
Ma Evangelisti era, in primo luogo, un narratore, e nei suoi romanzi questa vita molteplice trovava una ricaduta diretta. Diretta ma, attenzione, mai ideologica. Nessuno dei suoi “cicli” – a Evangelisti piaceva istituire un filo narrativo che si dipanava lentamente, nel corso di anni, seguendo in presa diretta l’evolversi dei suoi personaggi e, in qualche modo, cambiando con loro – nessuno dei suoi cicli, dicevamo, si presenta come strumento letterario piegato alle esigenze di posizionamento politico. Il rapporto con l’attualità, pure evidente, era sempre mediato dall’intreccio narrativo, dal rapporto tra azione e psicologia dei personaggi. Il corpo e corpo era con la storia, mai con la politica, e prendeva forma dall’interno delle storie narrate, mai dall’esterno di un intervento autoriale (e autoritario) dello scrittore. Non erano dunque romanzi a tesi, al servizio di una concezione del mondo.
La notorietà, forse più internazionale che italiana, gli derivò dal ciclo dell’inquisitore Eymerich (Nicolas Eymerich, inquisitore, suo primo romanzo, è del 1994). Tante cose sono state dette sulla fortuna di questo personaggio emblematico della letteratura italiana degli anni novanta. L’intreccio di realismo e fantasy che contraddistingue l’intero corpus “eymerichiano” può leggersi, oggi, come originale tentativo di ri-codificare il romanzo storico sottraendolo alle sirene del post-moderno (allora in voga) e, al tempo stesso, reagendo (in anticipo sui tempi) alla dis-valorizzazione commerciale di un genere – il romanzo storico – nobile e decaduto, preda di Dan Brown in sedicesimi che, giocando con la storia e riducendola a fumetto, al tempo stesso servivano (inconsapevolmente) alla più complessiva ri-significazione del rapporto passato-presente nel nostro paese negli anni novanta e per tutto il decennio Duemila. Evangelisti procedeva rimodellando il genere, uscendone fuori con tentativi rischiosi di fusion narrativa assai complicata da maneggiare, tentando così di restituire dignità e leggibilità a una produzione letteraria fortemente dicotomizzata: da un lato una letteratura “alta” sempre meno interessata al rapporto col lettore; dall’altro, una letteratura di consumo anch’essa, di fatto, disinteressata ad un rapporto vero (e non parassitario e rentier) con il pubblico.
Ma l’incrocio di linguaggi significava, per Evangelisti, anche una fusione di generi. L’hard boiled americano e il polar francese costituiscono altri due modelli centrali, che investono tutta la produzione narrativa di Evangelisti, soprattutto la trilogia americana, il ciclo messicano o il ciclo di Pantera (anch’esso d’ambientazione messicana). Dashiell Hammett e Raymond Chandler o, più tardi, Jim Thompson, costituiscono dei riferimenti diretti, per linguaggio e postura degli anti-eroi narrativi, per il modo di organizzare l’azione violenta, disperata eppure non nichilista, e mai splatter. C’è molto Peckinpah e poco – molto poco – Tarantino, in un racconto che mette costantemente al centro la vita sbagliata di eroi-dal-basso profondamenti “reali”, e quindi sempre un po’ strani e imprecisi, “distonici” rispetto a idee e aspettative del lettore. Per restare al western, i protagonisti dei romanzi di Evangelisti assomigliano al peone Juan Miranda-Rod Steiger di Giù la testa molto più che al freddo rivoluzionario John Mallory-James Coburn. Di qui, dunque, un più conseguente realismo, innestato su trame dai forti ingranaggi polizieschi-sociali: non a caso, un altro suo riferimento è Jean-Patrick Manchette, il protagonista ellittico, violento e nichilista del noir francese degli anni settanta-ottanta. Certo in Evangelisti non c’è mai nichilismo, così come raramente appare, nei suoi romanzi, l’impersonale e anonimo “corso degli eventi” consueto in Hammett. Gli eroi di Evangelisti non sono “senza nome”: al contrario, vi è il bisogno carnale di contatto fisico, di sbattere in faccia al lettore l’odore, il tanfo anzi, dei protagonisti, i loro motivi nobili o sordidi. Incarnare il mondo nell’azione dei suoi (consapevoli o meno) agenti. Ne scaturisce una letteratura che genera eroi particolari, con cui si parteggia senza compiuta immedesimazione, in un disvelamento catartico che fa luce sul lato oscuro (o problematico) dei processi di identificazione mitopoietica. Nicolas Eymerich è chiaramente “il cattivo”, ma mancano “i buoni”. Semmai, ci sono gli ingenui. E alla fine il machiavellismo eymerichiano risulta più affascinante che respingente, più scaltro che perfido. Un destino che, alla lontana, contraddistingue anche l’Eddie Florio di Noi saremo tutto o il Robert Coates di One Big Union: orride spie al servizio della reazione padronale, ma anche vittime di un ingranaggio sociale che si serve della vita altrui per poi sputarla via. Una critica, spietata, del “sogno americano”, in questo caso, in uno dei suoi cicli narrativi più riusciti. Ma se i cattivi non sono mai tali senza una ragione (e la comprensione, crocianamente, è spesso anche una giustificazione) così anche i buoni non sono mai stilizzati come vorrebbe il desiderio del lettore. Anche i protagonisti della saga del Sole dell’avvenire o i suoi guerrieri della libertà nella Repubblica romana sono multiformi e sfuggenti, figli di un popolo da cui emergono e da cui sempre, almeno un po’, si distaccano, tradendolo (spesso senza saperlo, cioè senza coscienza). Un popolo che esce sempre sconfitto, a cui assegnare una (spesso sin troppo elevata) dignità morale che risente degli echi tipici di molta letteratura “degli ultimi”, ad esempio il Jules Bonnot di Pino Cacucci (guarda caso dello stesso anno, il 1994, dell’esordio narrativo di Evangelisti).
Tanti sono stati gli sforzi di fuoriuscire dalla crisi narrativa dello scorso ventennio, come testimonia il tentativo di sintesi proposto da Wu Ming 1 nella sua categorizzazione del New Italian Epic, alla quale anche Evangelisti veniva accostato per contiguità di tematiche e linguaggi e, come dire, “sentiment”. La novità, e l’originalità, di Evangelisti nel decennio 1994-2004 (il periodo in cui la sua vena artistica si espresse al meglio) ne fanno un esemplare particolare nel mondo della cultura letteraria italiana, un vero e proprio outsider introverso e distaccato da qualsivoglia “jet-set” culturale che poi ha travolto un “mondo delle lettere” in cerca di visibilità e di status. Evangelisti, complice la lunga malattia, da tempo si era ritagliato un suo spazio fatto di assenze e di selezionati momenti pubblici sempre più legati al suo impegno politico, sia come candidato in alcune liste di sinistra, sia – soprattutto – nel confronto coi compagni, in assemblee, riunioni e iniziative di dibattito. Anche per questo, per questa sua silenziosa disponibilità, mancherà a tutti.