«Il fedele esercizio
innaturale»
La gestione ironica
in Salutz e Fortezza di Giovanni Giudici

Daniele Visentini

Il lungo percorso intrapreso da Giovanni Giudici in oltre cinquant’anni di carriera poetica appare, nel contesto del Novecento italiano, abbastanza variegato e singolare da scongiurare in apparenza ogni tentativo di reductio ad unum messo in atto dalla critica.

Nelle opere della giovinezza e della prima maturità, che informano la Vita in versi e Autobiologia, come suggerisce Ottavio Cecchi, «il discorso su verità effettuale e immaginazione di essa è preparatorio», in quanto «Giudici sa che la poesia è uno strumento scordato, e ce lo dice in versi».1 Già in raccolte quali Il male dei creditori e Lume dei tuoi misteri, rinunciando in parte alla propria disposizione al realismo, il poeta si inoltrerà verso i territori di una fictio più elaborata e dal tono maggiormente sostenuto, serbando comunque come saldo appiglio alla contingenza una reiterata, spesso parossistica mimesi del parlato. Infine i libri degli anni Ottanta, Salutz e Fortezza, rappresentano l’abbrivio a una scrittura in apparenza assai lontana da tutte le precedenti esperienze di Giudici: qui le composizioni (che l’autore stesso, nelle note a Fortezza, chiama significativamente «sezioni»)2 parrebbero non sussistere da sole, ma servire invece un disegno generale unitario e programmatico; sia l’evocazione del privato, sia la volontà d’interazione col pubblico sembrano annichilirsi, desertificate come desertificato appare lo scenario complessivo di questa poesia, scevro al tutto di presenze tangibili e colori vividi. Si potrebbe parlare, per Fortezza e ancor di più per Salutz, di una poesia vistosamente bidimensionale, intendendo tale aggettivo nella sua originaria connotazione neutra: una scrittura, insomma, su carta e per carta, definitivamente fissata e raggelata, costretta nel perimetro del foglio come in una prigione.

Davanti a un cambiamento stilistico siffatto, non solo è lecito, ma decisamente necessario stabilire fino a che punto Giudici smentisca le proprie inclinazioni iniziali o se, invece, due libri come Salutz e Fortezza possano essere considerati in linea con il pensiero espresso dal poeta fino agli anni Settanta, risolvendosi nell’ottica di un complesso polimorfismo espressivo piuttosto che in quella di una radicale svolta poetica e ideologica.

In merito a tale questione, i giudizi di volta in volta espressi dai critici possono essere ricondotti a due diverse linee interpretative. Da una parte v’è l’idea, espressa già nel 1960 da Franco Fortini3 e ribadita poi da Berardinelli, di un Giudici «umile, umiliato membro del “nuovo ceto” italiano anni Sessanta»4 e in grado di rinnovare l’esperienza poetica dei crepuscolari, Gozzano su tutti, tramite l’evocazione di un mondo privato straniato e misero e l’utilizzo insistito dei dialoghi. Partendo da questo punto di vista, il Giudici degli anni Ottanta e Novanta è letto come un Giudici minore, interessato inspiegabilmente (questo, ad esempio, il parere di Giuseppe Leonelli) al «recupero di una dimensione “alta” della lirica».5 Un’opinione diversa sulla parabola letteraria dell’autore, invece, è stata espressa da Costanzo Di Girolamo, il quale in un articolo apparso sulla rivista «Linea d’Ombra» rimarca, sì, la differenza sostanziale intercorrente tra i primi lavori licenziati dal poeta e Salutz, ma soltanto per evidenziare il carattere positivo di quest’ultima raccolta e proporre, retroattivamente, una correzione all’«enfasi posta dalla critica sulle componenti “realistiche”, neocapitalistiche, urbane o impiegatizie della precedente produzione di Giudici».6

In realtà entrambe le letture, benché antitetiche, condividono un vizio d’analisi identico: esse, infatti, formulano un giudizio complessivo sulla poesia di Giovanni Giudici a partire da una prospettiva microtestuale; leggono, cioè, i versi con i versi, senza dare il giusto peso alla volontà complessiva dell’autore e rischiando, così, un approccio d’acchito, superficiale, al senso dei componimenti. Si giunge, per questa via, a due speculari eccessi: da un lato si decreta l’esistenza non di uno, ma di due Giudici, uno “maggiore” e uno “minore”; dall’altro, come fa Di Girolamo, si rischia di sorpassare le indicazioni di lettura fornite dal poeta stesso nelle note a Salutz per garantire in ogni modo unitarietà alla sua vicenda letteraria.7 Tra l’altro, va puntualizzato che se in generale può ritenersi sconsigliabile tra testi novecenteschi un confronto limitato alla sinossi, non dialettico in quanto non improntato a una considerazione d’insieme dei fattori teorici e storici in gioco nella composizione poetica, un simile metodo d’analisi risulta addirittura esiziale per una personalità complessa come quella di Giudici, il quale fu non solo uno dei maggiori traduttori del nostro Novecento, ma anche un costante e assai acuto teorico della poesia – attività, quest’ultima, cui forse ad oggi non s’è conferito ancora un rilievo adeguato.

Partendo da tali presupposti, è lecito tentare una lettura di Salutz e della sezione centrale, omonima, di Fortezza, che faccia perno sugli scritti teorici di Giudici, con lo scopo di comprendere almeno in parte e senza forzature critiche quali furono le intenzioni poetiche sottese a una scrittura tanto inedita e apparentemente enigmatica.

