Nel desolante panorama culturale che da troppo tempo avvilisce la nostra società imponendole un’implacabile decadenza in ogni campo delle attività umane, è un grande piacere poter dar conto di alcune realtà che muovono decisamente in controtendenza. Alcune di esse sono di così ampio respiro, così ben strutturate e talmente coinvolgenti che ci si potrebbe finanche domandare come sia stato possibile concepirle ed attuarle da un punto di vista contenutistico, organizzativo ed economico, in un’epoca storica come quella in cui ci tocca vivere.
È difficile credere in una cultura fatta solo da grandi istituzioni, soprattutto se essa non può contare su un substrato che ne permetta una fruizione ed una condivisione capillare su un territorio e per un pubblico più ampio possibile, ma bisogna ammettere che quando si raggiungono alti livelli di produzione il discorso può esser diverso. Di fronte, cioè, a progetti e programmi ricchi, ben concepiti e particolarmente accattivanti, finanche il più irriducibile e critico disfattista – credo – potrebbe arrendersi alla bontà delle idee o almeno ammettere l’evidenza di una direzione chiara e precisa, se non addirittura illuminata.
Le stagioni del Maggio Musicale Fiorentino appartengono certamente a quest’ordine di eventi, in quanto i dirigenti del prestigioso teatro toscano dimostrano da tempo di voler puntare su un’offerta di altissima qualità, riempiendo di straordinari contenuti un luogo – il nuovo Teatro dell’Opera – che, per molti anni prima e dopo la sua recente costruzione, ha fatto discutere non poco a causa degli eccessivi costi relativi alla sua edificazione. All’epoca, infatti – si parla degli anni di poco precedenti al 2010 – furono mosse aspre critiche a chi volle l’attuazione del progetto, sia a causa dei 260 milioni di euro pagati dalla collettività per la nascita della nuova e avveniristica infrastruttura, sia perché una città come Firenze non era di certo a corto di luoghi adatti ad ospitare stagioni concertistiche, liriche e sinfoniche di tutto rispetto. Siamo fortemente convinti che la cultura (e quindi la società) abbia bisogno più di musica, teatro, lirica e quant’altro, piuttosto che di cemento, vetro e acciaio ma, a distanza di quasi un decennio dall’inaugurazione dell’imponente teatro del Maggio (periodo di tempo appena sufficiente a potersi riprendere dallo shock derivante da quell’enorme investimento di denaro), ci si può lasciar dominare dall’euforia e dalla soddisfazione per una programmazione culturale degna di una città come il capoluogo toscano, accantonando per un attimo tutto ciò che concerne altre categorie di ragionamento, di valutazione e di discussione.
Impossibile parlare di tutto ciò che il Teatro del Maggio ha prodotto nella stagione 2017/2018: tra concerti sinfonici, concerti solistici, opere liriche, balletto, musica da camera, cicli monografici e lezioni-concerto, gli eventi in programma sono stati centinaia, pronti a soddisfare le esigenze di una platea sempre ampia, appassionata e sufficientemente variegata. Ci soffermeremo, pertanto, su una particolare serie di concerti sinfonici che, tra le tante, ha rappresentato uno dei più interessanti cicli musicali monografici mai proposti sul territorio nazionale tutto, oltre che uno dei più alti sforzi interpretativi richiesti ad un’orchestra stabile: il Ciclo Šostakovič, dedicato all’esecuzione delle quindici sinfonie del grande compositore russo.
