La kappa di Liebknecht
Piergiorgio Bellocchio e gli anni di Cittàcomune (2006-2022)
Gianni D’Amo

Ripubblichiamo la nota tratta da Maestri, dodici ritratti e una foto di gruppo con signora (Piacenza, Le piccole pagine, 2024), plaquette che raccoglie i testi delle tessere annuali di Cittàcomune, redatte a quattro mani da Piergiorgio Bellocchio e Gianni D’Amo. Cittàcomune è una associazione politico-culturale piacentina, autogestita e autofinanziata tramite il tesseramento, attiva dal 2006 (29121 Piacenza – via Borghetto 2i – www.cittacomune.it – cittacomune@gmail. com). Dalla nascita e per quasi un decennio ne è stato presidente, eletto annualmente dall’assemblea dei soci, Piergiorgio Bellocchio (1931-2022); e dopo di lui, dal 2016, Gianni D’Amo.

I. Autogestione e tesseramento

A fine estate 2006 non avevamo dubbi che Cittàcomune (tutto attaccato, ma all’inizio, com’è del resto testimoniato dal logo, privilegiavamo il tutto minuscolo) sarebbe stata un’esperienza autogestita e dunque, innanzitutto, autofinanziata. Nessuna richiesta di fondi a Comune, Provincia, Regione, Fondazione di Piacenza e Vigevano, Cooperative bianche o rosse o rosa, sponsor vari di ogni taglia e misura. L’associazione sarebbe stata pienamente libera solo se economicamente indipendente da ogni potere pubblico o privato. I denari per farla nascere e vivere nella sua attività politico-culturale sarebbero venuti dalle tasche dei soci: tesseramento annuale e campagne di sottoscrizione erano dunque una scelta obbligata.

Né avevamo dubbi a dicembre, presentandoci alla città con un incontro pubblico nella sede di via Borghetto nel frattempo allestita, che la prima tessera associativa, quella del 2007, sarebbe stata dedicata ad Antonio Gramsci, nel settantesimo anniversario della morte. Il più convinto assertore della scelta, Piergiorgio Bellocchio, non si nascondeva tuttavia la preoccupazione – fondata – che la nascente associazione potesse venir intesa come la riproposizione della tradizione comunista italiana (Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer… o altra variante nello stesso solco): nel che non ci sarebbe stato niente di male, ma semplicemente non corrispondeva alle nostre convinzioni e intenzioni. Cosicché fu quasi naturale che la tessera successiva (2008), spiegasse cos’era Cittàcomune, cosa voleva fare e soprattutto come: scegliemmo i passi finali del documento costitutivo dell’associazione, predisposto e sottoscritto nel 2006 dai ventisei promotori, incluso il motto che ne sintetizzava e sintetizza spirito, modi e intenti: «non dominare né esser dominati, non ingannare né essere ingannati».

II. La scelta degli effigiati

Ci era ormai anche più chiaro perché eravamo partiti da Gramsci. Necessità di fare i conti con la propria tradizione; nesso inscindibile tra cultura e politica; estrema attenzione alla sovrastruttura e consapevolezza che, prima e dentro le classi, ci sono gli individui e la loro anima (o spirito); amore della verità, etica individuale e critica pratica della politica; coerenza tra parole e fatti, tra ideali e comportamenti… Volevamo indagare le grandi speranze e tragedie del Novecento, ma incarnate in donne e uomini reali, vissute come destino anche personale. Nel 2009, nel centenario della nascita, la scelta di Simone Weil fu, con qualche sorpresa di Piergiorgio e mia, altrettanto scontata di quella di Gramsci. Segnalava tuttavia l’ampiezza di orizzonti entro cui ci si muoveva, e poneva un problema.

«Chi è Simone Weil? Una mistica!», recitava la vulgata corrente, mentre noi neonati cittàcomunardi, non si può dire che inclinassimo all’approfondimento religioso (né ne saremmo stati in grado). Se per Gramsci erano bastati la foto e il nome, per la Weil necessitava un breve testo: che fornisse le note biografiche sufficienti ad apprezzare la sua coerenza estrema nei comportamenti, e si prendesse la responsabilità di esprimere un giudizio critico, indirizzare ai libri più attendibili (e alle corrispondenti curatele e traduzioni italiane), nonché ne facesse assaporare, con una scelta di passi, l’eccezionale profondità di pensiero. Analogo problema si pose per Orwell, il cui improvviso successo mondiale nei primi anni Cinquanta, favorito e strumentalizzato dalla Guerra Fredda, tendeva a trasformare uno straordinario testimone di verità, la più originale e credibile voce novecentesca dei diseredati e oppressi, in una bandiera del liberalismo anticomunista: condannato da Mosca e dai comunisti per le dure critiche all’Urss, paradossalmente esaltato dai gestori della manipolazione atlantica. Come se Animal farm (la rivoluzione russa e la sua involuzione, il suo stravolgimento e tradimento raccontati in forma di favola), piuttosto che un manifesto contro menzogna ingiustizia e ineguaglianza, un libro contro il dominio di una classe di uomini su tutti gli altri (e sulle difficoltà di cui è lastricata la via per superarlo), fosse invece una sua apologia.