A tale scopo, è indispensabile indagare subito la breve prosa intitolata La gestione ironica, apparsa sulle pagine dei «Quaderni piacentini» nel 1964, ossia un anno in anticipo rispetto alla prima raccolta complessiva di Giudici. All’interno del breve saggio l’autore fornisce con estrema chiarezza e notevole efficacia argomentativa alcuni fondamenti teorici che rappresenteranno, negli anni a venire, alcune fra le costanti della sua esperienza poetica.

La novità  di tale scritto si ravvisa già nella laconica considerazione d’apertura, tramite la quale Giovanni Giudici prende le distanze dal Gruppo 63, di recente formazione, ma probabilmente anche dal suo amico e privilegiato interlocutore Andrea Zanzotto. Il poeta, infatti, afferma l’esistenza di alcune analogie singolari tra il fare poetico e il fare politico, le quali si riscontrano a partire da un’identica disposizione della scrittura poetica e dell’azione politica alla progettualità: «conoscere poetico e prassi politica», chiosa Giudici,

operano entrambi in un senso contrario all’entropia: dove questa è tendenza all’indifferenziato, quelli tendono ad organizzare e distinguere. E altrettanto si dica in rapporto all’alienazione, concetto che, mutuato dall’economia come l’altro dalla termodinamica, esprime una tendenza per molti aspetti similare: una tendenza contraria all’intenzione, al progetto.8

Pur essendo il conoscere poetico un’impresa che, a differenza della prassi politica, rientra obbligatoriamente nell’alveo delle operazioni intellettuali, Giudici assicura quindi che un ulteriore, problematico punto di saldatura tra politica e poetica consiste nel rischio comportato, in ambo i casi, da un necessario rapporto con le forme istituzionali pregresse. Si tratta, per dirlo in altre parole, dell’impasse consustanziale al bipolo tradizione/innovazione, che la stessa natura progettuale della poesia richiede al poeta di risolvere in maniera cosciente, scegliendo un conveniente approccio verso il passato. A questo punto, Giudici prevede due possibilità divergenti di rapportarsi alla tradizione: in un primo caso «il peso delle forme poetiche prevale sul progetto poetico, al punto che questo […] finisce per allinearsi in esse»; in un secondo, invece, «le stesse forme istituzionali vengono assunte dallo scrittore di versi in una misura puramente strumentale, casseforme provvisorie, semplici simulacri di strutture, talché il risultato ne fuoriesce indenne, servendosene e non servendole.9 Argomentando questa seconda possibilità, certamente auspicabile rispetto all’altra, l’autore conclude:

Egli [il poeta] può infatti trovarsi nell’impossibilità di innovare o, meglio, può essere portato dal suo progetto ad esercitare l’atto innovatore in altra direzione, rovesciandolo: a innovare cioè non la forma istituzionale, ma il suo proprio atteggiamento nei riguardi della medesima, attribuendogli un ossequio, un riconoscimento, tanto chiaramente formale da apparir menzognero, ossia ironico, equivalente insomma a una sospensione o negazione di riconoscimento.10

Il poeta insomma, per portare avanti il proprio progetto senza cedimenti alle “istituzioni”, deve ricorrere a quella che viene definita «gestione ironica della forma istituzionale». Tale atteggiamento garantisce l’assunzione della tradizione in toto come «risibile liturgia, logoro supporto» e consente pertanto al discorso poetico di compiersi «con una intensità quasi integra, con dispersione minima, concentrato sul fine, indifferente al mezzo».11 Ciò che Giudici suggerisce, già nel 1964, è perciò un esorcismo dell’immobilità sistemica che passi attraverso l’accettazione ironica – ergo, solo superficiale – di tale immobilità, per poi ribaltarla a livello sostanziale.

Come si vede, questo discorso preliminare vale a fornire una sorta di griglia interpretativa alla poesia di Giovanni Giudici; griglia che sinora è stata, sì, utilizzata, ma soltanto per chiarire i nodi fondamentali delle sue prime raccolte (lo ha fatto ad esempio Boselli per La vita in versi,12 con particolare attenzione ai due mezzi espressivi più utilizzati dal Giudici degli anni Sessanta e Settanta, ovvero la citazione e la mimesi del dialogo). Resta però da vedere se si possa parlare o meno di gestione ironica anche a proposito di due libri come Salutz e Fortezza, da sempre giudicati eterodossi rispetto alla restante opera del poeta.13

Ora, per approfondire la nozione di ironia nell’accezione utilizzata da Giudici e restituire, di conseguenza, un significato pieno alle pagine succitate, vale forse la pena di rifarsi a un teorico della letteratura che, sorprendentemente, pare condividere col poeta ligure alcuni nodi della propria analisi mitopoietica. Si tratta di Northrop Frye, il quale, tanto nella monumentale Anatomia della critica, quanto nel saggio sulla Scrittura secolare, individuò una delle componenti del romance moderno proprio nell’atteggiamento ironico, descritto come la conseguenza di un vero e proprio congelamento semantico: nell’impianto ciclico della sua speculazione, lo studioso associa infatti il modo ironico al cosiddetto «mythos dell’inverno» e descrive perciò l’ironia come «residuo non eroico della tragedia, imperniato su un tema di perplessità e di sconfitta», e come tale tendente a una compromissione degli elementi comici e tragici convenzionali, i quali progressivamente si intersecano fino a smarrire il senso del loro afflato primigenio e ad assumere, de facto, il valore di forme mere.14 Una volta premesso ciò, Frye scandisce in sei fasi l’evoluzione che, col medium della satira, conduce a un progressivo smantellamento delle componenti realistiche e mimetiche proprie del modo comico. Volendo riproporre tale schema d’analisi, si può scorgere il senso dell’ironia di Giudici in quelle che il critico canadese individua come la quinta e la sesta della fasi ironiche, ossia il momento in cui le componenti comiche del genere satirico lasciano il posto a un’improvvisa, spiazzante incursione dell’elemento tragico. Ecco come Northrop Frye descrive questa sesta e definitiva manifestazione del modo ironico:

