Il Lucrezio di Milo De Angelis
Sabrina Pirri

Per anni ho insegnato il De rerum natura: era nei programmi di quinta scientifico e di seconda classico. Ricordo i brani presenti nelle varie antologie e i volti di chi stava dinanzi a me, oltre la cattedra, e il proficuo dialogo educativo, da cui tanto ho imparato; come ricordo di aver letto, negli anni, Vite immaginarie di Marcel Schwob (Adelphi 1972), Vita di Lucrezio di Luciano Canfora (Sellerio 1993), Nei pleniluni sereni di Luca Canali (Longanesi 1995) e più recentemente Il manoscritto di Stephen Greenblatt (Rizzoli 2012), che ricostruisce magistralmente la resurrezione del De rerum natura nell’Europa moderna dopo un lungo oblio.

In passato leggere Lucrezio è stato difficile e pericoloso: sulla sua vita sorse una leggenda tramandata da Gerolamo (poi divenuto patrono dei traduttori); il Medioevo e Dante sembra che non lo conoscessero. La sua opera, riscoperta da Poggio Bracciolini nel 1417 e stampata nel 1473-74, anche se non fu mai messa all’Indice dei libri proibiti, rimase preclusa a chi non fosse un erudito latinista, dato che per secoli mancarono le traduzioni, come ci insegna Valentina Prosperi in Il fantasma di Lucrezio. La perduta traduzione del «De rerum natura» di Giovan Francesco Muscettola (Scuola Normale Superiore 2022). Si dovette attendere l’Illuminismo e l’affermarsi della scienza moderna perché la situazione cambiasse e si arrivasse alla prima traduzione italiana di Alessandro Marchetti, pubblicata postuma a Londra nel 1717 e messa subito all’Indice l’anno successivo, ma presente nella biblioteca di casa Leopardi. Anche Foscolo, autore di alcuni saggi lucreziani, si cimentò nella traduzione di alcuni passi: esemplare quello della giovenca e del vitellino perduto (da me proposto in confronto con l’originale in anni ormai lontani ad una classe di liceo scientifico…).

Oggi Lucrezio conosce un revival: nel 2017 per celebrare i 600 anni dalla riscoperta, si è tenuta a Bologna la mostra dal titolo ossimorico: Vedere l’invisibile: Lucrezio nell’arte contemporanea, il cui pregevole catalogo (Pendragon 2018), tra i vari contributi sulla scienza, l’arte e la poesia contemporanee, contiene alcune pagine (29-31) dedicate al lavoro di Milo de Angelis.

Nel maggio 2022 Milo de Angelis ha finalmente pubblicato il “suo” Lucrezio nella collana «Lo specchio» di Mondadori. Si potrebbero applicare a lui le parole di Italo Calvino: «Tradurre Lucrezio può essere inteso solo come la missione di una vita, una vocazione irresistibile». E infatti nell’Introduzione l’autore spiega la sua lunga fedeltà a Lucrezio, che risale agli anni del liceo, visto che gli dedicò la sua tesina di maturità, all’epoca in cui diciottenne incontrò Franco Fortini, grazie a Francesco Leonetti, suo docente di italiano al Liceo Berchet.

Alcune tappe di questo lungo percorso sono rappresentate dal numero lucreziano Atomi, nubi, guerre del 1978 della rivista «Niebo» e Sotto la scure silenziosa (SE 2005), saggi e frammenti di traduzione di brani lucreziani. Questo percorso dimostra la verità del verso di Milosz: «La poesia è la continuazione dei quaderni di scuola» e dell’affermazione proustiana: «L’adolescenza è il solo tempo in cui si si sia imparato qualcosa».

Milo de Angelis premette alla sua traduzione integrale, fornita di testo a fronte, una breve ma densa introduzione. Appena quindici pagine di sintesi magistrale della storia della fortuna di Lucrezio e del suo poema, perduto e ritrovato, e dei motivi del suo amore per il poeta latino.

Veniamo alla traduzione, ultima in ordine di tempo di tante altre susseguitesi nel Novecento e oltre. Aderenza all’originale, amore e rispetto del testo e resa in una lingua attuale, lontana dal traduttese, mi sembrano esser le caratteristiche per cui la raccomando al lettore. È appena il caso di ricordare che le traduzioni invecchiano, e che ogni generazione ha bisogno di tradurre nuovamente i classici, per riappropriarsene e farli suoi.

