Irina Ermakova,
Lo specchio di bronzo
Elisa Baglioni

Irina Ermakova, Lo specchio di bronzo, ed. it. a cura di A. Niero, Torino, Einaudi, 2023.

Lo specchio di bronzo raccoglie un’ampia selezione, scandita per titoli, delle raccolte di Irina Ermakova e rappresenta, per la «Bianca» Einaudi, il ritorno alla poesia contemporanea russa dopo un intervallo di quattordici anni. Nel 2009 Buio diurno di Sergej Stratanovskij (Torino 2009) – curato, come Lo specchio di bronzo, da Alessandro Niero, oggi uno dei traduttori più prolifici di poesia russa – traghettava in Italia l’esperienza lirica di un esponente del samizdat leningradese, che per tensione etica e raffinatezza estetica ha dato testimonianza della vitalità di questo genere in patria.

Benché rientri anagraficamente nell’ambiente culturale di cui Stratanovskij è stato figura centrale, Ermakova matura nella discontinuità dalle comunità sommerse del samizdat, che pure meriterebbero d’essere ancora esplorate, e impone una voce indipendente che cresce «dove confinano tradizione e avanguardia» (p. 69).

Libera da affiliazioni e appartenenze la poetessa sorprende, in primo luogo, per lo spazio concesso a una costante delle lettere russe, ovvero l’attenzione alla sorte degli ultimi, dei marginali, a un’umanità segnata dalla durezza della vita e dalle sciagure, qui raccontata con un «naturalismo leggero, spruzzato di tenue sorriso, mai compiaciuto e anzi permeato del rispetto e della compassione che la migliore tradizione russa riservava ai nesčastnye, gli ‘sfortunati’, i ‘disgraziati’ (Introduzione, p. XV). Nella raccolta Alveare, pubblicata nel 2007, Ermakova traduce in versi la sua esperienza di vita a contatto con i personaggi che popolano la periferia sud di Mosca, Nagatino. Il titolo russo, Ulej, è di per sé significativo. Nel renderlo con ‘alveare’ (potrebbe essere tradotto anche con ‘arnia’) il traduttore ci introduce alle periferie, anonime e densamente abitate, ma anche alla dimensione organica della massa, alla sua vitalità. Ermakova riscatta i personaggi sia dall’alveare che dall’arnia rendendoli degni di epos e, al contempo, assegnando loro una identità per mezzo di nomi personali e nomignoli. Un’esistenza piena di grazia e ferocia è quella di Ivan Trubeckoj, che

era il più bravo
a disegnare bisonti con la china
all’istituto d’arte
[…]
e si sbronzò – prima volta – accomiatandosi
quando era già rapato a zero
e saltò in aria
insieme all’autocarro
entrando a Groznyj
(Ivan Trubeckoj, p. 79)

Si potrebbe ugualmente prendere ad esempio Angelina Filippovna e la sua accolta di gatti, o Goga, il bambino uscito dalla “scuola degli sciocchi”, oggetto di scherno dei coetanei, «ma quando dalla finestra lo ustionarono con l’acqua bollente», fu soccorso da tutto il caseggiato e «verrà reso merito per quell’ora mentecatta, / per l’ora buona, ma buona, in cui volemmo bene a Goga» (E c’è anche Goga, nostro vicino d’appartamento, al 102 –, p. 89).

Presenti sono i temi della tradizione poetica, primo tra tutti quello naturale. I rimandi espliciti a Pasternak in Pan e in Primavera permettono di riconoscere il valore salvifico, erotico-vitale della natura e la centralità dell’unione tra l’uomo e il cosmo. Ma a differenza di Pasternak, legato alla dimensione sensoriale, passionale e terrena e al processo di continua trasformazione che interessa l’esistente, Ermakova predilige una natura rarefatta, che trae ispirazione dal classicismo e si confonde con il mito. In questo caso «il discrimine che separa un mero acquazzone dalla sua trasfigurazione metafisica non è facile da tracciare» (Introduzione, p. XII). Istituendo un ponte tra cielo e terra, tra dimensione immateriale e reale la poetessa punta alla leggerezza e alla letizia dell’atmosfera: «Come cade svogliata / questa foglia. / È ammutolita. Ha dondolato. Indugiato. / Farfuglia qualcosa, frusciando./Una notifica dal cielo?» (Come cade svogliata, p. 115). Con le pietre in tasca un bambino subisce la gravità terrestre, poi «che l’onda ti spiani, / e a un tratto t’involi – così vicino è il cielo» (Il cielo è così basso che, calcata, p. 157). In una poesia «simili a pesci attraversavano la sala / astri impiastrati di limo» e qualche verso più avanti si inserisce un intermezzo ironico, un filtro che la poetessa usa per attualizzare i temi della tradizione e gli emblemi letterari: «ma ti ricordi, angelo, come a distanza / celebrassimo la vita, il suo sfacelo, / facessimo gli gnorri onestamente, / ci uccidessimo a vicenda teneri?» (Siamo vissuti a lungo insieme sulla terra –, p. 31).