In tale stadio l’esperienza è vista come se il momento di epifania fosse molto ravvicinato e ingrandito; e l’idea che predomina è quella espressa nella frase di Browning «può darsi che ci sia il cielo; ma deve esserci certamente un inferno». […] La sesta fase presenta la vita umana in termini di quasi totale schiavitù senza mitigazione o conforto. Le scene dell’azione sono prigioni, manicomi, linciaggi di folle scatenate, e luoghi di esecuzione; la differenza tra questo mondo e l’inferno vero e proprio sta nel fatto che sul piano dell’esperienza umana la sofferenza ha un termine con la morte.15

Il carattere invernale dell’ironia, sotto questo punto di vista, corrisponde a una parodia (una tragica parodia) dei modelli letterari tradizionali, la cui riproposizione è di solito automatica, ma non certo oziosa, poiché di necessità implica un atteggiamento di programmatico distacco e consapevolezza da parte dell’autore. Implicitamente o meno, alla base dell’ironia vi è insomma, come per il Giudici della Gestione ironica, la denuncia di un logoramento delle istituzioni, quando non di una loro totale sconfitta. Campione significativo di questa modalità di scrittura è, per Frye, il Kafka che reinterpreta il tema del peccato originale inoculandolo nei tetri recessi della sua colonia penale. Tale peculiarità ironica, però, appartiene senza dubbio anche all’ordito di Salutz, in cui Minne, «bandita / Del suo poeta esclusa dal poema»,16 viene innalzata e allo stesso tempo annichilita entro le due dimensioni del foglio, vero carcere o fortezza della poesia moderna. È ancora questa stessa ironia che, permettendo al poeta di contemplare senza mistificazioni o scuse il proprio stato di carcerazione, unisce tematicamente Salutz e Fortezza. Si veda, a questo proposito, il modo in cui il poeta descrive la condizione di prigionia derivante da un inesplicabile eppure evidente peccato originale nella sezione VI 2 di Salutz, dove Giudici (con rimandi, forse non inconsapevoli, a certe suggestioni barocche, del Lubrano anzitutto) tenta la similitudine del poeta con la talpa:

D’ubbidienza la cieca galleria
Tortuosamente prono
Scavai come la più diritta via
Al mai-saper-dov’è vostro perdono:
Nero del nero, buio
Del buio – il mio peccato
Voi decideste, penitenziaria
Di tutto e tutto tutto in che ho fallato.17

Allo stesso modo dell’amante di Salutz, il protagonista di Fortezza è tenuto sotto osservazione da carcerieri privi di misericordia ai quali lui stesso raccomanda la propria sorveglianza, costretto volontariamente – e qui il paradosso ironico che vale tanto per la poesia, quanto per il mondo – nella morsa di un debito occulto:

E lui di essa sia primo architetto –
Prigione non nel senso stretto
La sua più che del corpo
Dell’intelletto:
Sbarre serrature bastano
A farle via un po’ di plastico
Pazienza di lima piedi di porco –
Ma chi è carceriere di se stesso
Ha un bel prendersi su capello per capello
A tirarsene fuori.18

Il parallelo tra SalutzFortezza e il Kafka di Nella colonia penale o del Processo, come si osserva, è dunque calzante19 – e, d’altronde, lo stesso poeta ligure si occupò in più di un caso del grande romanziere praghese, mostrando un grande interessere in specie per la sua tecnica compositiva straniante.20 Di conseguenza, la stessa definizione proposta da Frye sembra potersi applicare al Giudici degli anni Ottanta, avallando così l’ipotesi che, anche nelle due raccolte qui esaminate, il poeta non abbia smesso di considerare la gestione ironica della forma e del contenuto come mezzo privilegiato di composizione.

Partendo da tale spunto interpretativo, inoltre, si comprende come la lettura incrociata delle due raccolte sia funzionale a un migliore inquadramento di entrambe: il luttuoso dramma “recitato” dal prigioniero di Fortezza, in effetti, fa emergere quell’ironia tragica che in Salutz è implicita e, perciò, fraintendibile; nel contempo, Salutz getta luce sul carattere iperletterario e certamente meta-poetico di Fortezza, che a un primo esame rischierebbe d’essere trascurato.