III. Il saggio breve da tessera

Il tesseramento non era più solo uno strumento di autofinanziamento, ma già una scelta, iniziativa politico-culturale. E anche se la locuzione appopriata, Piergiorgio ed io l’avremmo coniata anni dopo, la via del “saggio breve da tessera” era tracciata, e irreversibile la trasformazione di struttura e formato della cosa cartacea che lo ospitava. Mentre le prime due tessere (2007 e 2008) erano simili alla tradizionale carta d’identità (appena più piccole), tutte le successive quindici presero la forma di un pieghevole a fisarmonica (poco più grande di una credit card) in sei facciate, la prima con l’immagine dell’effigiato (o effigiata), le altre di testo: mediamente circa cinquemila battute (spazi inclusi) in corpo 8 e interlinea 10, con una tendenza all’incremento di righe scritte nelle ultime, entro e dopo il Covid, una volta allentatasi la rigida “dittatura” del grafico in ragione del cambio di tipografia.

Dando voce alle diverse sensibilità presenti nell’associazione, e a volte non senza accese discussioni sulla scelta, a Weil e Orwell seguirono, tra il 2011 e il 2019, i ritratti dei Gobetti, di Morante, Fenoglio, Matteotti, Pasolini, Fortini, Marx, Luxemburg, sempre in occasione di anniversari tondi di nascita o morte (non era per noi un criterio vincolante, e infatti ce ne saremmo discostati – con Leone Ginzburg, Etty Hillesum, Daniela Cremona; ma ci rendevamo conto, che una certa attenzione mediatica “da anniversario” favoriva la riuscita degli incontri pubblici che venivamo organizzando intorno alle figure effigiate).

Si sottraggono al genere “saggio breve da tessera” e fanno storia a sé le tessere 2016 e 2021. A fine 2015, a casa di Piergiorgio, si chiacchierava sulle tessere avvenire, e anche sulla opportunità, dopo Pasolini, di non allontanarci troppo dal secondo Novecento. Brecht? Böll? La Arendt? I Francofortesi? Era con noi Alfonso Berardinelli. «L’unico autore che abbia affrontato i massimi problemi di un secolo tragico – la storia e la guerra, l’era atomica, l’alienazione metropolitana e la follia, il crimine e il potere, il dominio delle macchine, l’amore, il sesso… – è Kubrick», disse Alfonso, «io ripartirei dal cinema di Kubrick». Detto e fatto. Per il 2016, oltre a ricordare i dieci anni di vita dell’associazione, optammo per un montaggio delle locandine dei film del grande regista, affiancate da una brevissima nota e dalla filmografia.

Quanto alla tessera 2021, l’unica decisa via Zoom, senza poterci incontrare e discutere di persona, ci sembrava impossibile non dedicarla a quanto stava accadendo a ciascuno e in tutto il mondo: la pandemia, che ogni giorno intorno a noi dispensava morte e stravolgeva vite, come non capitava dai tempi dei bombardamenti e della guerra in casa. Scegliemmo come testo Nove marzo duemilaventi della poetessa Mariangela Gualtieri (alcuni di noi, insegnanti, già l’avevano utilizzato con gli studenti nelle prime settimane di lezione a distanza). Cercammo poi un’immagine sul controverso rapporto uomo-natura, intorno a cui si (e ci) interrogava la poesia di Gualtieri. La scelta cadde sul particolare di un quadro di Guttuso: quando Piergiorgio (scollegato), qualche settimana dopo vide la bozza con la foto a colori, gli scappò di dire: «ma cos’avete fatto, mi avete dedicato la tessera per i novant’anni?». No, ma un po’ sì, visto che anche diversi tra noi, in quel vecchierello ritratto di spalle mentre avanza un po’ curvo e pensieroso verso il bosco, magari rimuginando versi leopardiani, avevano intravisto proprio Piergiorgio…

IV. Ritratti di maestri

Qualcuno mi ha fatto osservare l’alto numero di personalità di origine ebraica, nessuna delle quali peraltro praticante, tra i nostri effigiati: ben sette, includendovi lo halbjude Fortini, e Daniela Cremona, battezzata e cresciuta in una famiglia cattolica, ma a cui non spiaceva soffermarsi in conversazione sul frequente uso, nell’Italia del Nord dei secoli scorsi, di assegnare agli ebrei come cognome quello della città del ghetto di provenienza (aveva scoperto che nel cremonese di ghetti ve n’erano tre: Cremona, Soncino e Vescovato). Vi si può rilevare altresì un certo equilibrio tra presenze femminili e maschili: ma va detto che né origine religiosa né “parità di genere” sono stati tra i motivi determinanti nella scelta (che peraltro avveniva anno per anno, senza predeterminare opzioni future), come del resto mai ha inciso il criterio di privilegiare i filosofi o i poeti, gli artisti o i politici o gli scienziati o altre categorie di sapienti specializzati.