Il tributo del Maggio all’intero corpus sinfonico di Dmitrij Dmitrevič Šostakovič è in linea con l’attenzione che la sua musica ha progressivamente conosciuto negli ultimi quarant’anni. Da quando le sue opere hanno iniziato ad essere proposte con regolarità nei cartelloni europei ed italiani, la sua fama si è progressivamente accresciuta e la diffusione delle sue composizioni non ha conosciuto tregua. Il crollo del muro di Berlino, con la successiva disgregazione dell’Unione Sovietica, ha poi facilitato il processo di divulgazione dei suoi lavori, sebbene la genialità del grande compositore, l’universalità di linguaggio, lo stile inconfondibile e il profondo messaggio insito nel suo pensiero musicale avessero già da lungo tempo decretato il suo indiscutibile valore, consacrando Šostakovič, sin quasi dai suoi esordi, all’immortalità dei più importanti musicisti di tutti i tempi. Definire oggi la sua figura come quella del più grande sinfonista del XX secolo non può dare adito a dubbi o incertezze; potremmo però forse spingerci anche più in là, affermando che il musicista pietroburghese è di certo l’ultimo sinfonista classico della storia della musica occidentale. Erede di quello di Gustav Mahler, e di certo non sconnesso da altre eredità musicali europee, extraeuropee e, in primis, di matrice russa, il pensiero sinfonico di Šostakovič rappresenta un unicum, sia per proprio talento naturale che per questioni che potremmo definire “ambientali”. La sua “sovieticità”, certamente più marcata che in ogni altro grande compositore russo a lui coevo, è il filo conduttore di un’intera esistenza e di un’intera produzione, ma è anche l’elemento chiave di un dramma personale – quello del rapporto col regime e le sue conseguenze – che lo accompagnerà per tutta la sua parabola di uomo e musicista. Non crediamo possa esserci nulla di più drammatico nella vita di un intellettuale, infatti, che vivere la propria opposizione ad un regime non potendo fare a meno di quei principi (distorti dalla dittatura) da cui esso stesso nasce, non potendo quindi rinunciare né ad una forte appartenenza culturale, né ai suoi impulsi e alla sua natura. Essere dissidente, essere contro l’irreggimentazione dell’arte e doversi in qualche modo “adeguare” al sistema, ben sapendo quali rischi corrono la propria vita e quella dei propri cari, rappresenta di certo una delle peggiori pressioni psicologiche a cui un essere umano, e a maggior ragione un artista, possa essere sottoposto. Non solo: ancor peggio se da questa condizione, agli occhi del mondo e finanche della propria nazione, vien fuori un’immagine distorta e al contempo ambigua. Mentre oltre cortina, infatti, ci si chiedeva se il musicista fosse o meno uno stretto collaboratore di partito, e quindi uno strenuo difensore del pensiero staliniano, nell’allora URSS in molti nutrivano dubbi sulla sua indipendenza di artista per il sol fatto che, come invece accadde a molti altri intellettuali russi, Šostakovič non fu vittima dei Gulag o delle tremende purghe staliniane. Fu colpito – è vero – da glaciali censure ed aspre critiche ideologiche, ma queste si erano sempre e miracolosamente fermate ad un passo dalla sua eliminazione fisica, la qual cosa meravigliava finanche il compositore stesso. La vita del musicista, quindi, si muove in questa mefitica atmosfera di ambiguità e sospetto, di tormento ed oppressione che provoca in lui terribili sofferenze psicofisiche, ma genera anche una continua ed implacabile indagine nella condizione umana, nella tragedia della guerra e nella follia degli assolutismi, che egli trasfigura in uno stile musicale di eccezionale comunicativa, di grande forza propulsiva e di efficace opposizione intellettualistica alla schizofrenia staliniana.
