così via.1

Si tratta, in altre parole, di studiare gli “altri” nelle relazioni, fatte di scambi pacifici e di sanguinosi conflitti, che essi hanno intrattenuto con “noi”. In questa prospettiva l’educazione letteraria a scuola rappresenta un potente veicolo per decolonizzare un immaginario ancora fortemente italocentrico, incapace, cioè, di conoscere e di sentire l’altro – anche l’altro interno alle proprie tradizioni culturali – non come una minaccia, ma come occasione di nuovi e spesso imprevedibili scambi.

Proveremo quindi a intrecciare tre campi di ricerca teorica e di prassi educativa – la didattica, la letteratura e l’intercultura – partendo da due considerazioni preliminari.

La prima concerne la dimensione interculturale della letteratura, cioè il suo essere forma e contenuto fatta di forme e contenuti mai esclusivi, localistici, asfitticamente monoculturali. Non è necessario far riferimento agli ultimi indirizzi della ricerca post-coloniale per comprendere che da sempre l’opera letteraria si è caratterizzata per essere un crocevia di temi e linguaggi i più diversi. A partire da ciò che Bruce Springsteen chiama homeland, cioè un luogo, un punto di avvio, una radice iniziale per scrittori e scrittrici che hanno sempre avuto poi la capacità di varcare i confini, di modificarli arbitrariamente, di contaminare pensieri e parole in modo imprevedibile e straniante. Questa è la forza creativa della parola letteraria, che pure, per secoli e fino ad oggi, è anche testimonianza contraddittoria di miseria e nobiltà, riflettendo e talvolta occultando in maniera complice, nella sua abbagliante bellezza, conflitti di classe, guerre, privilegi, intolleranze. Nessuna “religione della poesia”, dunque, nessuna interessata difesa corporativa della letteratura contro la storia e gli uomini. Ma come per gli antichi marinai suadente e dolce era il richiamo delle sirene, così per noi è l’uso della parola letteraria, il suo irresistibile richiamo di verità, spesso capace, con il suo carico di ambiguità e di contraddittorietà, di aprire varchi nella conoscenza attraverso il piacere estetico, varchi che ci aiutano a leggere, interpretare, modificare con maggiore consapevolezza, e spesso in una prospettiva mondiale, il mondo storico in cui ci è dato di vivere.

La nostra patria filologica – ha scritto il grande critico e filologo Auerbach nel 1952 – è la terra; non può più essere la nazione. La lingua e la cultura della propria nazione, che il filologo eredita, costituiscono certamente tuttora il suo patrimonio più prezioso e irrinunciabile; ma solo nella distinzione, nel superamento, esso guadagna efficacia. Dobbiamo ritornare, in circostanze diverse, a ciò che già possedeva la cultura medioevale prima della formazione delle nazioni: al riconoscimento che il pensiero non ha nazionalità.2

La seconda considerazione concerne l’insegnamento/apprendimento della letteratura a scuola, l’educazione attraverso l’arte in primo luogo, come sosteneva Schiller (ma anche, aggiungiamo noi, e consapevoli dei rischi estetizzanti, l’educazione estetica all’arte).

Volevo dire che proprio della parola poetica è rivolgersi a tutto l’uomo, non all’uomo ‘poetico’, di essere una allegoria di totalità che parla a una totalità. […] È assolutamente giusto che il lettore legga certe parole e certi nessi (‘luna’, ‘pace’, ‘selva oscura’, ‘spoglia immemore’…) con un immediato confronto alle lune, alle paci, alle selve e alle spoglie della propria esperienza, riprendendo l’antico e sacrosanto principio schilleriano per cui l’’educazione estetica’ dell’uomo è ‘educazione mediante l’arte’ non ‘educazione a capire l’arte’.3

Lo spazio della classe, la comunità ermeneutica potenzialmente rappresentata da ogni gruppo di bambini e adolescenti “guidati” da un docente, rappresentano oggi, nella ridondanza del rumore di fondo mediatico e mercificato del capitale globale, forse l’unico luogo possibile per l’ascolto letterario, un residuo ancora miracolosamente scampato al rullo compressore delle “cose” che consente di avvicinarsi ad un testo per estrarne quell’alone semantico e sensitivo che esso sprigiona. Insomma, e pur con zone grigie e routinarie, la scuola ancora consente la fruizione non utilitaristica della parola poetica.

La letteratura è di per sé una disciplina aperta. Si fonda su una testualità data e dunque la sua comprensione presuppone il possesso di una serie di competenze specifiche; ma poi si presenta, all’atto dell’interpretazione, come punto di incontro e di interferenza di una serie di elementi culturali diversi, che implicano il mondo dell’esperienza esistenziale e quello dell’immaginario, la storia materiale e le ideologie, il passato e il presente, una visione nazionale e una sovranazionale. Essa comporta dunque per gli studenti la necessità di dotarsi di una capacità non strettamente specialistica e invece complessivamente critica e culturale con cui poter confrontare passato e presente, misurarsi con la complessità delle interpretazioni, articolare la storicizzazione delle opere e la problematizzazione delle questioni. La letteratura è un momento di apertura ad altri mondi, non di chiusura. E infatti il professore di letteratura non può essere solo uno specialista in senso filologico; deve essere un intellettuale, un mediatore di cultura esperto di educazione letteraria. Solo così lo studio della letteratura esprime e continuerà a esprimere un valore formativo generale, non ristretto, cioè, all’ambito disciplinare. Attraverso l’educazione letteraria il giovane può acquisire tre grandi capacità: la capacità cognitiva, come allargamento e approfondimento delle conoscenze specifiche della disciplina e delle conoscenze linguistiche e culturali che si ottengono dalla fitta rete di interferenze che presiede all’atto della lettura e dell’interpretazione; la capacità immaginativa, come arricchimento esistenziale, emotivo e culturale prodotto dal contatto con quel grande serbatoio dell’immaginario che è la letteratura; la capacità critica, come educazione alla complessità e alla problematicità del momento ermeneutico, alla parzialità e al carattere interdialogico di ogni verità e alla dialettica democratica del conflitto delle interpretazioni. Queste tre capacità delineano altrettanti obiettivi formativi. Essi sono strettamente inerenti all’atto interpretativo del testo letterario, che è polisenso per propria stessa natura e dotato dunque di una potenzialità simbolica. Nello stesso tempo però essi travalicano l’ambito disciplinare delle informazioni specifiche e delle competenze tecniche investendo il campo della formazione complessiva dei giovani e ponendo in modo nuovo la questione del rilievo generale che l’educazione letteraria deve continuare ad assumere nella scuola d’oggi e molto probabilmente anche in quella del futuro.4