D’altronde, il periodo di composizione delle due raccolte coincide: più breve nel caso della prima, che venne stesa tra il 1984 e il 1986, più lungo per Fortezza, le cui poesie ordinate cronologicamente occupano l’arco temporale che va dal 1984 al 1989. Molte, poi, sono le somiglianze tra i due libri anche a livello formale: in un caso e nell’altro, i componimenti di Giudici divengono brevi, quando non brevissimi; i versi doppi o comunque superiori al tredecasillabo, tanto frequenti sino a Lume dei tuoi misteri (1984), tendono a scomparire in Salutz, come anche in Fortezza, per lasciare il posto a versi più contenuti e veloci, quali il frequente novenario e gli endecasillabi danteschi a ritmo sostenuto, non di rado frantumati da cesure irregolari e alternati a settenari o senari; la prosodia, in ambo i casi, si orienta verso una maggiore regolarità e le rime stesse sono più frequenti anche al mezzo; inoltre la lingua, da quella «“fanghiglia” del linguaggio»21 cui accennò Walter Pedullà nel ’69, si fa dinamica, cruda e d’asciutta eleganza; infine, va ripetuto che il disegno complessivo di Salutz e Fortezza è unitario, tendente cioè a quella forma poetica che Giudici stesso, a partire dai primi anni Ottanta, definì col termine di «poema».22

Ora, fatte queste premesse (indispensabili, in qualche modo, a giustificare l’accostamento dei due libri) e accertata la presenza di una componente ironica nel Giudici degli anni Ottanta, è però necessario utilizzare quanto finora detto come chiave di lettura a Salutz e Fortezza, così da proporre un chiarimento circa il «progetto» – per utilizzare un’espressione cara al poeta – innervante i due libri.

Per quanto riguarda Salutz – di cui Giudici stesso sottolineava l’ironia nel saggio Fare i conti con la lingua, del 199223 – va precisato subito che gli elementi essenziali ai fini di una comprensione globale sono due: innanzitutto, il recupero della forma metrica chiusa, pre-petrarchesca e mutuata tra l’altro da una tradizione non autoctona come quella dei trovatori e dei Minnesänger; in secondo luogo – ed è questo il punto su cui ci si deve soffermare – la myse en abîme, forse data per scontata dalla critica ma mai analizzata nel suo profondo significato ironico, che del rimando continuo da un micro-cosmo artato come quello della rappresentazione a un macro-cosmo reale come quello dell’esperienza poetica fa una potente denuncia: ciò che Giudici mette in scena è una volontaria fuga dal rappresentabile, unica strada a consentire la possibilità di rivolgersi a un destinatario, benché fittizio, e sfondare così le alte, strette mura che circondano la “fortezza”. Su questa finzione di presenza – proprio poiché si tratta di una messa in scena programmatica, dunque non fine a se stessa24 – è opportuno indagare in maniera approfondita, al fine di comprendere la vera natura, assieme scardinante e rimodellante, dell’ironia di Giudici.

A proposito del bisogno di rivolgersi a un destinatario, implicito alla scrittura stessa, si legga ciò che il poeta scrive nel già citato saggio Fare i conti con la lingua:

Saranno ormai più di cinquant’anni che mi trovo a dover fare i conti con la lingua italiana. Ma soltanto in un’epoca relativamente recente ho preso veramente coscienza di questo particolare rapporto. Eh, sì, un rapporto; e quando si dice «rapporto» si allude chiaramente a un essere in due: noi stessi e un altro: un’altra persona, un’altra (comunque) entità viva della quale non possiamo ignorare la presenza […]. Durante questi cinquant’anni in molti modi e in diverse vesti ho dovuto fare i conti con la mia bella, ambigua, misteriosa lingua, ineguagliabile nella sua capacità di non dire dicendo e di affermare negando. Li ho fatti da scolaro […]; da adolescente che tentava le sue prime e quasi mai spedite lettere d’amore; da giovane cronista […]; da aspirante scrittore […]; e infine da poeta che soltanto a poco a poco è riuscito a capire che nel fare poesia bisogna, come in amore, essere in due: noi che scriviamo (e in ciò facendo amiamo) e la lingua della poesia che ama a sua volta noi di un quasi materno amore, che scrive noi e, in questo suo scrivere noi, ci si dona, ci possiede, ci ama.25

Ecco spiegato, allora, il paradosso di una poesia che riflette su se stessa, autospecula non per rinunciare alla realtà fattuale riducendosi ad appagato, seppur melanconico, gioco enigmistico, ma al contrario col fine ultimo di tradurre il dialogo tra poeta e poesia o, viceversa, il dolore che sta alla base di una sofferta, avversata divaricazione tra scrittura e mondo. Il poeta, in breve, rinuncia all’innovazione formale per riscoprire la poesia solo dall’interno, realizzando una vera e propria meta-poesia, utile in primis a recuperare l’aspetto più vitale (e, con Giudici, si direbbe soggettivo) di una lingua poetica differente, per sua natura, da qualsivoglia lingua della comunicazione.

Il poeta, rivolgendosi alla sua «Minne», «Domna» o «Midons» che sia, si abbandona a un dialogo tanto fitto e affermativo, quanto intimamente travagliato, con la poesia stessa. Ciò appare scopertamente in II 1, dove «il fedele esercizio innaturale» cui il poeta è costretto a sottoporsi è questo continuo tentativo di realizzare la propria ispirazione poetica:

E al circo, Midons,
Quando in coppia agivamo – e quale
Non fabbricai prodigio!
Di trapezio in trapezio e salto in salto
Di lingua in lingua strana
Comedia fosse o gioco di prestigio
Perché splendesse a voi
La luce d’un finale!
Io segreto compare io scolta vostra
Io docile animale
Crescendo alla fatica che ci costa
Il fedele esercizio innaturale –
La più storta la più lunga
Via che a noi mai ci congiunga.26

La terminologia dantesca, qui, culmina nella definizione di quella «lingua strana», che tornerà anche in Fortezza come «una specie di lingua non più lingua».27 Tale connotazione del linguaggio poetico, a ben vedere, è il portato di una personale meditazione sulle celebri terzine di Paradiso XIV 111-23: come la melodia profusa dalla croce nel quinto cielo di Marte non viene intesa da Dante nel suo significato proprio, ma comunque sa rapirlo in modo totale, così la poesia comprende il poeta, senza che quest’ultimo possa ricambiare appieno. L’autore di Salutz e Fortezza avverte l’estraneità della lingua poetica al mondo, e reagisce a un simile scacco fingendo, “chiudendo” ironicamente le forme poetiche e rinunciando, almeno in un primo tempo, alla possibilità riflettere la realtà sulla pagina in modo compiuto.