L’incontenibile energia che il messaggio musicale di Šostakovič contiene trova proprio nella scrittura per orchestra, e massimamente nella sinfonia, la sua più profonda ed autentica capacità espressiva, non solo da un punto di vista strettamente strumentale, formale e strutturale, quanto anche per il valore particolarmente aggregativo dell’elemento sinfonico in sé: una massa di musicisti coralmente uniti e focalizzati su un fine comune, i quali – guidati da un leader – trasmettono emozioni ad una massa di ascoltatori altrettanto uniti ed egualmente focalizzati su un’esperienza fortemente condivisa nel tempo e nello spazio, è emblema della causa rivoluzionaria, Leitmotiv di una Russia idealmente e fattivamente ancora votata alla coesione sociale e ad altre tematiche patriottiche e di lotta di classe, ma anche vessillo di un concetto profondamente politico dell’arte. Risulta ancor più incredibile, quindi, constatare come proprio attraverso elementi tipicamente propagandistici, se non spudoratamente di partito, Šostakovič sia comunque riuscito a veicolare il proprio credo muovendosi sul filo del rasoio di un suo pericolosissimo status, vale a dire di rappresentante ufficiale della grandezza artistica sovietica, pur se in odore di dissidenza politica. Sebbene alcune sue composizioni appaiano spontaneamente consacrate alla causa comunista, sono evidenti, già in gioventù, tentativi di conferire alle proprie opere un’identità marcatamente individualistica, strizzando anche un occhio alle avanguardie più occidentali. In breve tempo, però, la sua voce inizia lentamente e progressivamente a nascondersi dietro un’inquadratura sempre più rigida (si pensi al passaggio tra la Seconda e la Terza Sinfonia, che può esser letto come un forzato allontanamento dagli stilemi modernistici) dovuta senza dubbio a pressioni ideologiche e alle conseguenze di amare critiche ufficiali (come quelle, particolarmente feroci, mosse all’opera Lady Macbeth del Distretto di Mcensk). Questo graduale irrigidimento lo costringerà ad esprimersi attraverso l’uso di armi sofisticate quali l’allusione, il sarcasmo, la finzione e l’apparente ironia, oltre che adottando raffinati elementi criptici per esprimere il proprio pensiero. A tutti è noto, ad esempio, l’uso della “cifra” musicale corrispondente alla trasposizione delle iniziali del proprio nome nella notazione tedesca (D S C H = Re, Mi bemolle, Do, Si), elemento usato in moltissime opere e in particolare nell’Ottavo Quartetto (dedicato alle vittime della guerra e del fascismo) e nella grandiosa Decima Sinfonia. In quest’ultima, scritta proprio all’indomani della morte di Stalin, il suo uso sfrenato è sinonimo di libertà dall’oppressore, affermazione della propria individualità contro il rappresentante di un regime che disapprovava, avviliva e combatteva il soggettivismo (sappiamo bene quale euforica reazione Šostakovič ebbe alla notizia della morte di Stalin, pur non immaginando minimamente quali pressioni avrebbe poi ugualmente ricevuto dal Partito Comunista guidato successivamente da Nikita Chruščev).
In altri casi, gli espedienti di Šostakovič giungono ad un altissimo livello di irriverenza nei confronti del potere: come giudicare diversamente il vero e proprio sberleffo rappresentato dalla sua Nona Sinfonia? Un lavoro che, dopo l’epilogo dell’assedio di Stalingrado, avrebbe dovuto trionfalmente celebrare la vittoria di Stalin sul nazismo (con un rimando inevitabile, oltretutto, alla grandiosità della Nona per eccellenza, quella di Beethoven) e che, invece, si pone come uno scherno ai danni dello stesso dittatore. Leggera, spensierata, senza cori e con temi assolutamente antiretorici e anticelebrativi, lasciò non solo l’amaro in bocca ai dirigenti del PCUS, ma mandò su tutte le furie Stalin stesso, che interpretò l’opera come un insulto alla propria grandezza, alla fierezza sovietica e ai milioni di morti che la guerra aveva prodotto.
Questa breve e per nulla esauriente descrizione della personalità artistica del compositore sovietico – certamente una della più complesse ed interessanti dell’intera storia della musica e di tutto il Novecento – dà una pur parziale idea del suo spessore e della sua grandezza, che la direzione artistica del Maggio ha voluto celebrare affidando ad un ventaglio di direttori ospiti le varie opere da dirigere. Un’idea di coralità anche in questo senso, con la quale si è voluto evidentemente preferire la varietà e la diversità di approccio alla forse più rigida idea di un’unica bacchetta. I risultati sono stati eccellenti e non inferiori alle aspettative dettate dalla rosa dei maestri invitati sul podio. Tra questi, Zubin Metha occupa ovviamente un posto di preminenza, visto il suo ruolo di direttore principale del Teatro del Maggio: la sua direzione dell’avanguardistica Prima e della caricaturistica Quinta Sinfonia ha colto a pieno le caratteristiche peculiari di entrambi i lavori di Šostakovič, nonostante le opere del compositore non rientrino del tutto nel suo pur vastissimo repertorio.