Ermakova rimane nel solco della tradizione quando attinge al mito, come nella raccolta pubblicata in Russia nel 2002, Ninna-nanna per Odisseo. Il tema prende la scena nella rilettura di figure come Pan, Afrodite, Amore e Morte e in quelle dedicate a Odisseo. Quale funzione si riconosce al mito? Pur citandolo la poetessa immagina un Ulisse diverso da quello brodskiano. In Odisse o a Telemaco del 1972 e in Itaca del 1993 Iosif Brodskij prefigura un eroe tragico, corroso dal senso di perdita, un esule senza ritorno (Brodksij stesso), che vede nell’assenza del padre la salvezza del figlio, o una figura a cui venga negata la possibilità di ricucire i legami con gli affetti familiari. L’Ulisse-Odisseo di Irina Ermakova è legato e si completa nella figura di Penelope. La co-protagonista si esprime per mezzo di gesti concreti (la colazione o l’infuso di trifoglio) e nell’invito a non avere rimpianti «bevi, non avere rimpianti, bevi, mia gioia, mia gioia passata» (Ninna-nanna per Odisseo, p. 47). Alle peregrinazioni solitarie dell’eroe si accompagna dunque una voce familiare e dialogica, la saggezza dell’accettazione e la possibilità di accogliere in sé l’altro e nell’altro la vita. In questo senso il mito offre la possibilità di nobilitare e valorizzare l’esperienza umana.

La poesia antica compare nuovamente attraverso un gioco metaletterario negli anni Novanta, quando Ermakova inventa la maschera di Yoko Irinati, un’autrice giapponese del XII secolo di cui la poetessa russa avrebbe firmato le traduzioni. I 29 tanka presenti nello Specchio di bronzo restituiscono le atmosfere ironiche ed erotiche proprie all’intera silloge. Interessante è il risvolto postmoderno dell’operazione, dal momento che Ermakova aggiunge un paratesto di finzione, firmando una cornice introduttiva, le note alle poesie e una postfazione nelle quali assegna a Yoko Irinati una biografia e un ruolo nella storia letteraria giapponese.

Di fronte alla varietà dei percorsi è possibile, su tutti, individuare un modo unitario di posare lo sguardo caratterizzato da un’attenzione verso la realtà. Inframezzati da stilizzazioni di poesia antica, excursus mitologici e fughe nel paesaggio troviamo i dettagli quotidiani, il linguaggio familiare, le croci e le delizie del byt. Un elemento che le permette di essere «innamorata del buon vivere e latrice di attimi di grazia» (Introduzione, p. XX).

C’è un tema, tuttavia, a cui Ermakova si sottrae, una costante cara ai poeti e alle poetesse del periodo tardo e post-sovietico: il rapporto tra individuo e potere. Una costante cara a coloro che scrivendo hanno voluto raccogliere il testimone di una letteratura come forma di r-esistenza, in dialogo con le pagine censurate del Secolo d’argento. Non solo, poiché il rapporto tra individuo/poeta e potere risale alle origini della poesia russa ed è anche al centro di un caposaldo, un “bronzo sacro” della letteratura, il puškiniano Cavaliere di bronzo.

Nelle scelte formali la poetessa spazia da soluzioni metriche a cadenze irregolari, da sonetti a tanka, a versi liberi, pur rimanendo nell’ambito dello specifico poetico. Nel componimento quasi un’interiezione (p. 163) riconosciamo un quasi calligramma, poiché il vaso, oggetto del discorso, è riprodotto visivamente attraverso la disposizione dei versi, mentre nel testo in apertura dell’antologia lo stile iterativo e ipnotico ci riporta alla formularità sciamanica. Il dettato poetico è saldo nella rete fonosimbolica, nei procedimenti anaforici e, più in generale, nell’adozione degli strumenti della retorica classica. Aspetti che non sfuggono alla sensibilità e all’esperienza del traduttore e sono riprodotti nel raffinato movimento musicale. In alcuni casi, come dichiara nella nota al testo, A. Niero inserisce regolarità rimico-ritmiche, come i seguenti endecasillabi con rime e quasi-rime:

E dove mai affrettarsi poi chiocciola
il tuo lui giace
sommerso in una schiuma che si sfiocca
o se ne giace
con qualcheduna se ne giace e attende
nuovi visti
è un lestofante lui è un indolente
il tuo ulisse
(La chiocciola, p. 41).

In altri casi compensa con sobrietà e equilibrio le figure di suono: «il vento porta con sé / il frusciante sferraglio dell’estate / come una foglia in festa» (Il vento porta con sé, p. 169). Mirabile è la resa onomatopeica della poesia Un albero – voilà – e sotto il balcone è un fiorire che risuona fino all’ultimo verso: «Sfrasca di verde il buio, di un verde vischioso, / con dito scabro il vento sfrucona le foglie, / poi, nella corsa, scarta in diagonale e, in un fruscio» (Un albero – voilà – e sotto il balcone è un fiorire, p. 87). Se il battito della poesia è mimetico, una divergenza si coglie nella resa del registro linguistico. L’innalzamento di tono che si produce in italiano influisce sull’immediatezza di una poetica vicina al byt, ricca di espressioni semplici e quotidiane. Con termini come rorido, ridesto (p. 37), tinnire, polverulento (p.49), figgere (p. 69), verzura (p.161), favella (p. 171), recare (p. 181), cupreo (p. 193), la materia dei versi, in bilico tra cielo e terra, sceglie l’empireo. Una divergenza che riguarda più in generale i due sistemi letterari e la possibilità della lingua poetica russa di accogliere con maggior naturalezza lo strato colloquiale e familiare. Sulla base di queste e altre scelte misuriamo il ruolo che il gusto e l’esperienza, la soggettività del traduttore svolgono nella ricezione di un’opera straniera.