Prima la bomba ad alto potenziale solo parzialmente esplosa contro la Procura Generale di Reggio Calabria.
Poi, a distanza di pochi giorni, i fatti di Rosarno, sui quali date le molte zone d’ombra è necessario riflettere, al di là delle facili polemiche e del consueto, immediato e vuoto scaricabarile delle responsabilità politiche.
Almeno apparentemente, la dinamica dei fatti è chiara, se si ha la pazienza di ricostruire le cronache frenetiche degli ultimi giorni.
Giovedì 7 gennaio il ferimento, da parte di un gruppo di sconosciuti armati di fucile ad aria compressa, di due lavoratori extracomunitari impegnati nella raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, scatena la protesta di alcune centinaia di immigrati che, armati di spranghe e bastoni, occupano in massa la strada statale che attraversa Rosarno, piccolo paese di circa quindicimila abitanti.
Si tratta di lavoratori, per lo più d’origine africana, che da anni tornano a Rosarno durante i mesi invernali; braccianti che fanno funzionare l’agricoltura locale.
Auto distrutte, abitazioni danneggiate, cassonetti dell’immondizia incendiati, persone intimidite.
Polizia e carabinieri intervengono in assetto antisommossa.
Arrivano anche i rinforzi, si tenta una trattativa per far rientrare la protesta.
Le forze dell’ordine, come si suol dire in questi casi, tentano di “riportare l’ordine”, e di riprendere il controllo del territorio.
Ma già nella serata di giovedì si verifica un fatto che merita di essere sottolineato; inquietante perché fuori dalle logiche che dovrebbero governare i cittadini di uno Stato di diritto, unico detentore in teoria del monopolio della forza e solo tutore legittimo della loro “sicurezza”.
Alcuni giovani di Rosarno, infatti, circa un centinaio secondo fonti giornalistiche, scendono in piazza per seguire l’evolversi della situazione, ad alcuni metri di distanza dalle forze dell’ordine.
Chi sono questi giovani? Semplici cittadini? E ancora: chi ha sparato quei colpi di fucile, nella serata di giovedì, e perché lo ha fatto?
Ai magistrati il compito di indagare, a tutti noi quello di porci delle domande.
Di sicuro c’è che il giorno dopo, venerdì 8 gennaio, a Rosarno è battaglia.
In mattinata infatti riprende la protesta, i lavoratori d’origine africana scendono di nuovo nelle strade.
Bloccano la circolazione, spaccano alcune vetrine e rovesciano cassonetti; in paese chiudono scuole e negozi, e un cittadino, dal terrazzo di casa sua, spara due colpi di fucile in aria a scopo intimidatorio, per disperdere un gruppo di migranti radunatosi davanti alla sua abitazione.
Poi, mentre gli africani stanno ormai rientrando nei capannoni fatiscenti dove vivono da mesi in condizioni d’assoluto degrado, un gruppo di cittadini di Rosarno tenta di raggiungerli, ma si scontra con le forze dell’ordine.
Nel pomeriggio è invece un gruppo di abitanti ad attuare un blocco stradale lungo la statale 18 che attraversa il paese: si alzano le barricate e i manifestanti, cittadini italiani, invocano a gran voce la cacciata degli stranieri.
I carabinieri procedono ad alcuni arresti, sette stranieri accusati di danneggiamenti e due italiani, che hanno tentato di investirli con l’automobile.
Torna la sera, e la situazione di nuovo precipita: tre ragazzi a bordo di una macchina scura percorrono la statale, raggiungono un gruppo di braccianti che sta tornando dai campi, e sparano. Per la seconda volta in due giorni.
Due uomini vengono feriti alle gambe, con fucili da caccia caricati a pallini. Dall’aria compressa alle armi da fuoco il passo, dunque, è stato breve.
L’automobile corre via indisturbata, sulla statale nessuno la ferma.
Ancora: chi sono questi giovani, che sparano, addosso ai neri di Rosarno, e che ridono mentre lo fanno, secondo alcune testimonianze?1
Semplici cittadini?
Sono semplici cittadini quelli che venerdì, con spranghe e bastoni, sulla statale 18 colpiscono altri due migranti, ricoverati all’ospedale di Polistena in gravi condizioni?
Sono semplici cittadini di Rosarno coloro i quali, quella stessa sera, armati di bastoni e taniche di benzina, bloccano ancora la statale 18, a poche centinaia di metri dai locali dell’ex Opera Sila, dove si trovano molti degli stranieri che raccolgono d’inverno le clementine e le arance della Piana di Gioia Tauro?
In nero, sfruttati nei campi per venticinque euro al giorno, vivono in condizioni disumane all’interno di costruzioni in rovina, sotto gli occhi delle istituzioni.
In barba alle denunce di Medici Senza Frontiere.
I «rampolli di mafia», come li ha definiti il sostituto procuratore alla Procura Nazionale Antimafia, Alberto Cisterna, in una intervista in «Avvenire», hanno sparato addosso agli africani.
La prima volta ad aria compressa, forse solo per puro divertimento.
Forse.