Intutto ciò, naturalmente, la didattica come artificio comunicativo efficace riveste un ruolo primario. La conquista del silenzio nello scambio letterario, il peso della parola, la dizione chiara, distinta e “teatrale”, la scelta oculata dei testi, l’utilizzo di altre espressioni artistiche, lo scavo filologico, la lettura individuale silenziosa e non finalizzata, il ricorso a manuali agili e al cui interno siano centrali i testi e non gli apparati interpretativi (senza il venir meno di quadri storico-culturali-linguistici, essenziali per sottrarre la lettura al mero impressionismo), le verifiche e le valutazioni sobrie e funzionali a ciò che si è studiato, l’incontro in classe con scrittori e critici, la partecipazione a occasioni culturali proposte dal territorio, la riscrittura, il rifacimento, l’imitazione, la rielaborazione individuali, fino al pastiche, di un testo da parte degli allievi, a partire da regole retoriche apprese dalle opere studiate, l’ascolto della voce degli autori (attraverso documentazioni audiovideo), l’assimilazione lenta e molecolare di un’opera, di un testo, di un autore, di un periodo storico senza la presunzione enciclopedica e onnicomprensiva che caratterizza la cultura scolastica “mordi e fuggi” dell’“Antologia”, la capacità, insomma, di selezionare, di verticalizzare, di scavare in profondità, secondo un’idea pedagogica per la quale è meglio fare una cosa bene piuttosto che dieci male. Tutto ciò per abituare l’allievo all’hegeliana fatica del concetto, condizione indispensabile per un vero e maturo godimento estetico: premessa necessaria non tanto per sfornare tanti piccoli letterati, ma per consentire alle nuove generazioni un uso intelligente e critico delle proprie esistenze. Secondo il motto dello scrittore russo Herzen, per il quale «poeta puoi non esserlo, ma cittadino devi esserlo».

2. Le finalità dell’educazione letteraria

Tale prospettiva chiama in causa, a partire dai metodi, dalla didattica, anche e soprattutto le finalità dell’educazione letteraria e dell’educazione tout-court. Si tratta, come si può ben capire, di un problema di massima importanza che allude in primo luogo all’idea di società che si ha in mente e che si vorrebbe realizzare. Per ciò che ci riguarda, tali finalità sono in buona parte quelle contenute nella nostra Carta Costituzionale, dove con nettezza e passione sono affermati i principi di una società di liberi e uguali, una società nella quale i cittadini lavoratori siano tutelati nei loro diritti fondamentali al lavoro, all’istruzione, alla salute, all’assistenza e alla previdenza sociale, al godimento del patrimonio culturale e naturale di cui dispone il paese e a tante altre cose che gli uomini e le donne usciti dalla guerra di liberazione antifascista vollero scrivere nella Costituzione del 1948. Si tratta di un quadro di valori e di orientamenti che rappresentarono, al livello più nobile ed elevato per i tempi storici in cui si realizzò, un compromesso tra le grandi culture politiche e tra le forze sociali che avevano combattuto il nazifascismo e che affondavano le loro radici nella storia nazionale, dall’Ottocento in poi: quella cattolico democratica, quella socialista e comunista e quella laico repubblicana.

Va però precisato che quel compromesso è stato progressivamente eroso a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, da quando cioè, sull’onda di una restaurazione mondiale di forze liberiste e di idee ostili alle culture solidali, si è determinato, anche in virtù della dissoluzione dell’Unione Sovietica, un quadro mondiale caratterizzato da una supremazia del capitale in tutti gli aspetti dell’esistenza umana – dal lavoro al tempo “libero”, dai consumi alla cultura, ecc. Quella che per un secolo e mezzo era stata la grande speranza di tanta parte del genere umano – il socialismo, con il suo portato di uguaglianza e internazionalismo – è stata bruscamente ridimensionata, ma non certo estirpata, dalla coscienza e dall’azione degli uomini e delle donne. Con il risultato di far riemergere nazionalismi e fondamentalismi di ogni tipo che sembrano essere gli unici sfondi cogniti e pratici dove si collocano i conflitti determinati dal capitale globale e dalla supremazia, oggi solo militare, degli Stati Uniti d’America (supremazia che si è imposta con le due guerre del Golfo).

È inevitabile che il quadro sopra abbozzato si rifletta sui fatti educativi, che li condizioni e li determini, essendone tale quadro gramscianamente a sua volta anche determinato, e che, lo si voglia o no, chi operi nel settore educativo debba porsi alcune domande sui “fondamenti” del proprio mestiere: senso e finalità continuano a inquietarci in un mondo di merci e di diseguaglianze che si vuole presentare appagato, pacificato, naturale, eterno, insomma il migliore dei mondi possibili.

L’educazione, perciò, e in particolare un’educazione che si vuole a misura del mondo, che si vuole “interculturale”, non può che essere critica, contestativa dell’ordine di cose esistenti.

Così scrisse Pier Paolo Pasolini dopo il suo viaggio in India del 1961 in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante:

La nostra coscienza […] in questi ultimissimi anni, e proprio con l’affacciarsi alla scena della storia dei popoli sottosviluppati, dall’India, all’Indonesia, all’Africa, comincia a non accontentarsi più di essere solo europea, ma tende a farsi mondiale. Le tradizioni nazionali, così, rimpiccioliscono fino all’angustia, divengono fastidiose e insopportabili.5

E ad una domanda sull’importanza della Cina nella sua vicenda intellettuale, così rispondeva Franco Fortini:

Ho avuto, posso dire, tutto uno scaffale mentale, di testi sulla Cina, che vanno da opere divulgative sulla sua storia a frammenti della sua letteratura antica e moderna, letti in traduzioni di inverificabile qualità. Una quotidiana discussione mentale sui significati del “Paese di Mezzo” mi è durata per oltre venticinque anni e non può quindi, in nessun modo, venir descritta in termine di pagine di libri. Questi furono, certo, molti, da poeti antichi a Mao, da Il sogno della Camera Rossa a Lu Hsun; ma soprattutto furono opere di ricerca storica, di memorialistica e di politica, da Needham a Snow o da Hinton a Schurmann o Schramm. Credo che la dizione ‘paesi allegorici’, che ebbi a impiegare per una sezione di Questioni di frontiera, debba essere presa nel suo senso più forte. La cultura e l’esperienza di Edoarda Masi mi sono state un tramite necessario perché mi fosse possibile tracciare (con la rozza energia di una ignoranza che si ignora) i confini di un’altra parte del genere umano. Un libro come il suo Per la Cina vissuto tra la morte di Mao e la caduta della “Banda dei Quattro” è stato, per me, un luogo intellettuale e morale, che mi ha riassunto, come ho detto, venticinque anni di riflessioni e letture su quel tema. Finché ho capito che non avrei potuto andare oltre. Al di là c’è la Cina odierna, non più fantasma né proiezione, un paese come gli altri paesi, da decifrare o ignorare, ma senza più pensarlo come m’era parso nel 1955, ossia “altra faccia della luna”. Come credo di avere detto in più di una occasione, non ho mai condiviso le ridicole e puerili fantasie dei “cinesi” d’Italia o di Francia; mentre, fra i primi anni Sessanta e la metà dei Settanta, ho creduto – né ho da pentirmene – nel valore politico, a nostro favore, di quell’alterità radicale. Le mie letture sono state quindi dilettantesche e, nello stesso tempo, essenziali. Sono tornato, motivatamente, all’Europa “dagli antichi parapetti”, ma è mutato il mio modo di guardarmi intorno; quella difficile tensione fra similitudine e diversità, fra comprensibilità e incomprensibilità mi si accompagna ormai in ogni lettura, anche se lontanissima da quel paese e da quella cultura. Non si tratta di leggere Petrarca o Machiavelli in chiave “sinica”. Per carità. Ma valutare – la luna, ancora una volta – quali effetti magnetici si determinano, anche a nostra insaputa, a partire da quella massa di passato e di presente.6

Includere, quindi, anche la Cina nel nostro corredo concettuale. Per riscoprire e valorizzare, ad esempio, le relazioni tra i due paesi: da Marco Polo a Matteo Ricci, da Daniello Bartoli ad Alberto Moravia. Tale inclusione potrebbe portare anche a nuove scoperte – come è stato per il rapporto tra Dante e l’Islam7 – e nasce dalle domande del presente, dalle questioni poste, nel caso della Cina, dal ruolo centrale che oggi riveste quel paese, dalle relazioni culturali ed economiche che oggi l’Italia intesse con la Cina, dalla presenza sempre più numerosa di quelli che sono stati definiti i “cinesi d’Italia”,8 cioè gli immigrati cinesi presenti in Italia.

Tale capacità inclusiva e contrappuntistica presuppone, naturalmente, una capacità di decentramento del punto di vista, un’attitudine, come è stato detto dal keniota Ngũgĩ wa Thiong’o, considerato uno dei maggiori scrittori africani, a “spostare il centro del mondo”.

Spostare il centro del mondo mi interessa almeno in due sensi. Uno è il bisogno di spostare il centro dalla sua presunta posizione in Occidente verso una molteplicità di sfere in tutte le culture del mondo. La presunzione di identificare il centro dell’universo in Occidente è detta appunto eurocentrismo, presunzione che si è sviluppata con la dominazione del mondo da parte di un piccolo gruppo di nazioni occidentali. […] Il secondo senso è ancor più importante… All’interno di quasi tutte le nazioni di oggi il centro è posizionato nello strato sociale dominante, cioè una minoranza borghese e maschile. Ma poiché molte delle minoranze borghesi maschili del mondo sono ancora dominate dall’Occidente, vuol dire che il mondo, Occidente incluso, è dominato da parte di una minoranza razziale, borghese, maschile ed eurocentrica. Di qui la necessità di spostare il centro, facendo sì che esso passi dalle minoranze di classe ai veri centri creativi che si trovano tra i lavoratori in condizioni di uguaglianza sessuale, razziale e religiosa. Spostare il centro nei due sensi – tra le nazioni ed all’interno di esse – contribuirà a liberare le culture del mondo dall’oppressione del nazionalismo, del razzismo, del sessismo e da quella di classe. In questo senso sono un universalista impenitente. Credo, infatti, che pur mantenendo le proprie radici nell’individualità regionale e nazionale, il vero umanesimo, con la sua portata universale, possa fiorire tra i popoli della terra. Allora, per parafrasare Marx, il progresso umano cesserà di assomigliare all’idolo pagano che beveva nettare ma solo dai crani degli uccisi.9

Ma la dimensione internazionale del sapere interroga direttamente anche la storia e la cultura italiane. La presenza dei lavoratori stranieri nei luoghi della produzione e nella società e la presenza dei loro figli nelle scuole “costringe” anche gli italiani ad interrogarsi sulla loro identità, a riscoprire il “tasso” di interculturalità presente nella storia nazionale, a tematizzare questioni fino a ieri rimosse che chiamano in causa momenti centrali della vicenda politica e culturale dell’Italia.

Proviamo ad esemplificare: gli immigrati richiamano la vicenda dell’emigrazione italiana; i problemi dell’inserimento linguistico, culturale, religioso degli allievi stranieri richiamano problemi analoghi vissuti, ad esempio, dai figli degli emigrati italiani negli Stati Uniti o dai figli degli emigrati meridionali a Torino, Milano, Genova;10 l’esperienza di immigrati provenienti da paesi un tempo colonie della Francia, della Gran Bretagna, del Belgio, dell’Olanda ecc., richiamano l’esperienza coloniale italiana in Libia e nel Corno d’Africa;11 il razzismo a cui gli immigrati sono spesso fatti oggetto invita ad una riflessione sul razzismo italiano a partire dalle leggi razziali del 1938;12 le diverse comunità di immigrati e le culture di cui sono portatrici chiedono agli italiani, oltre ad una maggiore disponibilità a conoscere queste nuove realtà storico-culturali, di fare i conti con il modo in cui il mondo non occidentale è stato filtrato, elaborato e rappresentato dagli intellettuali italiani (ad esempio: Pascoli e la giustificazione ideologica del colonialismo italiano in Libia; Gozzano, Moravia, Pasolini e l’India; Cassola, Fortini, fino a Biagi e Terzani e la Cina…).

Riassumendo: lo straniero ci interroga e ci costringe a parlare di noi. Ciò significa, in ambito educativo, rileggere i contenuti scolastici e verificare – tra le possibili piste di ricerca – in che misura essi siano attraversati dalle questioni sopra accennate: emigrazione italiana, colonialismo italiano in Africa, leggi razziali e antisemitismo, rappresentazioni del mondo non occidentale.

III. Una letteratura mondiale

Già nel 1952, come abbiamo visto, Eric Auerbach era consapevole della necessità di assumere la goethiana aspirazione ad una “letteratura mondiale” come asse cognitivo e percettivo per lo studio e la fruizione di un testo letterario.