Tutti i direttori ospiti sono stati comunque all’altezza dell’impegno a cui erano stati chiamati. Due di loro, direttamente legati alla cultura russa – Vladimir Fedoseev (classe 1932, che con Šostakovič condivide i natali) e Michail Jurovskij (nato a Mosca nel 1945 e considerato uno dei massimi interpreti del genio pietroburghese) – hanno rappresentato un affascinante “filo diretto” con il ciclo in oggetto e soprattutto con i valori di una tradizione interpretativa, in cui il retaggio di ciò che fu il mondo sovietico traspira senza troppa fatica.
Non indifferenti e piacevolmente ricche di interessanti spunti innovativi le letture affidate a direttori giovani o giovanissimi, certamente più affrancati da contingenze storiche e dagli aspetti più retorici della musica di Šostakovič: Daniel Smith (giovane e brillante direttore australiano che ha anche amabilmente interloquito con il pubblico), Alpesh Chauhan (direttore principale designato della Filarmonica “Arturo Toscanini” di Parma), Leonardo García Alarcón (argentino di nascita, nonché esperto di musica barocca italiana e latino-americana), Henrik Nánási (ungherese con una solida formazione mitteleuropea), Andris Poga (lettone, con una intensa attività concertistica e diverse collaborazioni in tutto il mondo) e Aziz Shokhakimov (vero enfant prodige con, in curriculum, un debutto a soli 13 anni sul podio dell’orchestra sinfonica nazionale del suo paese d’origine, l’Uzbekistan). Tutti nati tra il 1975 e il 1988.
I restanti interpreti (Karl-Heinz Steffens, Wolfram Christ, Oleg Caetani, John Axelrod, James Conlon), direttori di una certa notorietà, hanno contribuito ad una lettura chiara e filologicamente attenta, con un rispetto altissimo per il segno e per la partitura, pur con uno sguardo anch’esso rivolto a liberare la musica di Šostakovič da anacronistici stereotipi e da quella tipica rigidità troppo spesso associata al suo stile asciutto e tristemente severo.
La generosità dell’offerta culturale del Maggio della scorsa edizione si è manifestata anche con una varietà di programmazione in ciò che ha affiancato, in questa lunga lettura šostakovičiana, le sinfonie del Maestro. Una parte di essa, dedicata a quella che Guido Salvetti, nella guida all’ascolto, definisce «Aspetti della rinascita strumentale italiana», ha avuto come fulcro compositori italiani operanti a cavallo tra Ottocento e Novecento. Encomiabile tentativo di dare a queste composizioni una propria dignità artistica, ma che temiamo abbia avuto poca fortuna, se non sortito un effetto addirittura opposto. Si comprende certamente la volontà di chi ha ritenuto opportuno “alleggerire” i programmi delle serate abbinando ad ogni sinfonia di Šostakovič una o più opere dal carattere meno impegnato o dall’ascolto certamente più facile, ma la scelta è caduta molto spesso su compositori cosiddetti minori, o su opere che non potremmo certamente definire capolavori, specie al cospetto degli affreschi musicali del compositore a cui il ciclo era dedicato. Il risultato, infatti, ha inevitabilmente e implacabilmente evidenziato un enorme divario di spessore artistico, di talento e di contenuti tra il musicista principale e quello – per così dire – secondo. È successo con il poema contemplativo per orchestra Gethsemani di Victor De Sabata, grande musicista che vogliamo continuare a ricordare per il suo enorme apporto alla direzione d’orchestra, piuttosto che come compositore; è accaduto con alcuni brani giovanili di Ottorino Respighi, che dovrebbero esser presi per ciò che sono: meri esercizi di composizione musicale; è avvenuto con il Preludio Fedra di Ildebrando Pizzetti (opera non proprio anonima ma che ha avuto la mala sorte, in questa stagione, di essere accostata a quell’incredibile meraviglia che è la quindicesima sinfonia di Šostakovič); e perfino con