D’altronde, lo stesso Giudici riutilizzò nelle sue prose critiche proprio l’aggettivo «strano» per connotare la lingua poetica, percependo quest’ultima come indipendente dal sistema segnico ordinato che veicola linearmente la comunicazione tra esseri umani. È lecito credere che tale considerazione sia stata ripresa soprattutto dalle teorie di Jurji Tynjanov, fondamentale anello di congiunzione tra formalismo e strutturalismo e autore di un volume, Il problema del linguaggio poetico, che proprio Giudici tradusse in italiano nel 1968. Dalla speculazione di Tynjanov, probabilmente, il Giudici poeta ricavò la dicotomia tra linguaggio letterario e linguaggio pratico e, nel contempo, la necessità di contestualizzare i processi culturali tramite considerazioni sia sincroniche, sia diacroniche, evitando così d’incappare in una visione statica, dogmatica della poesia.

Per confermare questa ipotesi, basta leggere il celebre intervento Come una poesia si costruisce, proposto nel 1984 in occasione di un ciclo di conferenze dell’Associazione Culturale Italiana, in cui Giudici sfrutta a piene mani il concetto tynjanoviano di «lotta» tra significato e significante nella costruzione del linguaggio poetico, e quello speculare circa l’antagonismo tra tradizione e innovazione che, di lì a pochi anni, sarebbe stato ripreso e ampliato dal Lotman di La cultura e l’esplosione. Partendo da questi presupposti, Giudici non si limita a dichiarare la differenza intercorrente tra la «normale lingua di comunicazione» e la lingua poetica ma, in ragione di tale divaricazione sostanziale, perviene a una reificazione della poesia: essa è una “cosa” «a capire la quale non servono o comunque non bastano i comuni strumenti intellettuali se non vi sia anche un certo coinvolgimento di facoltà sensorie».28 Per argomentare il proprio pensiero, il poeta subito aggiunge un esempio chiarificatore; scrive difatti Giudici:

Una poesia che tutti conoscono come L’infinito di Giacomo Leopardi è, concettualmente parlando, chiarissima; le cose che essa dice e sembra dire potrebbero essere facilmente volte in prosa da un qualsiasi scolaro, ma noi sappiamo che a questo punto non ci darebbero più l’emozione leggendaria che ci suscita il testo del poeta. E ciò significa appunto che L’infinito, e dunque ogni poesia o poema degno del nome, è qualcosa, anzi molto e moltissimo di più di quel che dice: è, infatti, e perentoriamente, quel che è.29

«La cosa chiamata poesia»30 non è quindi un oggetto di speculazione, bensì un soggetto speculativo che, riflessivamente, si fa, in quanto frutto di un processo di transustanziazione dal semplice dire all’essere.

Da ciò si potrebbe dedurre che, dalla metà degli anni Ottanta, Giovanni Giudici abbandoni la visione prettamente gnoseologica dei primi scritti critici per maturare un interesse di tipo più ontologico per la poesia. Nonostante ciò, il fine ultimo della sua speculazione rimane lo stesso: recuperare la parola poetica, da intendersi quale sintesi dialettica tra una certa autoreferenzialità che le è propria e la volontà contestualizzante dell’autore.

«A me sono sempre piaciute più le parole dei fatti, perché in queste faccende è più bello vivere nella speranza che nella pratica»,31 scriveva Boncompagno da Signa come giustificazione alla sua Rota Veneris, «singolare condensa di retorica e letteratura, di mestiere e divertissement»32 che con la tradizione del salutz provenzale, come assicura Garbini,33 conserva notevoli affinità. Per il grande retore bolognese, la scrittura aveva un andamento in tutto simile al mondo, per cui ogni cosa era intesa come segno di un’altra in un continuo travaso metaforico il cui risultato finale è quel “sistema espressivo” designabile col termine di transumptio. È proprio in ragione di ciò che la scrittura, in un campione della cultura medievale come Boncompagno, poteva legittimamente sostituire (o, se non altro, rispecchiare e in molti sensi perfezionare) la realtà esterna.

Nel salutz di Giudici (che è Salutz antonomastico, dunque consapevolmente ironico), il disincanto del poeta si fa palpabile, per cui la certezza di questo rispecchiamento non può che essere evocata e basta, non può che essere “finta”. Nell’ottica alienante della modernità, infatti, il recupero della poesia implica un estraniamento del poeta dal mondo reale e lo costringe, per reazione, a un intervento poetico di natura meramente formale. A tale necessità, però, Giovanni Giudici si conforma solo in apparenza o, appunto, ironicamente: la parola poetica, lungi dal contare più dei fatti, è da questi ultimi assai distante in quanto, per dirla di nuovo con Tynjanov, detiene un plusvalore rispetto al meccanismo logico che nel linguaggio comunicativo lega significante, significato e senso. Per raggiungere il fondo delle proprie esigenze espressive, il poeta, accantonati i problemi formali tramite l’accettazione di un modello precostituito – quello iperletterario del salutz, non a caso – può, e anzi deve rapportarsi dialetticamente con l’essenza stessa della parola poetica, la quale è soggetto mascherato da oggetto.

