Il saggio tende all’unione fra teoria e prassi, fra generale e particolare: unione che si dà come dialettica, in quanto entrambi i termini giungono stravolti, modificati e in un qualche modo inverati al traguardo della scrittura; tuttavia, l’imperfezione stria tali aspirazioni all’unità, nella distanza che la scrittura, come forma d’ordine letterario che allude a forme d’altro ordine, interpone fra i due momenti. Il saggista «non abita la Forma, come non abita il Sistema, pur avendo bisogno di attraversare di continuo sia l’una che l’altro».2 L’imperfezione della saggistica, il suo aspirare a un compimento che non giungerà, occupa lo iato fra pretesto e tensioni, allude a una perfezione non risolta ma possibile: in ciò trovando la più compiuta formulazione, di necessità non conclusa.
La forma del saggio è segnata in tracce profonde dall’obbligo d’abitare lo iato: percorrendo senza mai potervisi soffermare, continuamente dovendone evadere, il discorso dimostrativo, specialistico, oggettivo, di necessità si ritrova a dover esprimere simile incompiutezza in modi che possano sopportare l’ambiguità, che nella loro duplice significanza riescano ad esprimere una tale tensione, sempre vibrante quanto mai – nella lettera – conclusa. Il linguaggio, per sostenere tali ordini di ragionamento, dovrà inarcarsi in screzi di figuralità. Nella scrittura del Fortini saggista, lettore di Mao, questo significa – secondo l’ottica di un continuo superamento di tesi e antitesi in direzione di altre contraddizioni, di più elevato tenore – la necessaria compresenza nell’intimo della scrittura d’utopia e impossibilità, di totalità e limite;3 appare necessario notare come egli non scrivesse saggi al fine di innestare su una scrittura ‘neutra’ tale proposta, contemplando piuttosto il genere stesso, in nuce, tali ordini di ragionamento non in quanto possibilità bensì secondo precise necessità.
D’altro verso, il saggista contempla l’indimostrabilità delle proprie parole, fissando fra l’incredulo e l’allibito lo scontro tra questa e la certezza d’alcune verità. Cosa significa ciò? La presenza del pretesto è legata allo stato di cose che, passibile di essere mutato, è tale, definito, in un dato momento – non appare possibile partire se non da lì; lo iato dichiarato dall’ambiguità della forma (a sua volta necessaria) nasce dallo scontro fra il particolare e una teoria generale, prospettica; la direzione così illuminata è una fra le innumerevoli. Il saggio per suo statuto rifiuta un approccio teleologico, come qualsiasi inevitabilità; esprimendo un processo mentale – «la tradizione vuole che lo scrittore di saggi ci dica “cosa” pensa ma anche “come” pensa; il più delle volte lo dice in maniera indiretta»4 – indica una strada e una prospettiva partendo dal passato per arrivare al futuro, attraverso il presente, senza alcuna pretesa di necessità. Se la saggistica riconosce e accetta il suo non poter essere altro che partigiana (proprio nell’accezione etimologica: di parteggiare), essa è altresì consapevole che tale direzione illuminata non dovrà essere, in ragione di qualche forza non meglio definita, imboccata dalla storia. Quella del saggio è una proposta e una scommessa, la sua contraddizione è fra quel che è e quel che, secondo la particolare ottica innestata, potrebbe essere. La tensione totalizzante che parte dal pretesto segue questa direzione. La saggistica non chiede di essere dimostrata quanto di essere inverata.
Fortini, nella propria prospettiva, intendeva questo quando parlava del dissolversi del discorso saggistico nel reale, nella storia, una volta portato a termine il proprio compito, divenute vere quelle che al suo interno risiedono solo in quanto tensioni: una volta che la storia avesse, pur all’interno delle proprie necessarie e ineliminabili contraddizioni, imboccato la via indicata, o meglio, fatta questa rifulgere nella saggistica. Del saggio, a quel punto, non resterebbe che un buffo simulacro, documento di un tempo passato, concluso per sempre.
Ma le cose non sono così semplici, anche all’interno del ragionamento di Fortini. Da una parte, a livello filosofico, le concezioni del saggista riguardo allo storicismo non sono per nulla definite né definitive: «bisogna essere antistoricista con se stessi, storicisti con gli altri».5 Il passato altrui potrà anche essere futuro nostro, e lo ieri non finirà per sempre. D’altro verso, il superamento, la tensione totalizzante che grava sul pretesto (in quanto elemento tratto da un preciso contesto), una volta inverata, renderebbe inutile il discorso del saggio; tuttavia, il pretesto è striato dell’ironia del saggista, il suo legame puntuale con il momento storico è, in parte, solo apparente. Non sussistendo per Fortini la possibilità di un superamento assoluto delle contraddizioni, alcune tensioni presenti nella saggistica, magari non immediatamente palesi, rimarranno sempre attive come proposte, lasciando aperta la strada a ulteriori prospettive. «Una verità obbiettiva che non si sapeva, o appena in sogno, di possedere».6 La contraddizione in realtà è esterna alla saggistica e su essa riluce, proietta riverberi: è quella fra una tensione utopica e un reale strinato dalle mediazioni, massimo cruccio degli uomini d’ogni tempo. Se il saggio tende alla propria dissoluzione in un mondo autentico, tale possibilità non potrà mai essere raggiunta; esso, in fondo, non allude né al superamento di una particolare contraddizione né alla loro fine, quanto alla proposta di una particolare prassi teorica di superamento. L’ossimoro è apparente, e anch’esso è illuminato dai riflessi fra particolare e universale, denuncia una realtà contraddittoria. Il saggio allude alla totalità conoscendola come inattingibile. Vuole esperire la dissoluzione nel proprio adempimento, senza ignorarne l’impossibilità.
