La gomma e il lapis
In memoria di Domenico Bartolucci
Roberto Russo

Che l’Italia sia un Paese in cui la musica d’arte viene sistematicamente avvilita e ignorata è cosa nota ormai da tempo. Una regola – direi – che, come tale, ha acquisito connotati di assoluta normalità. Discorrerne è un esercizio faticoso, se non addirittura senza senso, poiché l’argomento in sé appare privo di fondamento per la gran parte degli individui: se un patrimonio come quello della classica è, di fatto, completamente sconosciuto, se il suo studio è assente da tutti i programmi di ogni livello di istruzione e di formazione dell’obbligo, se la sua fruizione risulta essere unico appannaggio dei soli, sparuti diretti interessati, il problema creato dalla sua scomparsa dalle trame delle umane attività perde letteralmente di significato. A parlarne si ragionerebbe, cioè, di un non-problema, in quanto l’oggetto stesso della dissertazione risulterebbe inesistente. Per evidenziare cause e concause di questa vera e propria disfatta culturale, infatti, non basterebbe scomodare trattati di storia, di antropologia, di filosofia e di sociologia: nemmeno con simili indagini riusciremmo a venire a capo di una questione tanto impenetrabile, che ha letteralmente cancellato la cultura musicale dall’esistenza di intere generazioni, per lo meno dal secondo dopoguerra ad oggi, sostituendola con surrogati inconsistenti e di fattezze a dir poco imbarazzanti. Il dato oggettivo, al contempo causa ed effetto del fenomeno, è che la musica, nella collettività, ha completamente perso il suo valore filosofico, estetico, storico, didattico, intellettivo e formativo, assumendo esclusivamente un mero ruolo di intrattenimento, spesso legato a quello del semplice e banale divertimento.

Resta, in questo panorama desolante, l’incredulità di chi ha visto progressivamente svanire uno dei più alti prodotti della mente e dello spirito umano, soprattutto in un territorio – l’Italia, appunto – così prodigo d’arte, nel quale la musica ha avuto, se non i suoi natali, certamente la sua codificazione, per lo meno nel senso moderno e occidentale del termine; un territorio che vanta, storicamente, un passato più che glorioso per numero di compositori e loro qualità artistiche, e che ha espresso i massimi talenti nella pratica strumentale, vocale, nel teatro e nella musica sacra.

Credere che siano soltanto gli “operatori del settore” a soffrire di questo stato di cose è quantomeno riduttivo. La verità, tanto amara quanto impalpabile, è che la vita culturale stessa del Paese risulta enormemente impoverita dalla perdita di fruizione di un patrimonio così vasto e significativo. Non solo: visto che la musica è espressione dei più profondi sentimenti umani, nonché frutto di processi mentali altamente sofisticati (si pensi al contrappunto, al pensiero sinfonico o a particolari forme compositive), direi che la sua completa estromissione dalla collettività abbia contribuito in maniera determinante al generale abbrutimento della società contemporanea. Da qui a capire che il danno derivante dalla dilagante ignoranza musicale sia, prima di tutto, un problema sociale, il passo è, o dovrebbe essere, molto breve. Il fenomeno non è certo relativo soltanto al nostro territorio nazionale, ma non v’è dubbio che lo stato italiano, rispetto ad altri paesi più virtuosi e più attenti alla questione culturale, elargisca risorse sempre più esigue a sostentamento della musica cosiddetta colta e di quelle istituzioni che, con estremo coraggio e fatiche indescrivibili, cercano di mantenere in vita un settore in avanzata fase agonica.

E così, mentre la cosiddetta leggera, in tutte le sue varianti, riflette oggi più che mai la regressione intellettiva e cognitiva di una fetta sempre crescente di popolazione; mentre la musica commerciale fagocita il pressoché totale panorama sonoro nazionale, dalla produzione al suo consumo, passando per una distribuzione estremamente capillare che può contare su ogni tipologia mediatica; mentre il concetto stesso di musica d’arte viene vilipeso e costantemente inquinato da soggetti a metà tra il clownesco e il caricaturale; mentre ciò che resta del comparto colto crolla sotto il peso insostenibile del nulla che l’assedia, nonché di quello espresso, paradossalmente, da nuovi compositori e da una produzione contemporanea nelle cui fattezze, il più delle volte, si stenta a riconoscere le sembianze dei più elementari principi di quest’arte; mentre tutto questo accade – dicevo – si perdono la memoria e il valore dell’eredità musicale, e si rendono vani tutti i tentativi di ridare alla musica il suo spazio vitale e quella dignità disciplinare a cui avrebbe diritto.

