Intervista
ad Alberto Prunetti
Enrico Bormida

108 metri. The new working class hero1 è il secondo volume della «Trilogia Working Class», iniziata da Alberto Prunetti con Amianto,2 il cui ultimo volume dovrebbe uscire nel mese di luglio. I primi due volumi sono autofiction, e narrano la storia dell’autore e del padre, Renato, metalmeccanico morto a causa dell’amianto. Prunetti denuncia lo sfruttamento e le pessime condizioni di lavoro della vecchia e della nuova classe lavoratrice, senza però cadere in vittimismi o autocelebrazioni. Raccontare dall’interno la propria classe significa, per l’autore, poterne cogliere anche quegli aspetti non considerati da chi a quella classe non appartiene. Per questo grande importanza è attribuita ad esempio al calcio, attività centrale nella vita di una famiglia operaia («L’educazione operaia aveva un ciclo ferreo. La militanza calcistica nelle giovanili locali, poi il professionale nell’industria o l’ITI e alla fine il doppio turno: acciaierie di Piombino e catenaccio totale in qualche formazione calcistica di dopolavoristi»).3 Renato non viene presentato come operaio alienato e oppresso, ma come un eroe, «un cowboy del metallo» capace di dominare i macchinari con cui lavora. Renato è un fiero rappresentante della classe operaia e cerca di trasmettere i valori in cui crede ai figli.

Nel compiere la propria operazione letteraria Prunetti riesce a evitare anche un’eccessiva adesione alla realtà. O meglio, pur restando ancorato alla realtà (personale e collettiva), riesce a costruire una narrazione in cui è evidente l’apporto di finzione. In 108 metri, Prunetti segue (inconsapevolmente) il concetto di «weird», teorizzato da Mark Fisher. Per Fisher, con il termine «weird» si fa riferimento a un’entità o un oggetto inusuale, disturbante, che per essere riconosciuto come tale non può prescindere da un confronto con la realtà.

Alberto Prunetti è anche traduttore, e dirige la collana «Working Class» di Alegre. Proprio in questa collana è da poco uscita la sua traduzione del libro Chav. Solidarietà coatta4 di D. Hunter. Tramite queste attività, oltre che con le sue opere, Prunetti cerca di diffondere le nuove narrative di classe, per offrire ai lettori un racconto «corale, molteplice, aperto al racconto della solidarietà tra lavoratori».

Tutti questi temi vengono affrontati nella seguente intervista, svoltasi via mail tra il 15 gennaio e il 17 febbraio 2020.

Enrico Bormida: In 108 metri compare più volte l’espressione «è il mestiere che entra», espressione usata dal mister che allenava la tua squadra di calcio. La prima domanda che vorrei farti è quindi: come entra il mestiere di scrivere?

Alberto Prunetti: Il mestiere entra col dolore. Il mister che ci allenava nel calcio giovanile era un operaio delle acciaierie in cassaintegrazione. Ci diceva questa cosa quando prendevamo una pallonata in pancia e ci contorcevamo a terra. Quella metafora mi è rimasta sempre addosso. Adesso che il mio mestiere è quello di tradurre e raccontare, non posso fare a meno di tornare a quell’espressione calcistica operaia. La cassetta degli attrezzi per raccontare il lavoro si forgia nel dolore. La materia con cui racconti le tue storie è incandescente come acciaio fuso. Devi batterla finché il ferro è caldo, devi avere l’urgenza in corpo di raccontare il mondo del lavoro sfruttato. Il figlio di un notaio, o un semplice borghese, non può scrivere le storie working class come fa chi è cresciuto con almeno un piede dentro la classe operaia. Era un mondo in cui l’allegria si alternava alla fatica di esistere e l’irriverenza verso i ricchi alimentava storie infinite. L’altra metafora sulla conquista degli strumenti per raccontarsi è quella delle “castagne in tasca”. Era il modo con cui nelle famiglie dei minatori di montagna si teneva a posto lo stomaco dei bambini. Mangiavano solo la cena e stavano con qualche castagna bollita in tasca, da sgranocchiare nel corso del giorno. Studiare con le castagne in tasca e sentire il mestiere che entra in corpo è stato il mio modo per forgiarmi gli arnesi per raccontarmi da solo, senza farmi raccontare dagli altri. Irvine Welsh ha scritto che se sei di estrazione working class, non devi aver paura di scrivere. It’s your fucking birthright. Abdicare al racconto significa tradire la propria classe. Raccontarsi come vittime è un tradimento. Ma raccontare il conflitto di classe coi piedi dentro la classe operaia è un lavoro che va fatto. E bisogna farlo bene. E per farlo bene serve il mestiere. Il mestiere che ti è entrato in corpo in una vita in cui hai visto i quattrinai affermarsi e tu affondare.