Un precedente risale al dicembre 2008, quando sempre a Rosarno due giovani braccianti ivoriani vennero feriti a colpi di pistola, naturalmente da un “cittadino”, che agiva però per scopi estorsivi, e che i migranti stessi, all’epoca, decisero di denunciare.
Già allora erano scesi in strada a protestare: quest’anno, all’ennesima umiliazione, all’ennesima prepotenza subita, gli africani di Rosarno si sono ribellati, con la violenza della disperazione.
E lo Stato italiano, per “riportare l’ordine”, quella stessa notte di venerdì ha deciso di deportarli in massa.
Senza distinzione tra regolari e irregolari, richiedenti asilo e rifugiati, in base alla stessa logica che presiede ai respingimenti in mare, compresi i ragazzini che domenica 10 mancavano alla messa celebrata nel Duomo cittadino da don Pino Varrà.
La volontà di pulizia etnica – come altro definirla, consapevoli del fatto che le questioni di etnicità, spesso, sono solo la buccia superficiale, il volto più eclatante, di conflitti che affondano altrove le loro motivazioni? – dei “cittadini” barricaderi di Rosarno, scesi in strada a presidiare gioiosamente le operazioni di trasferimento, mentre nel pomeriggio di sabato per la terza volta un altro bracciante immigrato veniva ferito a colpi di fucile a pallini nelle campagne di Gioia Tauro, è stata eseguita.
Con un compromesso finale: secondo quanto si apprende dall’articolo di Alberto Custodero «Rosarno, scattano le espulsioni», apparso lunedì 11 gennaio su «Repubblica.it» , infatti, gli africani sarebbero stati lasciati liberi di andarsene dai centri di Crotone e Bari, dove erano stati in tutta fretta trasferiti nelle notti precedenti.
Liberi i clandestini di tornare in clandestinità, e tutti i deportati di tornare a subire.
Liberi tutti di farsi sparare addosso e prendere a bastonate, se si ribellano alle fucilate dei “cittadini”, in qualche altra Rosarno d’Italia; dove non hanno altra scelta che lavorare in nero, vivere in un tugurio senza servizi igienici, e dove non è la legge italiana a controllare il territorio.
Restano aperti, poi, altri interrogativi: ad esempio, chi raccoglierà adesso le arance della Piana?
Con tutta probabilità – come riporta l’articolo di Roberto Giovannini, «L’ultima risorsa i raccoglitori dell’est», apparso lunedì 11 su «LaStampa.it» – i neocomunitari di nazionalità bulgara e rumena del quartiere di Case Nuove, che in virtù dell’allargamento dell’Unione Europea non necessitano di permesso di soggiorno e procurano, a chi li impiega in nero, in caso di controllo, solo una multa e non una denuncia per immigrazione clandestina.
Non va infatti dimenticato che i lavoratori immigrati, comunitari e non, specie nel Mezzogiorno, costituiscono una forza-lavoro fondamentale all’interno di tutti quei circuiti economici ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, quale appunto è il settore dell’agricoltura.
Braccia da sfruttare in quei mercati che si alimentano del loro lavoro privo di tutele, e lucrano sulla base della loro condizione di precarietà esistenziale, abitativa, sociale, giuridica.
Quello di Rosarno è solo l’ultimo in ordine di tempo di una lunga serie di casi simili: Castel Volturno a settembre del 2008 e San Nicola Varco a marzo del 2009 lo testimoniano.
Anche lì i migranti si sono ribellati alla violenza, anche lì vivevano in condizioni disumane, anche lì lavoravano in nero nei campi.
Tutto ciò è destinato a ripetersi, se mancherà la volontà politica di bonificare un mercato del lavoro che vanifica il sistema delle quote di cosiddetta “programmazione” dei flussi. Le “quote” irrealistiche della Bossi-Fini.
Basta infatti guardare alla tempistica dei decreti governativi, negli ultimi dieci anni, per rendersi conto di come essi siano, di fatto, regolarizzazioni ex post.
È il mercato a programmare, sono gli accordi informali tra datore di lavoro e lavoratore e la concorrenza tra lavoratori a stabilire il salario effettivamente percepito, e tutti possono immaginare quale sia il potere contrattuale di un extracomunitario che ha bisogno di un lavoro regolare (ma non è questo che spesso gli viene offerto) per poter avere il
permesso di soggiorno, e del permesso di soggiorno per poter avere un contratto di lavoro regolare.
Sospeso tra il rischio di finire per mesi dentro un Cie in attesa d’essere rimpatriato e quello di non avere letteralmente di che sopravvivere.
Certo, abbattere con le ruspe gli edifici occupati dai migranti, sostituirli, e lasciare in piedi tutto il resto, è più semplice.
Facile proclamare: “tolleranza zero”.
Ma a tutto c’è un limite, compresa la sopportazione dei dannati.
1 I medesimi interrogativi, con riferimento a quanto accaduto a Rosarno a dicembre del 2008, sono posti da Antonello Mangano, a pagina 41 e seguenti del suo libro intitolato Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l’Italia, edito nel 2009 da terrelibere edizioni.