Tutto ciò è già di una gravità incommensurabile, per nulla paragonabile alle condizioni in cui versano altri ambiti culturali, pur sofferenti. Per fare un esempio, la scuola e i mezzi di divulgazione di massa danno a tutti la possibilità di conoscere il pensiero e l’opera di scrittori, di poeti, di filosofi e scienziati di ogni epoca, mentre nulla di tutto questo avviene per i musicisti. Da Monteverdi a Penderecki, da Palestrina a Ligeti, passando per una folta quanto sconosciuta schiera di eccellenti interpreti, il vuoto che ne consegue è di dimensioni ciclopiche, e in questo vacuum assoluto figuri di difficile definizione sguazzano liberamente e senza vergogna. Da veri imbonitori dell’arte, essi occupano abusivamente uno spazio destinato a personaggi di ben altra levatura: sono questi, per l’intera e ignara collettività, i rappresentanti unici e incontrastati dell’arte musicale. Ma c’è di più: finanche all’interno del già risicato comparto colto, personalità artistiche di grande spessore vengono, per motivi apparentemente inspiegabili, ignorate, messe a tacere o estromesse dai principali canali produttivi, accademici e divulgativi, quasi come si trattasse di “errori di produzione” non assimilabili ai contesti contemporanei di un sistema malato, autoreferenziale e governato da un’asfissiante autocrazia.

È il caso – manco a dirlo, tutto italiano – di Domenico Bartolucci, compositore eccelso e, al contempo, uomo di Chiesa. Musicista straordinario e cantore del Papa, Cardinale dal 2010 e direttore della Cappella Pontificia Sistina fino alla sua forzata estromissione avvenuta nel 1997 (unico caso nella storia, essendo questa carica in perpetuum), Bartolucci è stata una delle voci più forti, autentiche e prolifiche della musica colta italiana del Novecento, erede di una cultura che affonda le sue radici nella più salda e remota tradizione italica. Ne scrivo in virtù della sua indiscutibile grandezza, manifestatasi in creazioni musicali di altissimo valore, e anche per averlo conosciuto e frequentato per un breve periodo della mia vita.

Negli anni Novanta dello scorso secolo, infatti, Bartolucci entrò fortemente nella mia formazione artistica per merito di Silvano Sardi, allora mio insegnante di composizione e musicista magnifico anch’egli, a cui ero legato da un rapporto speciale sin dalla mia nascita. Fu il Sardi, quindi, ad iniziarmi all’analisi delle partiture del Maestro, con lo studio e l’ascolto, per me indimenticabili, dei suoi Mottetti, dei Madrigali e di tanta musica sinfonica e strumentale. La forma sempre chiaramente delineata, come nelle opere dei più importanti compositori della storia, l’assetto granitico delle sue creazioni, la strumentazione sapiente e soprattutto un legame indissolubile tra suono e testo mi diedero fin da subito – ricordo – la misura della grandezza di questo artista.

Fu sempre Silvano Sardi (che, oltre a condividere i natali mugellani con Bartolucci, nutriva per lui una vera idolatria) a consigliarmi di continuare gli studi di composizione con il Maestro, in un impeto di autentica onestà intellettuale in virtù della quale era pronto a “sacrificare” un proprio allievo con il fine di affidarlo ad un personaggio di cui, evidentemente, riconosceva la pura e inconfutabile genialità. Così fu, grazie alla sua intercessione, per circa un anno, durante il quale mi recai, a cadenza mensile, in Via Monte della Farina in Roma, residenza capitolina del musicista.