Provo ora a scegliere, tra i tanti possibili, alcuni esempi di come ha lavorato de Angelis, esaminandoli al microscopio della lingua.

Sei esempi (uno per ognuno dei libri)

1) Dimostrazione dell’esistenza di ciò che non è visibile (gli atomi)

Tangere enim et tangi, nihil corpus, nulla potest res.
Denique fluctifrago suspensae in litore vestes
uvescunt, eaedem dispansae in sole serescunt.
(I, 304-6)

Non c’è nulla, eccettuati i corpi che possa toccare o essere toccato.
I vestiti distesi in riva al mare, dove si infrangono le onde,
diventano umidi, mentre al sole diventano secchi.

Il neologismo dal sapore arcaizzante «fluctifragus» vien reso con la relativa «dove si infrangono le onde», mentre i verbi di significato opposto «uvescunt/ serescunt”» vengon resi usando il fraseologico «diventano».

2) La giovenca e il vitellino perduto: la madre cerca ovunque il figlio, senza lasciarsi distrarre da nulla:

usque adeo quiddam proprium notumque requirit (II, 366)

lei cerca l’unica creatura che conosce davvero, la sua!

«Quiddam proprium notumque»: si passa dal neutro «quiddam» al femminile «creatura» e la coppia di aggettivi «proprium» e «notum» viene scissa e invertita nella relativa «che conosce davvero» e «la sua», creando una specie di «fulmen in clausola».

3) La sete di vita

Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis
quae mala nos subigit vitai tanta cupido?
(III, 1076-77)

Cosa è dunque questa disperata sete di vita che ci spinge
con tanta forza a tremare nel dubbio e nel pericolo?

Qui il soggetto «mala cupido» viene reso con «disperata sete» e anticipata rispetto al resto dell’interrogativa, mentre lo sdoppiamento di «dubiis periclis» («nel dubbio e nel pericolo») è inferiore alla forza dell’originale.

4) Il dramma degli amanti

nequiquam, quoniam de medio fonte leporum
surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat
(IV, 1133-34)

Invano. Dalla fonte stessa del piacere nasce un’oscura amarezza
che proprio lì, in mezzo ai fiori, prende gli amanti alla gola.

«Aliquid amari» è reso con l’astratto «amarezza» e l’indefinito «aliquid» coll’aggettivo «oscura», il verbo «angat» con «prende alla gola».

5) La preistoria del genere umano, ovvero gli uomini primitivi

Denique nota vagi silvestria templa tenebant
nympharum, quibus e scibant umori fluentia
lubrica profluvie larga lavere umida saxa…
(V, 947-49)

Nel loro vagabondare avevano scoperto e fissato nella mente
le grotte silvestri delle Ninfe e avevano scoperto che fluivano
da lì correnti d’acqua abbondante lavando le umide rocce…

«agi» viene amplificato «nel loro vagabondare» così come «nota tenebant»: «avevan scoperto e fissato nella mente» (dato che non esisteva ancora la scrittura) mentre l’ultimo verso, ricchissimo di allitterazioni onomatopeiche dell’originale resta insuperato, intraducibile.

6) Lodi di Atene, patria di Epicuro

Prima frugiparos fetus mortalibus aegris
dididerunt quondam praeclaro nomine Athenae
et recreaverunt vitam legesque rogarunt
(VI, 1-3)

Atene, questa città dal nome glorioso, fu la prima. Regalò
i frutti e le messi agli infelici mortali, tanto tempo fa,
rinnovò la condizione umana, istituì il sistema giuridico.

Il neologismo arcaizzante «frugiparos» viene scisso in «frutti» e «messi», l’avverbio «quondam» modernizzato nel colloquiale «tanto tempo fa»; mentre il chiasmo del terzo verso vien reso col
parallelismo.

Conclusione

Obscura de re tam lucida pango: così si vanta Lucrezio (I, 933).

«e poi faccio splendere su un argomento oscuro versi luminosi».

Così è riuscito a fare anche Milo de Angelis.