Luigi Dallapiccola, autore del Piccolo Concerto per Muriel Couvreux, una composizione che, nonostante le possibili interpretazioni relative ad alcune sue peculiari caratteristiche come l’essenzialità e la semplicità di scrittura (probabilmente perché dedicato ad una bambina di sette anni), resta senza spessore alcuno, malgrado gli sforzi interpretativi, pur encomiabili, di Roberto Prosseda al pianoforte. Decisamente interessante, invece, la Introduzione, Passacaglia e Finale del compositore italiano Giovanni Salviucci (nato nel 1907 e prematuramente scomparso trent’anni dopo), la cui musica meriterebbe senza dubbio un’indagine più approfondita, mentre preferiamo sorvolare su altre scelte di repertorio relative soprattutto a compositori contemporanei. Una doverosa eccezione, però: la splendida opera scritta da Matthew Hindson in collaborazione con William Barton dedicata al popolo Kalkadunga, sterminato nel continente australiano dai coloni europei nel 1884. Una composizione contemporanea magnifica ed incredibilmente espressiva, prova di rara sapienza compositiva che ha sbalordito per fluida complessità, densità di scrittura ed intensità emotiva. Grazie anche all’ammaliante timbro del didgeridoo (strumento indigeno australiano suonato dallo stesso Barton), essa ha regalato ad un attento e commosso pubblico del Maggio un’insolita esperienza di pura bellezza e di profonda riflessione sulle tante tragedie prodotte dall’arroganza e dalla presunzione di superiorità dell’essere umano ai danni dei suoi simili lungo tutto il corso della sua travagliata storia.
Meno marcato, ma comunque evidente, il divario qualitativo tra la musica di Šostakovič e quella di Alfredo Casella, del Respighi dei Pini di Roma e delle Fontane di Roma, e di Giuseppe Martucci, con un Secondo concerto per pianoforte e orchestra op. 66 reso meno insapore del solito dalla stacanovistica quanto impeccabile lettura di Pietro De Maria.
La restante parte dei repertori proposti ha visto l’accostamento alle opere di Šostakovič di capolavori indiscussi della letteratura musicale: il Requiem di Mozart, ultimo numero di catalogo del genio salisburghese, che ha impegnato, oltre ai solisti Francesca Longari, Giada Frasconi, Manuel Mati e Adriano Gramigni, anche il magnifico coro del teatro; il Concerto per violoncello e orchestra op. 129 di Robert Schumann, interpretato allo strumento solista dalla vincitrice del Primo Premio Chigiana 2017 Ella von Poucke, la quale, a dispetto del riconoscimento ricevuto dalla blasonata accademia toscana, è apparsa senza slancio e senza passione, non convincendo l’uditorio; i due concerti di Johannes Brahms per pianoforte e orchestra, op. 15 e op. 83, due tra le più impegnative e monumentali opere per strumento solista e orchestra della storia del pianoforte, interpretati a soli due giorni di distanza dal pianista ungherese András Schiff con la direzione di Zubin Mehta. Due eventi, questi ultimi, che hanno forse rappresentato il vero punto debole dell’intero ciclo. Sarebbe interessante capire come mai la scelta della direzione artistica sia caduta su un pianista – osiamo dire – poco o per nulla brahmsiano, aggravata dall’azzardo di una sfida colossale: entrambi i concerti, cioè, eseguiti a così poca distanza di tempo l’uno dall’altro. Schiff è e resta uno dei più grandi pianisti al mondo, raffinato e superbo interprete di Bach, Mozart, Beethoven e Schubert, ma avrebbe potuto evitare la ciclopica impresa. Incidente di percorso relativamente piccolo che nulla toglie né alla autorevolezza del pianista, né alla maestosità dell’intero ciclo dedicato a Dmitrij Šostakovič da una grande istituzione culturale italiana come quella del Maggio Musicale Fiorentino che ha voluto fortemente offrirgli, a distanza di 43 anni dalla scomparsa, un indimenticabile ed esclusivo tributo.