Cosa accomuna dunque le figure qui ritratte dalle tredici tessere di Cittàcomune (quattordici persone, considerato che una associa Piero e Ada Gobetti)? Come Gramsci, sono donne e uomini mossi da un’originaria, insopprimibile ribellione alla menzogna e all’ingiustizia, che hanno pensato e agito di conseguenza. E a cui è toccato in vita, in misura diversa anche in rapporto alla maggiore o minore tragicità dei contesti, di patire la sconfitta. Anche laddove abbia loro arriso notorietà o fama (postume spesso, a volte equivoche), i nostri maestri non sono stati donne e uomini di successo. Ma non direi perdenti: piuttosto, disposti anche a perdere, a subire lo scacco, a fare un passo indietro, a pagare di persona un prezzo in certi casi molto alto, pur di non venir meno a convinzioni e valori di fondo. E perciò stesso, donne e uomini che hanno dovuto e saputo mettere a fuoco la quota insopprimibile di contraddittorietà e sofferenza che caratterizza la condizione umana: conoscerla, esserne consapevoli, è la precondizione per praticare il diritto e il dovere di essere meno infelici. Ciò che per me è il senso della politica.

Del resto, venendo da ormai quarant’anni di un’ideologia transnazionale che da noi, con peculiare provincialismo, s’è chiamata “edonismo reaganiano”, mi pare di poter ben dire che ci siamo divertiti pochissimo… e guardandoci intorno, che ci sia poco da divertirsi, poco da stare allegri, anche quanto al presente e futuro prossimo.

«La verità è quasi sempre sconfitta, ma mai del tutto», ha scritto una volta Bellocchio. Si inabissa come un fiume carsico, e può riemergere in tempi e luoghi inaspettati, quando i bisogni dell’umanità non possano più aggirare problemi e contraddizioni, che inascoltati testimoni di verità avevano per tempo individuati e analizzati, in parole e comportamenti. Per noi, maestri sono quei testimoni di verità. E a chi li abbia in qualsivoglia modo incontrati, e gelosamente custoditi nella memoria, spetta la responsabilità di trasmetterne la testimonianza. Nessuna esibizione culturalistica o intento estetizzante, nelle tessere di Cittàcomune: piuttosto il modesto tentativo di fare argine all’ignoranza e manipolazione dilaganti, rivisitando alcuni punti alti della autocoscienza critica dell’Occidente (di noi padroni del mondo), come necessaria premessa per il confronto con gli altri, con ciò che faticosamente sopravvive, entro la globalizzazione galoppante, delle civiltà altre, asiatiche e africane in primo luogo. Che nel nostro impegno politico-culturale, troppo poco, e solo rapsodicamente, abbiamo saputo incrociare.

V. Redazione a quattro mani

Credo che se questo volumetto arrivasse in libreria a firma Piergiorgio Bellocchio e Gianni D’Amo, certo gli gioverebbe la notorietà e autorevolezza del primo, la quale anche solleciterebbe qualche attenzione da parte di critici e recensori, per quanto pochi ne sopravvivano nell’attuale sistema della comunicazione culturale. Se c’è uno scrittore italiano che avrebbe felicemente potuto raccogliere in silloge brevi ritratti di pensatori imprescindibili, questi è Piergiorgio Bellocchio (basti pensare al suo Oggetti smarriti, del 1996, anche se là il punto d’avvio era un titolo scomparso dalle librerie, piuttosto che l’autore). Ne sarebbe sortito un libro prezioso, probabilmente con maggior dispiegamento di pagine e minor fatica di cesellare l’essenziale, trascegliendo citazioni tra gli scritti di una vita intera, in pochi centimetri quadrati di tessera. Ma avrebbe avuto sapori almeno in parte diversi, mancandovi del tutto quello della nostra evoluzione collettiva di quasi vent’anni, insieme discussa e praticata, tesa alla ricerca di una risposta alla domanda «come vivere», la quale (me ne accorgo ora, rileggendo il tutto) compare nel primo testo su Simone Weil e ritorna nell’ultimo su Daniela Cremona.