EB.: Concordo sul fatto che scrivere è e deve essere un diritto per tutti. Nella mia esperienza da non addetto ai lavori, mi sembra che viviamo anche in un momento storico in cui l’industria culturale è più democratica e meno classista. Nelle tue esperienze, sia come autore che come direttore di collana presso Alegre, come giudichi la ricezione delle narrative working class da parte del pubblico? Ovvero, interessano più gli “esperti” o riescono ad arrivare a un pubblico ampio e vario?

AP.: Mah, non sono sicuro sul fatto che l’editoria non sia classista. È uscito uno studio nel Regno Unito sulla presenza di lavoratori dell’editoria provenienti da famiglie working class nell’industria culturale. Rappresentano solo il 16 percento del totale (altri studi dicono che le persone che si considerano working class nel Regno Unito sono circa il 60 percento). La working class è sottorappresentata sia rispetto ai testi pubblicati sia rispetto ai lavoratori dell’industria editoriale. In Italia la situazione a occhio è peggiore e lo dimostra il fatto che non ci si preoccupa nemmeno di compiere questo tipo di indagini. Aggiungo che in Inghilterra esistono programmi di sostegno alla scrittura che danno la priorità a autori provenienti da un background working class. Da noi non se ne parla nemmeno. Non basta un titolo o una collana per dire che c’è meno classismo. Questi sforzi in Italia nascono dall’attivismo di singole persone, che sgomitano anni per affermarsi, ma non c’è nelle istituzioni editoriali e letterarie un movimento inverso di interesse nei nostri confronti. Al massimo qualche timido segnale: un premio sul lavoro, ma d’approccio confindustriale, qualche convegno in contesti sindacali o accademici (di solito di labour history). Una storia borghese parte in quarta, con fanfara mediatica e grandi editori. Una storia working classdeve partire dalla panchina. E questo per me è già classismo. Quanto alla ricezione, chi legge le nostre storie non le dimentica e non ci dorme. Prima però deve trovarle in libreria e non è sempre facile, appunto perché le prime file sono già occupate. La ricezione comunque è buona, se penso almeno ai miei titoli, su cui ho riscontri precisi. Non eccezionale, ma buona. Mi confortano i messaggi dei lettori, gli adattamenti teatrali, le molte traduzioni in corso d’opera all’estero (spagnolo, catalano, inglese, greco, francese). Sui premi la situazione è complessa e ci vorrebbe un discorso più ampio, ma almeno nelle fasi finali capita di arrivarci. Chi mi legge? Certo, molti anche nell’accademia, si parla del mio lavoro nelle tesi di laurea e nei convegni, e anche nelle riviste di critica, mi invitano ai convegni di italianistica (anche se più spesso all’estero che in Italia). Nel pubblico ci sono molti lettori di classe operaia e regge ancora il lettore politico, che arriva al libro tramite canali sindacali. Molti vecchi operai in pensione, molte casalinghe hanno letto Amianto e mi han detto che era la loro storia. Anche molti giovani precari, soprattutto con 108 metri. Ci sono giovani appassionati di politica che arrivano ai miei libri attraverso l’attivismo dei centri sociali. Ad ogni modo c’è stato un forte passaggio generazionale: padri e madri che passavano i miei libri ai figli, oppure viceversa. E questo mi piace, il mio progetto di trilogia cerca di riunire, contro la retorica tossica dei padri che hanno rubato il futuro ai figli, le generazioni. Perché il futuro ce l’ha rubato il neoliberismo, non i nostri vecchi.

EB.: Relativamente a questo, credi che la narrativa working class riesca ad arrivare ai membri della classe di cui parla? Il tuo obiettivo, quando scrivi o quando scegli i romanzi da pubblicare, è più centripeto o centrifugo rispetto alla classe lavoratrice (o meglio, cerchi di comunicare con chi sta dentro o con chi sta fuori)?