In questo senso, pertanto, il salutz composto da Giudici non è, come crede Di Girolamo, il simulacro di un amore perfetto e concluso; tra poeta e poesia, al contrario, si instaura lo stesso tipo di rapporto che Leo Spitzer, leggendo in modo innovativo Jaufré Rudel, individuò come costitutivo dell’amor de loing: si tratta proprio di un paradosso amoroso, scatenato dalla compresenza di carne e spirito nel corpo dei versi. Parafrasando Spitzer, l’amore, e così la scrittura poetica, non vuole possedere, ma protrarre il più possibile quel godimento che s’origina da un mancato stato di possesso.34 E se ciò vale tanto per il salutz provenzale quanto per Salutz di Giudici, va ribadito che in quest’ultimo caso la frustrazione per il perenne, fallimentare tentativo di dialogo con la «Midons» assume forti valenze critiche e veicola, perciò, un messaggio poetico chiaro.35

Da tale frustrazione, infatti, prende piede quel sentimento di prigionia che si esacerberà al tutto non in Salutz, bensì in Fortezza. Come sintetizza il componimento 39, il poeta – ma prima ancora del poeta ogni uomo, poiché detentore di capacità intellettive che tracimano dall’argine della materia blanda – è per sua natura un prigioniero:

E più tenti di uscirne e più vi si chiuda
Macina di pensieri
Dove ieri al domani si confonda
Bambino che una storia cattiva inventa
A se stesso, s’imbozzola nelle sue spire.36

Proprio a causa di quel diuturno colloquio che si instaura tra poeta e poesia, l’auto-segregazione dell’autore si riversa automaticamente sulla forma della scrittura, la quale, corrispondendo l’animo umano, si nutre di se stessa e in se stessa si chiude.

E si legga ancora il tentativo di fuga dalla gabbia della poesia che un certo impeto amoroso ancora lasciava intravedere – ma pallidamente – in Salutz, VI 8:

Di rabbia in rabbia in rabbia
All’assalto d’un muro ch’è il mio petto
Tento più astuta via da questa gabbia.37

Si tratta della stessa gabbia da cui l’esarca di Fortezza, con una messa in scena straordinaria nella sua amarezza, vuole distogliere lo sguardo del poeta, illudendolo che esista una via di fuga reale:

Prima e più d’ogni altra
Usuale cautela tagliargli
Canali vie spiragli di pensiero
Al sospetto che appena un vizio di visione
Dove il nero è più nero
In questa prigione lo chiuda –
Unico lembo di respiro non proibito
Lasciandogli il fatuo infinito
Grembo a cui torna e torna
Stupida bestia a sfidare
L’altro Sé dello specchio nel chiaro aldilà
Altrove del cuore di lei –
E poi subito e sempre ricominciare persuadendosi:
Ma esiste e quasi ci sei.38

Giovanni Giudici, apparentemente mai stato tanto lontano dal realismo, riesce qui per vie inconsuete a proporre uno dei più incisivi e inquietanti ritratti dell’uomo contemporaneo, totalmente spersonalizzato e autotrofo, vivo solo nella mortificazione di se stesso, prigioniero virtuale e, proprio perciò, lontano da ogni speranza di riscatto.

In conclusione, è proprio l’ironia sottesa al progetto di Salutz prima e di Fortezza poi che permette al poeta di maturare un rapporto dialettico con la scrittura, e privo d’impacci retorici. Non si tratta, allora, di un ripiegamento su posizioni poetiche di tipo misticheggiante, come a un primo sguardo verrebbe forse da supporre; e neppure si tratta del cedimento a una propensione esclusivamente nichilistica, per cui l’approccio critico alla realtà perderebbe qualunque motivo d’essere. Pur essendo innegabile che Giudici voglia sperimentare una poesia diversa dai modi delle prime raccolte, ciò non implica affatto una ritrattazione delle proprie convinzioni teoriche: dove l’autore della Vita in versi e Autobiologia, o ancora quello del Male dei creditori, fa del suo sermo humilis un sardonico strumento di polemica e riscatto, esasperando la “mediocrità” della propria figura umana e, di conseguenza, della propria scrittura, il Giudici degli anni Ottanta indaga l’opposto versante della poesia, ma lo fa sempre anti-retoricamente e con grande energia performativa. In Salutz e Fortezza nulla si scorge di un’attitudine al sofisma o di un senile ripiego alla contemplazione, ma anzi si apprezza in esse il tenace attaccamento di Giovanni Giudici alla poesia, la quale è percepita come essere vivo: una compagna di vita e, quindi, di prigionia.