Mi convinco sempre di più – scrive l’autore del Faust – che la poesia è un patrimonio comune dell’umanità e si manifesta, ovunque e in tutti i tempi, in centinaia e centinaia di individui […] Per questo mi piace tener d’occhio le altre nazioni e consiglio a tutti di fare lo stesso. Oggigiorno letteratura nazionale non vuol dir molto, sta arrivando il tempo della letteratura mondiale [“universale”, nella traduzione di Vigliani] e ciascuno di noi deve contribuire al suo rapido avvento.13

Marx riprenderà alla lettera questo concetto nel Manifesto del partito comunista del 1848:

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili – industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.14

Oggi tale questione è centrale nella ricerca e nell’azione educativa, ma sembrerebbe che ad una moltiplicazione universale dei saperi e delle informazioni non corrisponda una curiosità altrettanto profonda, «contrappuntistica»15 e non esotica, verso le altre letterature.

Per la prima volta nella storia moderna, l’intero grandioso edificio del sapere umanistico, poggiante sui classici delle lettere europee, e con esso la disciplina di studio inculcata formalmente agli studenti nelle università occidentali, in forme a noi tutte familiari, rappresentano solo una frazione delle reali relazioni e interazioni umane attualmente in atto nel mondo.16

Se sul piano della ricerca e del dibattito accademico tutti sembrano concordare sulla necessità di allargare il canone, includendovi autori e testi di altre culture, nella pratica dei curricoli letterari scolastici e universitari si fatica ad assumere tale punto di vista. Anche se va apprezzato lo sforzo di quanti sostengono, in Europa, la necessità, perlomeno, di proporre un canone letterario europeo.

Allargare il canone sino a includervi gli stranieri comporta […] far ricorso prevalente alla traduzione invece che alla lingua originale. In molti casi, niente di male: ciascuno di noi ha ammirato Guerra e pace o Delitto e castigo, riconoscendoli come capolavori letterari, pur senza sapere una parola di russo. Qualcosa, certo, va perduto; ma è importante notare – come ha fatto Francesco Orlando – che una serie di strutture portanti della letterarietà sono sicuramente transnazionali in quanto indipendenti dalla lingua nazionale: i generi, la forma del contenuto e l’organizzazione interna delle opere, molte figure retoriche (le cosiddette figure di pensiero), la metrica, i temi non dipendono dalla lingua. Nel romanzo, per esempio, le forme del contenuto sono in genere assai più rilevanti degli aspetti fonici e fonico-simbolici. Se è vero che la traducibilità resta un problema insuperabile per la poesia lirica (per la quale l’organizzazione dei significanti è fondamentale e per cui dunque bisognerà tendere sempre a offrire una traduzione a fronte, senza rinunciare all’originale), così non è per l’epica, per la novellistica, per il romanzo, per le opere teatrali. Se, per esempio, la conoscenza del romanzo ottocentesco si limitasse a quella, pure importante, di Manzoni e di Verga, se ne avrebbe un’idea ben modesta.17

Vorrei ricordare le parole autobiografiche di una studiosa statunitense, Martha Nussbaum, sulla sua formazione e sul suo rapporto con le persone e le culture afroamericane nei primi anni Sessanta dello scorso secolo, parole emblematiche per capire quanto è lungo il cammino per una messa in discussione del primato occidentale (in questo caso anche “bianco”).

Nei primi anni sessanta, a Bryn Mawr, in Pennsylvania, le uniche persone nere con cui ho avuto la possibilità di entrare in contatto erano dei domestici. C’era una ragazza nera della mia età di nome Hattie, figlia di un domestico di un vicino particolarmente ricco. Un giorno, avevo circa dieci anni, io e Hattie stavamo giocando nella strada, quando le chiesi di entrare in casa mia per bere un po’ di limonata. Mio padre, cresciuto in Georgia, sbottò, dicendomi che non avrei mai più dovuto invitare in casa una persona nera. A scuola le cose non erano molto diverse: la scuola privata che frequentavo ammetteva persone nere solo come aiuto in cucina, e noi studenti eravamo incoraggiati a cancellare le loro immagini dalla mente negli argomenti che studiavamo. Il mio corso di storia infatti sorvolava quasi completamente sul tema della schiavitù. Nella scuola superiore o, in seguito, alla Wellsley e alla New York University, non ho mai letto un’opera letteraria scritta da un nero. W.E.B. Du Bois, Frederick Douglass, Booker T. Washington, Richard Wright, Ralph Ellison, Zora Neale Hurston erano tutti nomi sconosciuti. Non era possibile studiarli in alcuna occasione; semplicemente non venivano insegnati. Martin Luther King Jr. non poteva essere tralasciato, perché di lui parlavano i mass media, ma mio padre lo definiva un comunista agitatore di folle, e il mio insegnante non esprimeva opinioni. Nessun docente di musica tra i molti con i quali ho studiato pianoforte e canto mi ha mai accennato al jazz, e praticamente non ne ho sentito parlare fino a vent’anni, nonostante esso sia stato una tra le principali fonti di quasi tutta la musica classica moderna (quella di Copland, di Ravel, di Bernstein, di Poulenc) che suonavo e cantavo.18

Le opere letterarie vivono in relazione alle domande del presente e alle sollecitazioni del passato. Queste e quelle sono parziali e selezionate. Provengono da una parte di mondo e si propongono una certa idea di uomo e di società. Non sono mai asettiche o ecumeniche. Anche quando si vogliono universali, in realtà alludono, molto spesso in forma mediata, a ceti, classi, ideologie, interessi sempre in conflitto per affermare una propria egemonia. Ogni opera letteraria rimanda ad una determinata fase dello sviluppo storico. La totalità storico-figurale di Dante non è l’ascesi lirica di Petrarca. La lotta tra le poetiche e le forme è anche lotta tra immagini diverse dei destini umani. Ma tutto questo non avviene mai in modo meccanico.

È impossibile sperar di trovare (o di trovare sempre) le realtà sociali riflesse “in modo diretto” nell’arte, dal momento che esse passano (spesso o sempre) attraverso un processo di “mediazione” nel corso del quale si viene mutando il loro stesso contenuto originale. […] L’arte non riflette la realtà sociale, la sovrastruttura non riflette la struttura direttamente; la cultura è una mediazione della società.19

Cosa ha significato la presa di parola da parte degli antichi e nuovi “dannati della terra”? L’irruzione del proletariato sulla scena mondiale, la liberazione di popoli e nazioni dal dominio coloniale, il movimento delle donne e quello ambientalista, quello per i diritti civili a tutela delle minoranze religiose, sessuali, dei diversamente abili, come hanno modificato la scrittura letteraria e la sua fruizione? Quali effetti determina il mescolamento di uomini e donne determinato dalle migrazioni, il punto di vista narrativo del “nuovo esercito industriale di riserva” presente nell’occidente capitalistico? E ancora: gli studi post-coloniali, quelli sulla subalternità, sull’educazione interculturale come modificano il nostro approccio alla letteratura, le nostre chiavi interpretative, le nostre scale di priorità? In che misura contribuiscono alla fondazione di un canone interculturale?