Il primo incontro ebbe su di me un grande, inevitabile impatto: la straordinarietà di trovarmi di fronte a un gigante della musica del mio tempo era amplificata dalla particolarità che ciò avvenisse negli stessi luoghi che, secoli prima, avevano ospitato veri e propri pilastri della musica antica, tra cui Giovanni Pierluigi da Palestrina, Luca Marenzio, Jacob Arcadelt e Josquin Desprès. In seguito, ogni qual volta ripercorrevo i lunghi corridoi vaticani e le austere scalinate che portavano all’abitazione di Bartolucci, la sensazione che provavo era sempre uguale: sulla mia pelle, cioè, “sentivo” tutta l’arte che quelle mura e quelle strutture semplicemente trasudavano. In quel luogo, per diversi mesi, perfezionai il contrappunto e l’armonizzazione delle scale (esercizio, quest’ultimo, che il Maestro mi impose sin dal primo giorno); e in quella dimensione, unica e irripetibile, ciò che ritengo essere stata una delle esperienze artistiche più importanti della mia vita rafforzò in me la convinzione di interagire con uno dei più grandi compositori della storia. Davvero una fortuna senza pari, che non si esaurì con la fine di quell’indimenticabile anno in cui presi lezioni da lui, giacché i rapporti con Bartolucci, pur diluiti nel tempo, si interruppero solo con la sua scomparsa, avvenuta nel 2013 alla veneranda età di novantasei anni. Più di una volta, infatti, mi capitò di fargli visita presso la sua residenza estiva di Montefloscoli, vicino alla natia Borgo San Lorenzo, e di chiedergli consigli sul completamento di alcune mie composizioni. Inoltre, indelebili nei miei ricordi sono le sue presenze alle Settimane Musicali di Campo Tures, in provincia di Bolzano, e al primo Concorso di Composizione dedicato alla figura di Franz Liszt, che si tenne a Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno, nell’aprile del 2004, nel quale io stesso, in qualità di direttore artistico, invitai il compositore come presidente della commissione esaminatrice dei lavori.1

In verità, gli incontri con Bartolucci non erano semplici lezioni di tecnica compositiva, bensì un esercizio del cuore e della mente. Ogni suo consiglio, ogni suo segno, gesto o sguardo, gli innumerevoli esempi di vita e gli aneddoti che elargiva con amichevole generosità: tutto aveva un immancabile fine educativo.

«Oltre alle doti naturali» – amava dire – «nella nostra arte rivestono un ruolo imprescindibile la costanza, il lavoro quotidiano e il cesellamento delle proprie attitudini». È proprio questa caratteristica ad evidenziarsi in tutta la sua sconfinata produzione: un’applicazione costante e certosina, volta a plasmare la materia musicale al pari di uno scultore che realizza la sua creazione a partire dal grezzo, in una concezione tutto sommato molto artigianale del far musica. Lo stesso Silvano Sardi, in una descrizione dell’arte compositiva del Maestro intitolata Il modo di comporre evidenzia il suo essere «intransigente, quasi maniacale, attento sempre alla sostanza concettuale», sottolineando quanto «la ricerca, in questo senso, lo porti alla incontentabilità».2

Con inossidabile tenacia e una perseveranza che definirei michelangiolesca («la gomma è più importante del lapis», tuonava spesso con la sua cadenza tipicamente toscana, riprendendo un ammonimento di Vito Frazzi, uno dei suoi insegnanti di composizione), Domenico Bartolucci, durante la sua lunga parabola artistica, costruisce un catalogo compositivo di dimensioni colossali: sei Oratori, un Magnificat, uno Stabat Mater, un Te Deum, un Miserere, una Cantata Biblica, sei libri di Mottetti, cinque Libri delle Messe, due libri di Madrigali, opere per organo, brani strumentali vari (tra cui uno splendido Concerto in Mi per pianoforte e orchestra),3 l’opera lirica Brunellesco, la Sinfonia Rustica “Mugellana”, e molte altre composizioni strumentali e vocali; brani nei quali si rintraccia, salda e perseverante, la cifra del suo pensiero e della sua penna, volta a disegnare solide strutture architettoniche sia nei grandi affreschi sonori che nelle miniature, confermando un inossidabile credo nell’arte, perfettamente parallelo a quello spiritual-religioso di cui il suo corpus compositivo è specchio assoluto ed evidente.