AP.: Direi centripeto. In Amianto mi sono riproposto esplicitamente di fare “la prova del babbo”. Scrivevo col modello della scuola di Barbiana: evita tutto quello che è inutile, se rischi di non farti capire. Il mio lettore modello era un operaio anziano come il mio vecchio. Renato avrebbe capito le mie righe? Se sì, le tenevo, se no, cestinavo. In Amianto ci sono tre registri: il lessico tecnico dell’industria, il vernacolare e un italiano semplificato modello scuola di Barbiana. Leggibilissimo per qualsiasi operaio o operaia. In 108 metri le cose sono diverse. La scrittura è più ibridata, c’è un melting pot linguistico. Che però è ispirato al “cocoliche” degli italiani emigrati in Argentina, con i panni del racconto lavati nel Tamigi. La lingua è più complessa e stratificata. In effetti il lettore modello è una persona giovane emigrata in Inghilterra. Ma personaggi come Quattretti, nel finale, permettono l’identificazione con gli operai di Amianto. Insomma, io scrivo per la classe e nella classe.

EB.: Che la letteratura sia socialmente e politicamente impegnata è un fatto importante, soprattutto nella tua esperienza. Ma dovrebbe esserlo sempre o è importante o giusto che esista anche una letteratura non impegnata?

AP.: Io credo nella letteratura sociale. Certo, la letteratura crea mondi, non deve per forza essere testimoniale o politica. Ma è sempre impegnata o non è letteratura, per come la penso io. Posso sbagliarmi, magari altri sono liberi da necessità politiche. Ma se stai con i piedi nel fango, parli del fango, non degli angeli in cielo, se vuoi fare letteratura. Se vuoi creare mondi con la fantasia, non potrai fare a meno di schizzare quei mondi di fango. Ma ripeto: io son fatto così. Si può essere grandi scrittori senza preoccuparsi di cambiare il mondo, ma non è quella la letteratura che interessa a me.

EB.: Mi riallaccio alla domanda sulla letteratura sociale, e passo quindi a 108 metri. Mark Fisher sostiene, a proposito della theory fiction, che il divenire finzione della teoria è necessariamente accompagnato dal divenire reale della finzione; per studiare la realtà in cui viviamo, molti critici usano come modello le narrazioni fantascientifiche. Al contempo, nelle narrazioni contemporanee sul precariato gli autori abbracciano spesso la non-fiction. In 108 metri, compare la figura di Cthulhu. Credi che ricorrere alla fantascienza sia un modo per costruire una narrazione innovativa e non più basata sulla riproposizione di modelli desueti?

AP.: In realtà non ero interessato nel mio lavoro come autore alla narrativa di genere (che pure mi interessa come lettore). Considero abbastanza esaurita quella fase della narrativa italiana in cui si politicizzava il genere. Avevo però bisogno di un riferimento che esprimesse l’incorporeità del tardocapitalismo e mi è venuto in mente di ricorrere a Lovecraft per dare sostanza al fantasma di Margaret Thatcher. Nel mio romanzo 108 metri, i compagni di strada dei protagonisti sono stevensoniani, gli avversari sono lovecraftiani. Più che alla fantascienza, ho guardato al weird. Qui il riferimento che tu fai a Mark Fisher calza a pennello. Quando ho chiuso 108 metri non avevo ancora letto Fisher. Poi ho letto Realismo capitalista e da lì non ho smesso di leggerlo. Quando ho letto The Weird and the Eerie ho fatto un salto. Ho trovato descritto nelle sue righe quel che avevo cercato di fare col fantasma di Margaret Thatcher. La cosa strana è che il mio romanzo aveva ricevuto tantissime recensioni e analisi critiche, ma nessuno ha unito i puntini per congiungere il mio lavoro con l’analisi di Fisher.

EB.: Generalizzando un po’, possiamo dire che con l’avvento del post-fordismo e il dilagare del tardo capitalismo, al cittadino si sostituisce il consumatore, che non risponde più a un’idea di collettività ma solo ai propri bisogni individuali; viene di conseguenza a mancare una conflittualità sociale, e questo influisce sui diritti dei lavoratori. In più, le aziende attuano strategie “tossiche”, che disincentivano la solidarietà tra lavoratori. A questo si sommano altri fattori, politici ed economici, che non dipendono dal singolo. Considerando tutti questi fattori, è possibile secondo te ricreare una classe lavoratrice unita e consapevole?