Tenterò di rispondere individuando alcuni dei principali filoni di ricerca che hanno per oggetto, nella dimensione internazionale dell’educazione letteraria, il rapporto tra letteratura e intercultura:

1) La rilettura in chiave interculturale degli autori della nostra tradizione letteraria. Rileggere testi classici e canonici della tradizione letteraria italiana per rintracciare in essi la presenza di eventuali percorsi interculturali. Alcuni esempi: Dante, l’Islam e l’influenza del Libro della Scala nella composizione della Commedia; Tasso e la rappresentazione dell’Altro interno (eresia protestante) ed esterno (l’Islam) nella Gerusalemme Liberata; il tema della diversità e dell’intolleranza in Europa in Manzoni: i Promessi sposi e la Storia della colonna infame.

2) Il colonialismo nella letteratura italiana. Studiare autori che hanno trattato il tema del colonialismo italiano in Africa per individuare il particolare apporto del razzismo coloniale italiano all’immaginario colonialista europeo dell’Otto-Novecento. Alcuni esempi: Pascoli, la poesia Convito d’ombre e il discorso La grande proletaria si è mossa; Corradini; il romanzo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano.

3) La rappresentazione del mondo non occidentale presente nelle opere degli scrittori italiani ed europei. Studiare quelle parti solitamente poco considerate in cui gli scrittori scrivono su paesi e culture non occidentali. L’elenco è molto lungo e forniamo solo alcuni esempi relativi al Novecento italiano: Gozzano e l’India, Cecchi e il Messico, Ungaretti e l’Egitto, Moravia e l’Africa, Fortini e la Cina, Pasolini e l’India, Manganelli e la Cina. Per l’Europa cfr. i testi di Edward Said citati nelle note e in bibliografia. Ricordo solo, per la sua veemenza anticolonialista che si differenzia da tanto esotismo ed orientalismo correnti, D. Diderot, Supplemento al Viaggio di Bougainville.

4) Il tema dell’emigrazione italiana. Indagare questo tema nella nostra letteratura e in quella dei paesi di emigrazione (su quest’ultimo aspetto cfr. bibl. Bevilacqua P. e Durante F.). Alcuni esempi: Sull’Oceano di Edmondo De Amicis, Italy di Pascoli, L’altro figlio e altre novelle di Pirandello, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, le poesie di Rocco Scotellaro, I mari del Sud di Pavese, Il mare colore del vino e altri racconti di Sciascia.

5) La letteratura italiana dell’immigrazione. Si fa riferimento a quelle opere scritte in italiano da autori immigrati o nati in Italia. Solo alcuni testi: Pap Khouma, Io, venditore di elefanti, con O. Pivetta; Salah Methnani, Immigrato, con M. Fortunato; Fernanda Farias De Albuquerque, Princesa, con M. Jannelli; Thea Laitef, Lontano da Baghdad; Moshen Melliti, Pantanella. Canto lungo la strada; Nassera Chohra, Volevo diventare bianca; Igiaba Scego, Rhoda; Cristina Ali Farah, Madre piccola; Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle.

6) L’inclusione nei curricoli di letteratura di autori non italiani. Si propone di assumere un canone letterario mondiale che, partendo dallo studio degli autori in lingua italiana, tenga conto delle letterature europee ed extraeuropee. Oltre ai classici delle letterature europee, sarà necessario studiare quelli nord-americani (e gli afro-americani), centro e sud americani, africani, asiatici, australiani… Si tratta, naturalmente, di selezionare, mantenendo però salda una prospettiva internazionalista della letteratura, sottolineando in modo particolare i prestiti, gli incroci, le contaminazioni, gli scambi. Questo potrebbe permettere di individuare gli scrittori “meticci”, cioè quelli che più di altri hanno conosciuto quel fenomeno della creolizzazione di cui parla Edouard Glissant e che hanno attinto a fonti culturali diverse, hanno contaminato le loro lingue, spesso scrivendo negli idiomi locali, nelle lingue nazionali, in quelle coloniali ecc. Un esempio emblematico è il poeta caraibico Derek Walcott, premio Nobel per la letteratura nel 1992, del quale riportiamo alcuni versi:

Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?
Io che ho maledetto
L’ufficiale ubriaco del governo britannico, come sceglierò
Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo?
Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?
Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo?
Come voltare le spalle all’Africa e vivere?

Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.20

IV. Letteratura e società

Il critico statunitense Fredric Jameson sostiene che esiste una continuità tra la

dimensione economica della postmodernità e della globalizzazione e le strutture analizzate da Marx nelle prime epoche del capitalismo. Anzi. Ernest Mandel ha asserito che il nostro è un capitalismo più puro, in piena sintonia con le analisi di Marx, rispetto a quelle prime compagini sociali che costituivano tutti gli esempi a sua disposizione, compagini che recavano ancora le tracce di sistemi più antichi, feudali o altro, da cui a loro volta erano emerse.21

Se, come crediamo, questa analisi è esatta, dobbiamo essere capaci di trarre da essa tutte le conseguenze logiche. La prima, e la più importante per il nostro discorso, concerne la progressiva mercificazione della letteratura al pari di ogni altra cosa o relazione presenti nella società capitalistica. Mercificazione della letteratura significa trasformare una poesia, un romanzo, un racconto – divenuti valori di scambio piuttosto che valori d’uso – o in asettici oggetti da vivisezionare e analizzare attraverso logiche interne all’oggetto stesso, ricorrendo a specialismi separati che devono far perdere tracce dell’opera come totalità che allude a un’altra totalità (del mondo, della vita, della storia), o trasformare la fruizione letteraria, necessariamente verticale, tesa, concentrata, ma anche sensuale, cioè goduta sensisticamente e leopardianamente attraverso i sensi, in puro intrattenimento, in frullato indistinto, in una lettura “mordi-e-fuggi” che nulla sedimenta e nulla connette, nulla evoca, nulla provoca. Mentre la prima modalità è prevalentemente accademica e scolastica, la seconda è legata alla commercializzazione della letteratura trasformata in festival, evento mediatico e quant’altro.