Il successo che la sua attività conosce, soprattutto all’estero, conferma l’assolutezza del suo pensiero, al quale un pubblico sempre entusiasta risponde con un impeto d’altri tempi. Ne sono prova i trionfi di innumerevoli esibizioni, soprattutto in occasione delle tante tournée internazionali, sia in veste di compositore che di direttore,4 nonché le tante attestazioni di stima e riconoscenza di decine di allievi e centinaia di cantori, che lo ricordano come una figura determinante per il corso delle loro rispettive carriere musicali.

Del resto, dai suoi esordi fino alla piena maturità, Domenico Bartolucci mostra progressivamente tutte quelle caratteristiche comuni ai grandi esponenti della cultura musicale colta: inizia a comporre a soli quattordici anni e, giovanissimo, è già Maestro nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore in Firenze. A Roma, dove si trasferisce di lì a poco, si immerge nello studio della polifonia e della musica liturgica presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra. Gli insegnamenti di Francesco Bagnoli, Vito Frazzi e Ildebrando Pizzetti gli permettono di perfezionare sempre più quell’innato talento, tanto che, in breve tempo, la sua fama inizia a diffondersi tra le varie cappelle musicali delle basiliche papali. Nel 1947, a soli trent’anni, Bartolucci riceve l’incarico di dirigere la Cappella Liberiana, per la quale comporrà un’enorme mole di brani ad uso liturgico. Le sue competenze e la sua notorietà crescono vertiginosamente, fino a che, nel 1952, viene nominato Vice-Maestro della Cappella Sistina e, nel 1956, alla morte di Lorenzo Perosi (sua guida dal 1902), direttore perpetuo della prestigiosa istituzione pontificia. La nomina, conferita a poco meno di quarant’anni da Papa Pio XII, riveste il musicista-sacerdote di un’enorme autorevolezza all’interno dell’ordinamento culturale vaticano; da allora, il percorso artistico di Domenico Bartolucci si sviluppa senza sosta, producendosi mirabilmente nella composizione, nell’insegnamento (fu docente presso il Conservatorio di Musica di Roma, presso l’Accademia di Santa Cecilia e presso l’Istituto Pontificio di Musica Sacra), nell’attività concertistica e nella direzione del Coro della Cappella Sistina, di cui sarà, oltretutto, uno dei suoi più grandi riformatori.5

Nonostante tutto ciò, il consenso sulla sua figura e sulla sua produzione sembra non essere unanime, e la consacrazione a icona musicale del Novecento, principalmente alle nostre latitudini, sembra non trovare riscontro negli ambienti accademici. Di certo, nei suoi confronti vi è una inconfessabile ammirazione ma, nella moltitudine delle correnti sviluppatesi in un periodo storico in cui le avanguardie iniziano a mostrarsi sempre più ostili verso le eredità storiche, finiscono per prevalere, evidentemente, punti di vista viziati da pregiudizi e da apprezzamenti ingenerosi: un movimento strisciante e di difficile identificazione (non ascrivibile, cioè, a questo o a quel critico, a questa o a quella istituzione), la cui presenza è dimostrabile da un dato inoppugnabile: nei programmi proposti e presentati dalle più blasonate associazioni concertistiche e nelle maggiori sale da concerto italiane la musica di Bartolucci è praticamente assente. Logico dedurre, quindi, che essa, per via del suo forte legame con il passato, a causa della prevalente vocazione modale (pur rivisitata in chiave moderna) e della chiara affezione verso le forme classiche, venga etichettata come datata e retrograda, se non addirittura scontata. Da ambienti d’élite, inoltre, che professano ben altre “affezioni” artistiche e che, sulla spinta di una modernità postbellica, muovono verso nuovi orizzonti estetico-filosofici e di costume, la sacralità che emana dalla sua musica sembra essere interpretata, più che altro, come un ostacolo all’affrancarsi, da compositore contemporaneo quale anagraficamente è, da quegli elementi che riportano indietro nel tempo fino agli stilemi palestriniani (se non addirittura al canto gregoriano vero e proprio), quasi corresse l’obbligo di muovere guerra alla tradizione.