Si può aggiungere, tra l’altro, che non fu il solo Giudici, tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta, a scegliere una strategia poetica di questo tipo. Per fare un unico, ma significativo esempio, certe affinità potrebbero essere riscontrate con la via poetica intrapresa dal Caproni del Franco cacciatore e del Conte di Kevenhüler, del quale Daniele Santero ha recentemente sottolineato la cosiddetta «sacra ironia».39 L’atteggiamento ironico di Giorgio Caproni non va inteso come uno sterile, anarchico strumento di negazione, ma come un mezzo d’interpretazione positivo e assieme paradossale della realtà; è, cioè, il fondamento di quella «ateologia»40 culminante nell’assurda espressione di libertà negativa che solo la poesia può garantire. Come per Giudici, incapace di oltrepassare «le due estremità / del tratto che gli è permesso»,41 per Caproni la rappresentazione del mondo cede di fronte a quelli che vengono indicati come «luoghi / non giurisdizionali»42 e diviene, pertanto, una drammatica messa in scena. In un quadro tout court atemporale e aspaziale, l’«Onoma» (il nome proprio, simboleggiante il tentativo di definire un’essenza al di là dell’apparenza) si configura come una bestia in perenne fuga, rappresentazione simultanea di Dio, della coscienza umana e della poesia. Il senso stesso delle cose è un oggetto in fuga che sfiora il poeta per poi inabissarsi; e Caproni, davanti all’assurdità dell’esistenza, tenta di uccidere Dio per renderlo vivo – proprio come fa Giudici che, nel finale di Fortezza, dichiara a dei muti, anonimi astanti tutta la contraddittorietà della propria ateologia, gridando: «Sì, ho ucciso Dio / Purché ve ne andate!».43

Questa breve parentesi conclusiva, più che tentare un vero e proprio accostamento tra i due poeti, vuole suggerire una possibile applicazione dell’idea d’ironia anche al di là del corpus di Giovanni Giudici, evidenziandone in questo modo la validità teorica. È infatti possibile che questo tipo di «gestione», come la chiama il poeta ligure, sia rintracciabile in una certa poesia italiana che, alle soglie del XXI secolo, optò per una programmatica, polemica oscurità. Tale scelta andrebbe pertanto discussa e compresa nella sua eziologia, anche muovendo da concrete ragioni storico-culturali: alcuni dei fattori in questione, per esempio, potrebbero essere la recrudescenza della Guerra fredda, l’imporsi in maniera sempre più decisiva dei sistemi economici neo-capitalisti o, ancora, il progressivo perfezionamento dei mezzi di comunicazione di massa. È chiaro che davanti a un simile scenario di massificazione, dove è vanificato il limite tra il soggetto e gli oggetti che lo attorniano, quasi protesi del corpo e del pensiero, al poeta non resta che chiedere asilo alle sue pagine e mostrare, con amarezza, la propria costrizione alla fuga dal mondo. Per questo motivo, Salutz e Fortezza andrebbero lette come dolorose, anzi drammatiche testimonianze d’un forzato esilio. Ed è proprio in tale natura assieme elusiva e documentaria, ironica e disarmata, che va ricercata la spiegazione del loro buio fascino.

Note

1 O. Cecchi, Giovanni Giudici, in Id., Il Novecento, vol. IX, Milano, Marzorati, 1982, pp. 9060-9073: p. 9072.

2 Cfr. le Note dell’autore in G. Giudici, Fortezza, Milano, Mondadori, 1990, pp. 87-88.

3 Cfr. F. Fortini, La poesia italiana di questi anni, in Id., Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, pp. 99-100.

4 A. Berardinelli, La musa umile, in Id., Il critico senza mestiere. Studi sulla letteratura d’oggi, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 115-123: p. 118.

5 G. Leonelli, La poesia del pieno e del secondo Novecento, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, vol. IX (Il Novecento), Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 1157-1244: p. 1208.

6 C. Di Girolamo, In alto la lirica!, in «Linea d’ombra», 17, dicembre 1986, pp. 87-89, ora ripubblicato in parte in G. Giudici, Poesie (1953-1990), vol. II, Milano, Garzanti, 1991, pp. 508-511: p. 511.

7 Ivi, p. 508.

8 G. Giudici, La gestione ironica, in «Quaderni piacentini», 19-20, ottobre-dicembre 1964, pp. 23-30; ora in Id., La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975), Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 207-217.

9 Ivi, p. 210.

10 Ivi, p. 213.

11 Ivi, pp. 213-214.

12 Cfr. M. Boselli, La gestione dell’ironia, in «Nuova Corrente», 120, 1997, pp. 283-290.

13 Va sottolineato, tra l’altro, che evidenti rimandi al significato profondo della gestione ironica si ritrovano ancora in alcuni scritti teorici di Giudici risalenti, più o meno, al periodo in cui venne steso il corpus poetico di Salutz. Rilevante per esempio, nel breve saggio La dama non cercata, è il riferimento a quello «sperimentalismo involontario di segno rovesciato» che costituirebbe, secondo lo scrittore, l’essenza stessa dell’autenticità poetica. Esemplificando tale concetto, Giudici si sofferma ad analizzare i versi di due autori «legati a una cultura poetica assai meno avanzata della loro poesia» come Manzoni e Saba, e conclude: «“Tempio di quei che sperano” e “Amo sol chi in ceppi avvinto” non tolgono nulla, anzi qualcosa aggiungono, alla palpitante verticalità della Pentecoste e del Canto a tre voci: l’aulicità, più o meno ingenuamente o consapevolmente assunta, funziona quasi come un “test” che verifica l’autenticità artistica del testo da cui viene agevolmente e “ironicamente” riassorbita, riscattata» (G. Giudici, La dama non cercata, in Id., La dama non cercata, Milano, Mondadori, 1984, pp. 37-45: 39).