Ma noi sappiamo, per evitare il rischio di una prospettiva apocalittica che per ogni educatore sarebbe un controsenso, che tale quadro è duplice, è contraddittorio. Se lo specialismo esasperato aliena la letteratura dal mondo, un suo uso sobrio è utile per comprendere le forme del testo. Se i premi letterari o i festival di letteratura sono essenzialmente kermesse mediatiche, permettono però, anche, a milioni di persone di ascoltare e conoscere autori e testi altrimenti ignorati. Anche su questa duplicità ci viene in soccorso Jameson:

Marx ci esorta a fare l’impossibile, ossia a pensare a questo sviluppo [del capitalismo, n.d.r.] negativamente e positivamente allo stesso tempo; ad acquisire, in altre parole, un modo di pensare in grado di cogliere, all’interno di un singolo pensiero e senza attenuare la forza di ciascuno dei due giudizi, le caratteristiche manifestamente rovinose del capitalismo insieme con il suo straordinario dinamismo liberatorio.22

Questa duplicità rappresenta, inoltre, il carattere distintivo della letteratura. Essa è, infatti, per riprendere le parole di Jameson, «rovinosa» e «liberatoria» a un tempo. La sua connotazione fatta di ambiguità ne fa, per un verso, una forma artistica capace di mostrare la verità che giace al fondo delle cose, l’essenza che si cela dietro l’apparenza dei fenomeni, e, al contempo, una bella forma che occulta gli orrori della storia e dell’esistenza.

Tutto ciò che dell’arte e della scienza il materialista storico può controllare ha sempre un’origine che egli non può considerare se non con orrore. Perché tutto ciò deve la sua esistenza non soltanto alla fatica dei grandi geni che l’hanno creato, ma anche, in maggior o minor misura, all’anonima servitù dei loro contemporanei.23

La letteratura e le arti hanno uno stretto rapporto con l’agio e con l’insegnamento, ossia con la condizione e la trasmissione del potere.24

Ma oggi la borghesia transnazionale del capitale globale, con i suoi pervasivi apparati mediatici e finanziari, sembra aver ritirato qualsiasi mandato sociale alla letteratura. Nel circuito multimediale odierno, nel rumore di fondo che stordisce, nel sistema socio-economico che sollecita falsi bisogni e nuovi consumi di merci, la funzione della letteratura è ridotta a intrattenimento mediatico, o, all’opposto, a linguaggio clandestino, carbonaro, catacombale.

La letteratura somiglia sempre più a un enorme edificio abbandonato, luogo di transito e quasi cava di pietra per tante discipline, dalla linguistica alla filosofia, dalla antropologia culturale alla psicanalisi, dalla ricerca storica a quella filosofica.25

Alternativa a tale condizione “archeologica” della letteratura vive, tuttavia, oggi in modo sotterraneo, ma con una forza ben maggiore nei paesi del capitalismo periferico dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, una funzione umanistica, liberatoria, contestativa anche, della letteratura.

Un’altra interpretazione della letteratura – scrive ancora il critico e poeta Franco Fortini – ha resistito al processo che nel nostro secolo ne ha fatto […] una merce come un’altra o una forma assoluta, suppletiva di una esperienza etico-religiosa. Ha resistito in nome del proprio fondamento umanistico, affermando essere e dover essere, la letteratura, nulla di più ma anche nulla di meno di un momento di una educazione e comprensione generale della specie umana, del suo percorso nella storia e della esistenza di ognuno in quella. Tale funzione umanistica della letteratura ha avuto la sua moderna formulazione nello storicismo marxista. Ha quindi partecipato delle vittorie e delle sconfitte di quest’ultimo. Ogni volta che esso torna a riproporsi, implica un atteggiamento di fiducia nella funzione transitiva del testo letterario, un rapporto con l’eredità letteraria del passato, cioè con i cosiddetti classici.26

V. Il docente mediatore

Ed è proprio in questa zona “transitiva” che si colloca oggi il docente mediatore che opera nella scuola e nell’università. Mediatore non tanto e non solo tra studente e opera letteraria, ma fra opera e mondo, fra quello che è costitutivo della forma artistica e quello che attiene all’extra-letterario, alle sollecitazioni della storia, della politica, dell’economia, della società. Perché, come ha scritto il germanista Cesare Cases, il testo non esprime

il suo significato ultimo (il suo “concetto” in senso hegeliano) se non si plana al di sopra di esso situandolo in quell’”unica scienza” che secondo Marx è la scienza della storia (che nel caso delle opere d’arte può essere in ultima istanza […] la scienza della rivolta contro la storia, per cui è però necessaria la storia stessa).27

Il docente che assume tale funzione di mediazione può oggi apparire una figura donchisciottesca. Socialmente non apprezzato, economicamente debole, egli è una sorta di intellettuale marginale che ha di fronte giovani studenti, in modo particolare in Occidente, plasmati da anni di esposizione televisiva, viventi in contesti urbani o provinciali caratterizzati da assenza di silenzio e di concentrazione, inabituati a tenere il fiato di una lettura intensa e profonda, giovani gettati nella bolgia delle sostanze psicoattive, nel delirio delle tifoserie calcistiche, nei non luoghi delle discoteche e dei centri commerciali, trasformati dal capitale in consumatori onnivori di tutto. Naturalmente tra di loro sopravvive una minoranza non omologata, capace di impegnarsi nel volontariato, nell’associazionismo, in attività creative e ricreative e finanche nell’impegno politico. Nella storia d’Italia, d’altronde, è sempre su questo tipo di minoranze che si è tenuta aperta una prospettiva di cambiamento culturale e di rivolgimento sociale. Il Risorgimento e la Resistenza ne sono esempi emblematici.

Solo in pochi settori, – ha scritto il critico Romano Luperini – fra cui soprattutto quello educativo (scuola e università), il meccanismo della mediazione non è del tutto scomparso, ma si è piuttosto ridotto e spostato, delocalizzandosi in apparati di fatto sempre più marginali e tuttavia indispensabili in qualsiasi tipo di società. E’ soprattutto in essi che si è realizzato quel passaggio di cui parla Bauman da intellettuale-legislatore a intellettuale-interprete, creando una figura di intellettuale flessibile e slegata e nondimeno capace di collegare fra loro fenomeni diversi (storici, filosofici, letterari, scientifici) e di leggerli in una prospettiva culturale e civile non immediatamente riducibile o subordinabile all’ambito economico-produttivo.28

VI. La letteratura luogo di mediazione

Docente come mediatore, ma anche, naturalmente, letteratura come luogo di mediazione. La categoria della mediazione, infatti, consente di accostare un testo poetico o narrativo avendo la consapevolezza degli innumerevoli “filtri” ai quali il testo è sottoposto, filtri di natura retorica, estetica, psicologica, politica, storica, ecc. Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che nessun testo è il frutto improvviso di una personalità artistica, seppur geniale, priva di salde radici nella tradizione letteraria e culturale di un certo periodo storico, o se affermiamo, per usare la classica distinzione del linguista Ferdinand de Saussure, che la parole creativa e innovativa di un poeta nasce e si comprende dentro una langue condivisa e riconoscibile (ricordiamo che per F. de Saussure la parole è la parte individuale della lingua, dalla quale va distinta la langue che rappresenta la componente sociale di un sistema linguistico).