A tutto questo si unisce l’effetto, imprescindibile, del vincolo esistente tra il Maestro e la Chiesa cattolica, il quale di certo non giova alla diffusione e alla conoscenza delle sue composizioni. Ciò non tanto a causa dello status tipicamente conservatore e “introverso” del mondo ecclesiastico – Bartolucci, è vero, sembra avere avuto sempre costanti confronti e condivisioni col mondo esterno – quanto, paradossalmente, proprio a causa di quel rinnovamento che l’istituzione conosce con il Concilio Vaticano II. Esso, a causa delle inedite scelte in fatto di musica liturgica, decreta la fine del ruolo che le composizioni ad uso delle funzioni religiose avevano mantenuto per centinaia d’anni. In altre parole, quell’epocale evento attraverso il quale il mondo cattolico intese aprirsi al nuovo e alle esigenze di una società in rapida trasformazione, incide duramente su un apprezzamento obiettivo del genio di Domenico Bartolucci e, di conseguenza, sia sulla diffusione delle sue composizioni che sulla sua notorietà. Il nuovo ordine conciliare, di fatto, finisce così per essere un freno ai due principali ruoli che il Maestro ricopre all’interno delle mura vaticane: di compositore ufficiale da un lato e di direttore del coro della Cappella Pontificia dall’altro; ruoli tra loro indissolubilmente legati.

È fuor di dubbio, infatti, che la produzione artistica preconciliare di Bartolucci sia stata ampia e costante almeno fino all’inizio degli anni Sessanta; in un periodo storico, cioè, in cui la musica era ancora il fulcro delle celebrazioni liturgiche. In questa fase, il compositore toscano crea senza ostacoli una considerevole mole di opere, già solo perché espressamente commissionategli dai vari organi ecclesiastici a supporto delle liturgie papali, per le celebrazioni delle ricorrenze di rito annuali e per particolari eventi all’interno della Chiesa. Dopo la riforma, è altrettanto evidente come la medesima attività si espleti con sempre maggiori attriti e difficoltà in relazione al progressivo ridimensionamento del contributo musicale alla liturgia, fino a risentirne notevolmente, giacché, di anno in anno, gran parte del repertorio tradizionalmente collegato alle funzioni religiose è, senza mezzi termini, da esse pian piano eliminato.

A Bartolucci non resta che adeguarsi, obtorto collo, ai nuovi indirizzi: lo fa con l’umiltà che ha sempre contraddistinto la sua missione di servire il Sacro, pur non risparmiando critiche, spesso aspre, verso i nuovi precetti vaticani e i suoi assertori. Il processo di esautoramento della sua figura procede a passi lenti ma inesorabili, fino a culminare, tre anni prima del nuovo millennio, in quella defenestrazione dalla carica principe che egli aveva rivestito per più di quarant’anni.

Quando Domenico Bartolucci, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, viene destituito dal ruolo di direttore perpetuo della Cappella Sistina senza alcuna valida motivazione,6 il mondo accademico e culturale, per una dovuta indignazione di facciata ovvero a causa di un reale moto di risveglio delle coscienze, è attraversato da un pur sommesso e magmatico sussulto. Taluni critici e direttori d’orchestra sembrano incredibilmente ricordarsi di lui; un nugolo di personaggi appartenenti alla intellighenzia musicale italiana ne scrive e ne parla; finanche coloro che, fino a qualche tempo prima, non si sarebbero mai esposti a suffragio della sua grandezza, sembrano uscire da un indecoroso e lungo letargo. Queste reazioni, però, non son sufficienti a un cambio di rotta e, di fatto, non sortiscono alcun effetto su un provvedimento irreversibile: lo Stato Vaticano, sull’onda di un entusiasmo sfrenato per una presunta modernizzazione dei paradigmi formali del culto e dei riti ecclesiastici, oltremodo irretito dal successo sancito dalle oceaniche “liturgie di massa” tanto care al Pontefice allora in carica,7 non ha alcun dubbio nel rimuovere uno dei più autorevoli rappresentanti dell’incommensurabile patrimonio musicale legato alla tradizione polifonica romana. L’evento, ultimo atto di un lungo processo di semplificazione delle funzioni, che va dall’eliminazione della lingua latina all’immiserimento musicale dei riti, sigla la caduta definitiva di un colosso e, insieme ad essa, la fine di un’epoca ormai irrevocabilmente archiviata dagli spietati meccanismi della contemporaneità.8

Inutile dire che la reazione del Maestro a un atto inappellabile quanto incomprensibile fu di grande disappunto; un’estrema ed intima sofferenza aggravata dal fatto che non gliene fu dato preavviso, che egli non fu interpellato per un’eventuale scelta di un successore degno di tale incarico, e che la notizia lo raggiunse, beffardamente, mentre si trovava in Giappone, proprio alla testa del coro della Cappella, con il quale stava effettuando una, peraltro trionfale, tournée!