14 N. Frye, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1969, p. 299.

15 Ivi, p. 318.

16 G. Giudici, Salutz, Torino, Einaudi, 1986, p. 87, vv.10-11.

17 Ivi, p. 69, vv. 5-12.

18 G. Giudici, Fortezza, cit., p. 53, vv. 1-10.

19 Ad ammetterlo è stato anche Carlo di Alesio il quale, intuendo con grande acume la convergenza di suggestioni bibliche, schiettamente tragiche e, in qualche modo, espressionistiche nel prigioniero protagonista della sezione centrale di Fortezza, descrisse quest’ultimo come un fratello «di Giobbe, di Amleto e di Joseph K.» (C. Di Alesio, Parlare “in linguis”, in Giovanni Giudici: ovvero la costruzione dell’opera, fascicolo speciale di «Hortus», 18, II semestre del 1995, pp. 83-84).

20 Nello scritto Kafka e dintorni, steso tra il 1980 e il 1983, le parole con cui vengono descritti i tratti distintivi dello stile kafkiano ricordano molto da vicino non soltanto il modello ironico di Frye, ma anche la gestione ironica teorizzata da Giudici stesso. La scrittura di Kafka, secondo Giovanni Giudici, trova infatti una via di scampo dal caos della modernità rifugiandosi «nella bidimensionalità, nella piattezza della pagina scritta, al grado zero di una corporeità che (peraltro) non si abolisce, ma si riduce a questo minimo proprio per ostinata volontà di sopravvivenza, cioè per non lasciarsi abolire» (G. Giudici, Kafka e dintorni, in Id., La dama non cercata, cit., pp. 211-226: p. 214). Sono parole che, come può essere facilmente intuito, bene si adatterebbero a sintetizzare il senso del progetto poetico su cui la struttura di Salutz e, di riflesso, quella della sezione centrale di Fortezza si informano.

21 Cfr. in particolare G. Giudici, Gli aeroplani di Kafka ovvero: Riflessioni sul poema, in Id., La dama non cercata, cit., pp. 26-36: p. 29; si veda ancora un passo dell’Antologia critica inserita in Id., Poesie scelte (1957-1974), Milano, Mondadori, 1975, pp. 22-26: p. 23.

22 Cfr. Id., Come una poesia si costruisce, in Id., Un poeta del Golfo. Versi e prose di Giovanni Giudici, Milano, Longanesi, 1994, pp. 211-223: p. 212.

23 Cfr. Id., Fare i conti con la lingua, ivi, pp. 224-226: p. 225.

24 Simona Morando parla, giustamente, di una «persistenza della finzione, la costanza cioè di portare avanti per una lunga sequenza un travestimento, una scenografia, una “trama”» (S. Morando, Vita con le parole. La poesia di Giovanni Giudici, Pasian di Prato, Campanotto, 2001, p. 113). Pur intendendo tale fictio come notevole punto di raccordo tra Salutz e Fortezza, la studiosa non indaga però a sufficienza le ragioni ideologiche (e si vorrebbe anche dire politiche) che spingono Giudici ad adottare una simile scrittura, in effetti inedita nel percorso del poeta.

25 G. Giudici, Fare i conti con la lingua, cit., p. 224.

26 Id., Salutz, cit., p. 20.

27 Id., Fortezza, cit., p. 47, v. 7.

28 Id., Come una poesia si costruisce, cit., p. 214.

29 Ibidem.

30 Si riprende, qui, un celebre verso di Jiří Orten, poeta cecoslovacco amato e tradotto nel 1968 da Giudici stesso. Il verso in questione divenne anche il titolo dell’edizione italiana delle sue poesie (cfr. J. Orten, La cosa chiamata poesia, Torino, Einaudi, 1969).

31 «Plus michi semper placuerunt verba quam facta, quoniam gloriosius est in talibus vivere in spe quam in re», (Boncompagno da Signa, Rota Veneris, a cura di P. Garbini, Roma, Salerno editrice, 1996, pp. 78-79).

32 P. Garbini, Introduzione a Boncompagno da Signa, Rota Veneris, cit., p. 7.

33 Ivi, p. 16, che rimanda a sua volta a E. Melli, I «salut» e l’epistolografia medievale, in «Convivium», XXX, 1962, pp. 385-398.

34 Cfr. L. Spitzer, L’amour lointain de Jaufré Rudel et le sens de la poésie des troubadours, in Id., Romanische Literaturstudien 1936-1956, Tubingen, Niemeyer, 1959, pp. 363-417: p. 364.

35 Tale resistenza di Minne-Midons a essere avvicinata dal poeta è sintetizzata magistralmente da Giudici già nel 1981 quando, nello scritto Gli aeroplani di Kafka, la Poesia viene presentata con le sembianze di «una dama capricciosa e difficile, la nostra coy mistress» (G. Giudici, Gli aeroplani di Kafka, cit., p. 31).

36 Id., Fortezza, cit., p. 68, vv. 1-5.

37 Id., Salutz, cit., p. 75, vv. 5-7.

38 Id., Fortezza, cit., p. 33.

39 Cfr. D. Santero, Una sacra ironia: liturgie «senza dio» di Giorgio Caproni,
in «Levia gravia», 7, 2005, pp. 151-168.

40 Dalla poesia Meteorologia (Versicoli del Controcaproni), in G. Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 742, v. 4.

41 G. Giudici, Fortezza, cit., p. 59, pp. 2-3.

42 Dalla poesia L’ultimo borgo (Il franco cacciatore), in G. Caproni, Tutte le poesie, cit., pp. 455-456: p. 456, vv. 33-34.

43 G. Giudici, Fortezza, cit., p. 67, vv. 4-5.