In questa dialettica tra “parola” e “lingua”, molto spesso polare e irrisolta, si colloca un testo letterario, luogo di mediazione per eccellenza tra tradizione e innovazione, tra norma e infrazione della norma, tra autore e società, tra sapere e sapienza del testo e dell’autore e sapere e sapienza esterni al testo e all’autore. Nel capitalismo globalizzato della nostra epoca, in cui domina una quantità enorme di informazioni spesso irrelate e frammentate, in cui la varietà e la velocità di trasmissione dei media sembra annullare il silenzio, la concentrazione, la fatica della ricezione, la profondità dei contenuti, in cui parole, immagini e suoni viaggiano a velocità e in quantità incommensurabili rispetto ad un recente passato, in questo mondo sembra affermarsi la tendenza a saltare qualsivoglia mediazione, intesa come luogo di espressione nel presente attraverso un passato e in vista di un futuro. Tutto, al contrario, sembrerebbe schiacciato in un eterno presente.

Ai nostri tempi – ha scritto il filosofo Gyorgy Lukács – la struttura e lo sviluppo della società hanno la tendenza generale ad eliminare tutte le mediazioni tra individualità personale e universalità astratta e a ridurre ad unità questi due poli. Ne risulta un’individualità astratta che sulla prassi artistica esercita una forza d’attrazione seducente non fosse altro perché suscita l’illusione che sia possibile e utile abbandonarsi a uno sperimentalismo illimitato: non si vede e non si capisce che dietro di esso si cela soltanto una cattiva infinità del vuoto continuamente variato nella forma; tanto più che il vuoto è tenuto in grande onore dagli odierni nonconformisti come momento, come categoria psicologica preparatoria del nulla.29

Mediazione letteraria non significa neutralità asettica e priva di conflitti. Non è un luogo di coesistenza pacifica degli opposti, una terra di nessuno dove si allineano, privi di ordine gerarchico, parole e pensieri. Essa, al contrario, è lo spazio del conflitto tra differenti tradizioni, tra molteplici orizzonti di senso, tra scelte di carattere artistico, morale, politico. Scegliere un determinato universo simbolico, cioè una lingua e un contenuto specifici al posto di un’altra lingua e di un altro contenuto, significa scegliere, da parte dell’autore, una certa idea di uomo, di società, di storia, significa esprimere una classe, una visione del mondo necessariamente parziale e condizionata dai repertori linguistici, dagli apparati ideologici, dai corredi concettuali che in una determinata epoca si offrono all’individualità espressiva come possibile e limitata scelta creativa.30

Dovrebbe risultare chiaro, da quanto detto sinora, che il docente mediatore e l’opera letteraria come luogo di mediazione rappresentano dimensioni cognitive ed estetiche non autosufficienti né iperspecialistiche. Esse, al contrario, vivono anzitutto attraverso l’esperienza storica dei soggetti-lettori che fruiscono e interpretano l’opera, esperienza che, quando sia autentica, contiene una buona dose di imprevedibilità, di soggettività, di anarchia; poi, esse si alimentano nel dialogo con il mondo, con la vita materiale e spirituale dei popoli, con la storia. Per queste ragioni il primo compito di un insegnante di letteratura dovrebbe proporsi è far vivere ai propri allievi l’esperienza della lettura diretta dei testi, creando le condizioni per la lettura in classe, individuale e silenziosa, di opere letterarie. Egli dovrà combattere contro la tirannia degli orari, dei programmi, delle burocrazie scolastiche e ministeriali, dovrà battersi contro l’inquinamento acustico che impedisce la concentrazione e l’attenzione. Gli studenti – ha scritto Cesare Cases dando alcuni consigli a giovani docenti – «non sono abituati all’attenzione nella lettura: attenzione (“la prima qualità”, secondo Goethe) che è appunto il fine che devi ottenere e che deve sopravvivere all’insegnamento».31

Stimolare l’esperienza personale della lettura nei giovani, per godere della ricchezza polisemica e straniante della pagina letteraria contro il linguaggio reificato della pubblicità e delle merci – senza per questo rinunciare a studiare, analizzare, smontare, criticare e smascherare anche quei linguaggi –, farne quindi dei lettori “forti”, consente il passaggio a proposte di analisi testuale più organizzate e strutturate.

VII. Il lettore comune

La lettura di un’opera letteraria riguarda in primo luogo l’esistenza individuale e sociale di ognuno di noi, e solo in un secondo momento la materia in cui ci cimentiamo per affinare le diverse metodologie interpretative, i molteplici strumenti ermeneutici. Recentemente il critico franco-bulgaro Tzvetan Todorov, che pure tradusse e introdusse in Europa le teorie letterarie dei formalisti russi ha denunciato il pericolo che corre l’insegnamento della letteratura quando questo si riduca solo all’applicazione di metodi interpretativi. Denunciando alcune direttive del Ministero della Pubblica Istruzione francese relative all’insegnamento letterario, egli scrive:,32

L’insieme di queste direttive si fonda chiaramente su una scelta: gli studi letterari hanno lo scopo principale di farci conoscere gli strumenti di cui si servono. Leggere poemi e romanzi non porta a riflettere sulla condizione umana, l’individuo e la società, l’amore e l’odio, la gioia e la disperazione, ma su nozioni critiche, tradizionali o moderne. A scuola non si apprende che cosa dicono le opere, ma che cosa dicono i critici.33

Todorov ricorda che i metodi sono essenziali se restano “mezzi” interpretativi e non “fini” e che la letteratura soffoca se la si rinchiude in «giochi formali», «lamenti nichilistici», «egocentrismo solipsistico».34

Le opere esistono sempre in seno a un contesto e in dialogo con esso. […] Il lettore comune, continuando a cercare nelle opere che legge come dare un senso alla propria vita, ha ragione rispetto a insegnanti, critici e scrittori quando gli dicono che la letteratura parla solo di sé, o che insegna solo a disperare.35

In questo taglio del cordone ombelicale tra letteratura e mondo un ruolo essenziale ha giocato e gioca la ragione economica dominante del capitale e la conseguente divisione del lavoro. La prima determina l’ininfluenza di tutto ciò che attiene all’esercizio critico e creativo dell’uomo, la pericolosità delle zone libere dalla prestazione lavorativa, dall’asservimento al denaro e alle merci; la seconda provoca una separazione radicale fra quanti sono addetti alla riproduzione materiale e simbolica, scientifica, tecnologica del capitale (tra i quali i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”) e quanti possono consentirsi il “lusso” di una ricerca intellettuale creativa e “disinteressata”, di un’attività libera dalle catene del lavoro salariato.