Sic transit gloria mundi, sarebbe il caso di dire a commento di una vera e propria ingiustizia artistica e umana; ancor più sapendo quanto Bartolucci abbia significato per la rinascita del coro della Cappella Pontificia, e quale genuina sapienza musicale albergasse nel suo animo e nella sua mente. Fortunatamente, a testimoniare tale eccellenza, resta la sua vastissima produzione, regolarmente edita per i tipi delle Edizioni Cappella Sistina;9 resta un’ampia discografia che lo immortala sia come direttore che come compositore;10 resta una Fondazione, nata con Bartolucci ancora in vita e pienamente operante;11 restano i propri scritti, chiari, lucidi ed autentici, proprio perché nati da un’attività sul campo, piuttosto che da rigidi e teoretici accademismi, insieme alle interviste e agli scritti di chi ha voluto dar conto di lui e di una impareggiabile attività che ha attraversato tutto il XX secolo;12 resta il ricordo indelebile, in quei fortunati ascoltatori, di centinaia di concerti tenutisi in quattro continenti. Restano, soprattutto, le molteplici attestazioni di gratitudine e ammirazione da parte di amici e discepoli che confermano la schiettezza e la genuinità di un uomo al contempo semplice, saggio e sapiente; qualità in lui fuse con quel raro e straordinario talento di cui l’Italia dovrebbe andar fiera.

Note

1 Di questa esperienza resta una bella intervista a Domenico Bartolucci disponibile a questo link.

2 Domenico Bartolucci e la Musica Sacra del Novecento, a cura di E. Fagiolo, Padova, Armenia Musica, 2009, p. 201.

3 L’indicazione “in Mi”, senza specificare se maggiore o minore, è un chiaro riferimento all’uso della modalità, che dimostra come Bartolucci, già in gioventù – il brano è stato scritto tra il 1943 e il 1944 – si orienti verso gli antichi modi del canto gregoriano, piuttosto che verso il concetto di tonalità classica.

4 A dir poco prodigiosa era la sua conoscenza della produzione di Giovanni Pierluigi da Palestrina, che copriva l’intera sua opera omnia. Inoltre, testimonianze più che attendibili di estimatori, allievi e cantori confermano che le composizioni di Palestrina presenti nel repertorio della “Sistina” (che rappresentano comunque gran parte dell’intero catalogo palestriniano) erano da lui tutte dirette a memoria.

5 Come riportato nel testo a cura di Enzo Fagiolo (Domenico Bartolucci e la Musica Sacra del Novecento cit., p. 129), la necessità di riorganizzare la Cappella Sistina per elevarne il livello qualitativo è confermata da una lettera del 5 novembre 1957 inviata al Sostituto alla Segreteria di Stato, Mons. Dell’Acqua, nella quale Bartolucci scrive: «Occorre quindi riorganizzare la Cappella su basi veramente solide ed intendimenti più seri. La Cappella è oggi ridotta a sei tenori dei quali uno solo efficiente, quattro bassi dei quali due vecchi e uno malato. Contro gli inesistenti (praticamente) tenori e bassi, vi sono ben nove falsettisti… Il Regolamento di S. Pio X col nuovo ruolo di cantori, parla di tenori, bassi e di ragazzi soprani e contralti, niente affatto di falsettisti. Come poi sia andata che il M° Perosi abbia nominato ben dodici falsettisti, io non so… Occorrerebbe quindi che il S. Padre si degnasse di prendere a cuore la cosa…».

6 Sebbene la motivazione ufficiale dell’allontanamento di Bartolucci dalla direzione del coro della Cappella Sistina sia da rintracciarsi, come riportato nel testo a cura di Enzo Fagiolo (p. 144), in un nuovo Codice di Diritto Canonico, che fissa dei limiti d’età per le cariche ecclesiastiche, non è chiaro come questa regola possa essere stata applicata a un ruolo ad perpetuum, e come sia stato possibile dar seguito ad un effetto retroattivo, teoricamente inattuabile.