La saggistica di Fortini non ha avuto, inutile dirlo, la possibilità di esperire tale estrema realizzazione nel proprio suicidio. Chiedersi cosa rimanga di questi testi, letti oggi, è necessario, considerato come le situazioni di sfruttamento e di controllo di trenta o cinquant’anni fa non costituiscano altro che i prolegomeni, in prospettiva ben riconoscibili, della nostra contemporaneità.
I pretesti dai quali la saggistica prende piede condividono una particolarità, quella di venire radicalmente determinati dal momento storico della scrittura. Si tratta del modo in cui il mondo penetra in questo genere di testi, ne diviene – anche se in forme parziali – soggetto. Nel compito immediato che essi assumono nel saggio, si pongono in una dimensione d’uso. Il saggio del Novecento si colloca nella maggior parte dei casi entro un dibattito di qualche sorta nella propria contemporaneità, il suo essere partigiano si propone in una postura di dialogo, o di scontro, con altre posizioni, azioni, parole. Quando il pretesto sarà di natura artistica (è il caso, dunque, della critica come saggistica), esso verrà assunto in una precisa dimensione storica che comprenderà, oltre all’opera nella propria realtà oggettuale, un’altra serie di fattori puntuali: come essa venga recepita nell’ambiente cui il saggio si rivolge, dove il dibattito coevo collochi tale oggetto, quali letture allegoriche ne vengano date dalla critica; ma anche: a quali prospettive storiche e simboliche il saggio voglia parlare e a quali parli, se esista e quale sia il livello percepito delle contraddizioni fra i vari discorsi, letterario, politico e artistico, e così via. La dimensione veicolata dal pretesto entra, in quanto e perché storica, pienamente in relazione con quella universale: anche nel caso in cui oggetto del saggio sia un’opera. Il trascorrere del tempo, che ha effetti su qualsiasi testo (anche solo per l’accumularsi di letture e interpretazioni) su di esso lascia tracce molto particolari: la porzione di realtà che, attraverso l’impiego di svariati specialismi, era entrata a far parte del discorso saggistico, e che nelle sua particolarità era stata superata sia nei modi (l’ironia) che nei mezzi (proposta di sintesi delle divisioni delle specialità entro tensioni universali), nell’allontanarsi dal momento della scrittura spesso perde di attualità e di interesse. Le dimensioni della sua lettura sono sempre esposte al rischio di un passaggio dalla rilevanza del contingente al documentario: diviene documento di un’epoca un testo che possegga altra utilità per il lettore se non quella relativa alla pura ricerca storica. In caso contrario, per colui il quale saprà leggere nel saggio tensioni che riguardino e investano ancora la propria individualità posta in una collettività, la lettura delle contingenze per così dire scadute diverrà allegorica: se le proposte appariranno ancora valide, il pretesto perderà in parte il suo valore puntuale per divenire in un qualche modo esemplificativo, il suo ordine particolare diventerà allusione di uno più generale, di differente collocazione. Chi dovesse oggi leggere un saggio di Fortini sulla situazione del marxismo in Italia nei primi anni ’50, o vi si accosterà alla ricerca di documenti, proponendosi quantomeno il distacco e la freddezza previsti da una ricerca che si vorrebbe nella maggiore misura possibile oggettiva; oppure, assumendo su sé le tensioni proprie del saggio, leggerà l’argomento come chiave allegorica, presupponente i due modi della distanza e del richiamo, con la coscienza che tali tensioni sono presenti a monte del pretesto entro al quale trovano espressione; che rapportandovisi dialetticamente in una certa misura ne risulteranno mutate; che nulla vieta, previa verifica, una relazione con il presente di oggi, e con il futuro.
La distanza dal momento della scrittura, quindi, fa rilucere quella che della saggistica è la verità profonda: ossia, lo si ripete, la proposta di una prassi teorica di superamento delle contraddizioni del reale in una certa direzione, dove il legame con una contingenza sarà pretestuoso (appunto) e allegorico, senza in nessun modo costituire l’essenza di un saggio quanto, piuttosto, la sostanza. Il trascorrere del tempo aiuta a evidenziare tali tensioni, che non necessariamente appaiono completamente palesate nel momento in cui il saggio viene scritto con una ben precisa ‘destinazione d’uso’; trasponendolo, volendo, in una dimensione di ri-uso.