L’unità di pensiero e azione, d’ideazione ed esecuzione, di mano e di cervello, che il capitalismo ha minacciato fin dai suoi inizi, viene ora attaccata da una dissoluzione sistematica per la quale vengono impiegate tutte le risorse della scienza e le varie discipline tecniche su di essa basate. Il fattore soggettivo del processo lavorativo viene relegato fra i suoi fattori inanimati.36

Un altro grande intellettuale, Edward Said, ha avvertito la pericolosità di questa sorta di alienazione letteraria, che priva l’intellettuale – e tra questi il docente – della possibilità di fuoriuscire dallo specialismo per farsi portavoce di chi subisce ingiustizie, di chi è reietto, marginale, escluso. Un intellettuale umanistico capace di suscitare scandalo, di dire la verità, di parlare oltre la cerchia ristretta dei mandarini del sapere.

La specializzazione ha comportato un formalismo tecnico esasperato, mentre sempre meno richiesta è la comprensione storica delle esperienze concrete che hanno effettivamente contribuito alla realizzazione dell’opera letteraria. La specializzazione uccide anche l’entusiasmo e il gusto della scoperta.37

Per quanto riguarda l’Italia va ricordato che la grande maggioranza dei nostri concittadini non arriva neppure a quelle forme di lettura immediata e vitale che abbiamo richiamato, essendo la lettura di libri e giornali tra le più basse d’Europa. Con livelli di scolarità che registrano il conseguimento al massimo della licenza media per il 60 per cento della popolazione, l’obiettivo di una fruizione critica e creativa delle opere letterarie diviene essenzialmente un obiettivo di lotta politico-culturale. Sottrarre i nostri concittadini alle veline e ai grandi fratelli, al rincretinimento pubblicitario, decongestionare e decolonizzare le menti attraverso, anche, un progetto pedagogico intenzionale è perciò una strada obbligata per quella riforma intellettuale e morale che può determinare prospettive di maggiore giustizia e uguaglianza nel nostro paese.

Note

1 E. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, trad. it. di S. Chiarini e A. Tagliavini, Roma, Gamberetti, 1998, p. 77.

2 E. Auerbach, Filologia della letteratura mondiale, trad. it. di R. Engelmann, Bologna, Book Editore, 2006, p. 71.

3 F. Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Macerata, Quodlibet, 2006, p. 256.

4 R. Luperini, Cinque tesi sull’insegnamento della letteratura, in «L’ospite ingrato», I, 2005, pp. 103-104.

5 P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Parma, Guanda, 2000, p. 77.

6 F. Fortini, P. Jachia, Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, pp. 75-76.

7 M.A. Palacios, Dante e l’Islam. L’esatologia musulmana nella «Divina Commedia», trad. it. di R. Rossi Testa e Y. Tawfik, Parma, Pratiche, 1994; D. Santarone, La mediazione letteraria. Percorsi interculturali su testi di Dante, Tasso, Moravia, Fortini, Arbasino, Defoe, Tournier, Coetzee, Emecheta, Saro-Wiwa, Palermo, Palumbo, 2005.

8 A. Ceccagno, Cinesi d’Italia. Storie in bilico tra due culture, Roma, Manifestolibri, 1998.

9 Ngũgĩ wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, trad. it. di C. Nocentelli Truett, Roma, Meltemi, 2000, pp. 19-20, corsivo mio.

10 Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Roma, Donzelli, 2001 e 2002; G. Fofi, Immigrati meridionali a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964.

11 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Roma-Bari, Laterza, 1980-1992; Id., L’Africa nella coscienza degli italiani, Milano, Mondadori, 2002; Id., La nostra Africa, Verona, Neri Pozza, 2003.

12 Ebrei e protestanti nella storia d’Italia. Modelli per un’educazione interculturale, a cura di A. Castelnuovo, Milano, Franco Angeli, 1996.

13 J.P. Eckermann, Conversazioni con Goethe, trad. it. di A. Vigliani, Torino, Einaudi, 2008, p. 176.

14 K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, trad. it. di P. Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 57, corsivo mio.

15 E. Said, Cultura e imperialismo cit.

16 E. Said, Per una critica laica, in «Allegoria», 48, 2004, p. 23.

17 R. Luperini, Cinque tesi sull’insegnamento della letteratura cit., pp. 96-97.

18 M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, trad. it. di S. Paderni, Roma, Carocci, 1999, p. 171.

19 R. Williams, Marxismo e letteratura, trad. it. di M. Stetrema, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 131-132.

20 D. Walcott, Mappa del Nuovo Mondo, trad. it. di B. Bianchi, G. Forti, R. Mussapi, Milano, Adelphi, 1992, pp. 33 e 113.

21 F. Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, trad. it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007, p. IX.

22 F. Jameson, Postmodernismo cit., p. 63.

23 W. Benjamin, Angelus Novus, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962, p. 79.

24 F. Fortini, Nuovi Saggi Italiani 2, Milano, Garzanti, 1987, p. 258.

25 F. Fortini, Nuovi Saggi Italiani 2 cit., p. 307.

26 F. Fortini, Nuovi Saggi Italiani 2 cit., pp. 307-308, corsivo mio.

27 C. Cases, Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio, in Insegnare la letteratura, a cura di C. Acutis, Parma, Pratiche Editrice, 1979, p. 57.

28 R. Luperini, La condizione intellettuale. Prolusione in occasione dell’inaugurazione del 767° anno accademico dell’Università degli Studi di Siena, 10 novembre 2007.

29 G. Lukács, Estetica, trad. it. di A. Solmi, Torino, Einaudi, 1975, p. 859.

30 D. Santarone, La mediazione letteraria cit., pp. 13-14.

31 C. Cases, Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio cit., p. 56.

32 T. Todorov, I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, trad. it. di G.L. Bravo, Torino, Einaudi, 1968.

33 T. Todorov, La letteratura in pericolo, trad. it. di E. Lana, Milano, Garzanti, 2008, p. 20.

34 T. Todorov, La letteratura in pericolo cit., pp. 78-79.

35 T. Todorov, La letteratura in pericolo cit., pp. 24 e 66.

36 H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Torino, Einaudi, 1978, p. 169.

37 E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, trad. it. di M. Gregorio, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 85-86.