7 Basti ricordare, tra gli altri, il XXIII Congresso Eucaristico Mondiale tenutosi a Bologna il 27 settembre 1997, nel cui contesto fu organizzata la visita pastorale di Giovanni Paolo II. Per lui, e per una platea di circa quattrocentomila persone, si esibirono, tra gli altri, Bob Dylan, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Michel Petrucciani, Adriano Celentano e Andrea Bocelli.

8 In un’intervista rilasciata per Grandi Interpreti, a cura di Umberto Vassallo e Cristina De Dionigi (Roma, Edizioni Musicali III Millennio, 2005), Domenico Bartolucci afferma: «Oggi la gente vive nel canzonettismo e nel chitarrismo più scialbo. I giovani, purtroppo, sono stati sviati da una falsa educazione che ha dimenticato la nostra educazione musicale. Non sono certo il primo a dire che la vera musica è morta! Oggi non c’è più meritocrazia. Ho preferito isolarmi dal mondo musicale contemporaneo nel quale mi trovo a disagio… alla Sistina ho dedicato tutte le mie energie, non soltanto componendo tutto il repertorio liturgico, ma soprattutto concentrandomi sulla esecuzione della polifonia rinascimentale. Poi, in questo campo la Chiesa ha rinunciato a se stessa e alla propria fisionomia, dimenticando la sua tradizione musicale».

9 Le Edizioni Cappella Sistina iniziano l’attività editoriale nel 1961 e hanno in catalogo l’opera omnia di Domenico Bartolucci, pubblicata in quaranta volumi. Inoltre, ne curano anche la discografia, con la pubblicazione delle registrazioni del musicista sia come compositore che come interprete alla testa del coro della Cappella Pontificia.

10 La discografia di Domenico Bartolucci, sia come autore che come direttore, consta di circa trenta pubblicazioni, tra LP e CD. Fra gli interpreti più importanti delle sue opere sono da menzionare gli organisti Giancarlo Parodi, Juan Paradel Solé e Lorenzo Bonoldi, i direttori d’orchestra Sándor Zoltán e Walter Attanasi, il violonista Antonio Salvatore, il violoncellista Luca Signorini, le pianiste Galina Vracheva e Velia De Vita, oltre ad un folto numero di Ensamble strumentali e vocali, tra i quali spiccano la Stàtna Fihlarmonia Kosice (Slovacchia), l’Hassler Ensamble (Miskolc, Ungheria), l’Orchestra Stabile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, l’Orchestra Sinfonica dell’Ucraina, l’Orchestra Sinfonica di Pesaro, l’Orchestra Sinfonica di Grosseto, il Coro Interuniversitario di Roma, il Coro Dumka (Ucraina), il Coro S. Maria di Loreto, il Coro Polifonico S. Carlo, oltre, ovviamente, al coro stesso della Cappella Sistina. LP e CD sono stati pubblicati, oltre che dalla Edizione Cappella Sistina, anche dalle etichette Everest, Basf Stereo, Jasrac, Biem-Artisjus.

11 La Fondazione Domenico Bartolucci, creata a Roma nel 2003 sotto l’egida di eminenti membri e soci fondatori nell’ambito ecclesiastico e musicale (tra cui l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, il Cardinale Paul Poupard e il Maestro Riccardo Muti), opera con il fine di preservare, divulgare e promuovere l’opera del compositore attraverso la cura, l’archiviazione e la pubblicazione di tutte le composizioni del Maestro, nonché degli innumerevoli documenti, appunti, carteggi e manoscritti autografi. Degna di nota è l’iniziativa della Fondazione di mettere gratuitamente a disposizione degli utenti, sul sito web, tutte le partiture del musicista. Sullo stesso sito è possibile acquisire dettagliate informazioni riguardanti la generale attività dell’istituzione

12 Scritti di e su Bartolucci sono raccolti nel testo a cura di Enzo Fagiolo (pp. 169-223). Inoltre, un notevole contributo alla conoscenza della figura del Maestro è dato dal testo di Simone Baiocchi Cantori Romani, Musica Sacra a Roma nei ricordi di Otello Felici, cantore pontificio (Varese, Zecchini Editore, 2021).