AP.: Rimaniamo ancora su Fisher. Credo che pochi come lui abbiano descritto bene e in maniera concisa le dinamiche di cui tu parli. A partire dalle trasformazioni neoliberiste imposte da Thatcher, i lavoratori sono stati costretti a non pensarsi come lavoratori. Sono partiti processi di atomizzazione, di disintermediazione, coi sindacati costretti in un angolo. There is no alternative: o bere o affogare. Nessuna via di uscita. La sinistra si è accodata, o provando a gestire lei stessa i meccanismi del capitalismo (vedi il New Labour di Blair) oppure condannandosi alla nostalgia e all’obsolescenza. Come uscirne? Non lo so. Fisher propone di cominciare a smettere con la nostalgia del passato. E cominciare a pensare a un futuro diverso, a una diversa modernità. Coordinata e non centralizzata. Ma non dà ricette, non è il suo lavoro. E nemmeno il mio: io racconto la realtà con i miei romanzi, che sono pieni di critica e di negativo (nel senso marxista). Quel che è certo, è che la classe non emerge solo dalla coscienza dei singoli ma dai conflitti sociali. Una controprova: negli scioperi della logistica, non c’è razzismo. Se c’è lotta, si forma la coscienza sociale e le tossine dei dispositivi neoliberisti si dissolvono. Quel che posso fare io come narratore working class, è contribuire alla ricostruzione di un immaginario per la nuova classe lavoratrice. L’immaginario si forma però anche quello dalle lotte. Non sono gli scrittori che plasmano la realtà. È la realtà che dà forma alle nostre narrazioni.

EB.: Sarà perché ho letto prima Fisher dei tuoi romanzi ma a me è sempre sembrato ovvio che tu conoscessi le sue teorie. Rimanendo al fantasma della Thatcher. Alla fine di 108 metri, in qualche modo, si apre uno spiraglio, grazie allo sciame di api che vengono in soccorso agli umani. È un messaggio positivo che guarda al futuro e, anche, a una diversa considerazione del pianeta terra. Un po’ per questo, un po’ per l’immagine di Cthulhu, mi è parso ovvio collegare questa scena al pensiero di Donna Haraway e del suo Cthulhucene: un sistema terra non più antropocentrico in cui umani e specie animali si uniscono per salvare il pianeta e la sua biodiversità – cthulhucene perché tentacolare, tentacoli positivi, contrapposti a quelli che stritolano i lavoratori in 108 metri. Conosci le sue teorie o è una coincidenza o una mia sovrainterpretazione? Tra l’altro so che lei guarda molto al lavoro di Ursula K. Le Guin.

AP.: Penso che l’approccio a Cthulhu di Donna Haraway sia diverso dal mio. È vero che le api sono una via di uscita positiva sul testo, con la loro intelligenza moltitudinaria e collettiva, operaia. Cthulhu invece nel mio libro è visto come un richiamo negativo, viscido e ripugnante. Ripeto: gli antagonisti di classe sono lovecraftiani, i compagni di strada del protagonista sono stevensoniani. L’analisi di Haraway invece è più complessa della mia opposizione di stile e va in altre direzioni (PS: Non c’entra niente con il mio libro, però Ursula K. Le Guin mi piace molto, soprattutto il romanzo Quelli di Anarres).

EB.: Ultima domanda, di cultura pop: all’ultima edizione di Sanremo Giovani è stata presentata una canzone sull’Ilva di Taranto: è un segnale positivo che qualcuno provi a portare un messaggio su un palco che, per quanto molto criticabile, riesce comunque a raggiungere un pubblico vastissimo, oppure rischia di venire inglobato da tutto quello che ci sta intorno ed essere, in qualche modo, sminuito e svuotato?

AP.: Allora, su questa domanda non saprei proprio cosa dire. Il discorso sul pop non va preso alla leggera. Penso che sia una dimensione importante, da non demonizzare con spirito elitario. Il punto è che non seguo proprio la musica leggera, ho un rapporto problematico con la musica in genere e ascolto solo punk, musica industrial e cantautori folk (uno strano connubio). Quindi non sono attrezzato per risponderti.

Note

1 A. Prunetti, 108 metri. The new working class hero, Roma-Bari, Laterza, 2018.

2 A. Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Milano, Agenzia X, 2012.

3 A. Prunetti, 108 metri, cit., p. 31.

4 D. Hunter, Chav. Solidarietà coatta, trad. it. di A. Prunetti, Roma, Edizioni Alegre, 2020.