Considerare la saggistica secondo la concezione di letteratura di Brioschi appare a questo punto semplice e piuttosto diretto: essa è da considerarsi un oggetto estetico, necessitando del reale (sotto forma di conoscenze storiche, sociologiche, filologiche ecc.) alla propria comprensione, e aiutando ad interpretare (ma anche a modellare) la realtà stessa. La saggistica, oltre che a potersi considerare quindi oggetto estetico, conterrà anche una tensione a farsi esemplificazione paradigmatica «dei nostri usi del linguaggio, dei bisogni e delle ragioni che motivano le nostre ‘opere’ o azioni, nonché dei molti rapporti possibili, inclusa la fuga o la manipolazione ludica, che intratteniamo con le cose»:7 e caratteristiche del letterario sono, nella prospettiva pragmatica di Brioschi, l’essere oggetto estetico, e il contenere in sé un’esemplificazione paradigmatica.
D’altro verso, anche la proposta di Orlando, in relazione alle precedenti considerazioni, fornisce una prospettiva interessante. La saggistica è un genere che naturalmente, dovendo di frequente volgersi alle dimensioni dell’ironico e dell’indimostrabile, ricorre alla figuralità; inoltre, la proposta di cui si fa latrice, ovvero la materia del contenuto che troverà espressione in una forma data, non rappresenta in pratica mai qualcosa di accettato in modo completo e piano rispetto al lettore e al mondo in cui si colloca. Adorno per primo sostenne che «la legge formale più intima del saggio è l’eresia»;8 principio ampiamente riconosciuto dopo di lui, che coinvolge il rilievo di Berardinelli sullo smascheramento critico. Pare dunque non esservi motivo per non vedere, nei tratti più alti della saggistica, la possibilità di due ritorni del represso, uno formale e uno proprio della materia del contenuto, che fra loro potranno (chiaramente non per forza, senza necessità) porsi come solidali. Sembra inoltre possibile ipotizzare che la maggior parte di questi ritorni del represso saranno propugnati ma non autorizzati, anche se non è da escludere che altri tipi di ritorno del represso, che coinvolgono il testo sotto punti di vista incontrollabili, siano ampiamente presenti nella saggistica. Un ultimo rilievo teorico, rispetto alla proposta di Orlando: nell’arco di tempo trascorso fra il momento della scrittura e quello della lettura, se ciò che il ritorno del represso rappresenta, a livello sociale, subisce emersioni o sprofondamenti rispetto al livello di coscienza (anche collettiva), il rapporto con un testo e con un ritorno del represso potrà cambiare completamente.
La concezione della letteratura secondo i modi della dialettica figurale fortiniana implica invece dei problemi di diverso ordine, nascendo tale visione non dall’esigenza di definire una pratica di approccio alla letteratura, come avviene per Orlando o Brioschi, quanto dal confronto, sempre mediato da un lavoro intellettuale volto al politico, con il problema dell’utilità del letterario per gli uomini, nell’ottica dell’umanesimo che informa le grandi riflessioni di Lukács. La proposta, espressa da Fortini in toni a mezza strada fra l’allusivo e l’apodittico nei primi anni ’60, è quella di rintracciare nell’uso letterario del linguaggio un’omologia all’«uso formale della vita» che, in prospettiva, costituirebbe «il fine e la fine del comunismo»:9 ciò vuol dire, nei termini della figura intesa nel senso di Auerbach, che la forma dell’opera sarebbe raffigurazione di un adempimento possibile, allusione a una totalità della quale l’opera letteraria sia promessa e indicazione, nonché illusoria prefigurazione. Si è visto quanto il saggio, nelle tensioni all’unione di particolare e universale che abitano la proposta universale impressa nella propria forma, possa essere letto in direzione simile; come Fortini ben sapeva.
1 G. Lukács, L’anima e le forme, Milano, Sugar, 1963, p. 32.
2 A. Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Venezia, Marsilio, 2002, p. 22.
3 Cfr. F. Menci, Dialettica e concezione figurale in Fortini, «L’ospite ingrato», III, 2000.
4 E. Biagini, Saggio, «pensiero composito» e meta letteratura, in La saggistica degli scrittori, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2012, p. 37.
5 F. Fortini, Niente antistoria, ho già pranzato, in Id., Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 149.
6 F. Fortini, Verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1965, p. 26.
7 F. Brioschi, La questione della storia letteraria, in C. Di Girolamo, A. Berardinelli, F. Brioschi, La ragione critica. Prospettive nello studio della letteratura, Torino, Einaudi, 1986, p. 122.
8 T.W. Adorno, Note sulla letteratura I, Torino, Einaudi, 1967, p. 31.
9 Fortini, Verifica dei poteri, cit., p. 145.
10 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990.