La scelta di indicare un autore collettivo – Cittàcomune – è dunque la più veritiera. I testi qui raccolti sono apparsi per la prima volta in forma di tessera con quella sola firma, concepiti entro quell’esperienza.

Naturalmente i collettivi, diversamente dagli algoritmi, non scrivono, e dunque tocca farlo a una o più persone disponibili a farsene carico. E se non è fuori luogo segnalare che tutte le tessere, sia nella prima stesura che in quella definitiva, sono state preliminarmente sottoposte alla discussione di quella ventina di persone che hanno costituito nel tempo l’asse portante di Cittàcomune (e sempre riuscendone migliorate, più chiare), va pur detto che la responsabilità autoriale è di Bellocchio e mia. Di qui la formula «redazione a quattro mani». Essa nasce dal fatto che davvero non saprei dire quale sia stata scritta da lui e quale da me, nel senso che in ognuna c’è il contributo decisivo di entrambi e il piacere condiviso di giungere insieme alle formulazioni più convincenti. Né posso ora, per farmi capire meglio, chiedere soccorso a Piergiorgio, che ci ha lasciati. Devo dunque arrangiarmi da solo.

Posso dire che in certi casi la prima stesura è stata la sua, in altri la mia: ma spesso, nel secondo caso, io potevo partire sunteggiando precedenti scritture sue (mentre non poteva accadere il contrario, essendo io, sostanzialmente, un “autore orale”). Si può aggiungere che a volte ci bastava mezza parola, per stabilire che per certe personalità più politiche la prima mossa toccasse a me, e per altre, più letterarie, a lui. A volte, anzi spesso, il punto di partenza era la scelta a due di citazioni che ci parevano non sacrificabili, intorno alle quali strutturare il discorso: sia quando si è optato per inserirle tra virgolette nell’unico testo, sia quando si è scelta la combinazione di breve nota biobibliografica e “piccola antologia” di passi. Venendo in qua negli anni, soprattutto dentro e dopo il Covid, più spesso il testo di partenza l’ho scritto io: ma se la prima stesura era la mia, l’ultima parola ha continuato ad essere la sua. Ora, escluso che sempre la pensassimo e sentissimo allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una preliminare sottomissione da parte mia all’autorità superiore: chi mi conosce sa che non può darsi… Avveniva invece che io trovassi in Piergiorgio (com’era accaduto a lui giovane con Fortini) quel «lettore-giudice, quella figura ideale, ma anche ben reale, a cui chi scrive pensa». Ogni suo intervento sulla mia prosa l’ho sempre sentito come conferma e arricchimento, anche stilistico. D’altra parte, dopo tre decenni di frequentazione quotidiana, Piergiorgio sapeva con pazienza e acume accogliere ciò che poteva venire dall’esperienza e cultura specificatamente mie, e generosamente restituirlo al lettore in formulazioni più stringenti e congrue.

Annotazione conclusiva, da Svevo, che ho riletto recentemente. Il malcostume, più diffuso che mai, di «raccontare con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase», onde evitare «quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario», nel nostro sodalizio era del tutto naturalmente bandito. Il vocabolario, Giorgio ed io, l’abbiamo tenuto sempre a portata di mano, e non di rado utilizzato.

IV. Caro Piergiorgio…

Febbraio 2019, tessera su Rosa Luxemburg, ultima prima dell’era Covid. Siamo insieme al Centro stampa digitale di cui ci serviamo, in viale Abbadia a Piacenza, proprio di fronte a quella che, procedendo da Piazza Duomo verso la stazione ferroviaria, è l’entrata principale dei Giardini Margherita: l’ultima volta di Piergiorgio in tipografia, si direbbe con linguaggio d’altri tempi. Abbiamo in mano la bozza definitiva, stampata a colori sul cartoncino opaco prescelto, fronte e retro. Incappottati tutt’e due (lui nell’antico e consunto loden verde, che ormai, dimagrito com’è, gli casca da tutte le parti), usciamo all’aperto, perché così si fuma. Prima panchina a destra, appena dentro i Giardini, lettura concentrata tra una boccata e l’altra: «È perfetta», si compiace Piergiorgio, «anche la foto, scelta bene». La sigaretta è finita, e mentre ci alziamo per rientrare dallo stampatore, gli viene un ultimo dubbio, lì su due piedi: «Escluderei che un cognome tedesco con delle gutturali non contenga almeno una kappa… Liebknecht, non Liebnecht» (tra l’altro, nella tessera in questione, citato due volte). Rapida verifica su internet (con una certa stupita ammirazione di Giorgio, che già stava pensando di dover passare a casa mia, vicina, per consultare un libro), e inserimento della parola esatta. Si stampi!

Redazione a quattro mani, correzione delle bozze a quattro occhi. Due dei quali più cólti.