L’incontro avvenne per combinazione nell’autunno del 1942 a Firenze in piazza san Marco. Giuseppe De Robertis (1888-1963) stava declamando con un gruppo di giovani allievi versi petrarcheschi. Leone Piccioni (1925-2018) ne fu attratto. Da tempo voleva conoscere un docente dedito a un metodo affascinante di insegnare letteratura italiana. E proprio da quel primo fuggevole contatto, in anni oscuri e drammatici, sorse una devota amicizia, che andò consolidandosi, e fu determinante nello scartare da parte dello studente gli studi di legge a favore di quelli umanistici. Non per caso fu affidata a Leone la cura del fascicolo del 3 aprile 1955 della rivista «La Fiera letteraria», estesamente dedicato a De Robertis. L’entusiasta collaboratore riuscì a raccogliere ventun testi, tra ricordi, testimonianze e brevi saggi. Gloria Manghetti, presidente della Fondazione Primo Conti, li ripropone e li introduce, attingendo pure al dossier che conserva la corrispondenza in merito, in un libro utile per riflettere sul ruolo che il celebre critico ebbe nel tumultuoso primo Novecento: La religione delle lettere L’omaggio della «Fiera letteraria» a Giuseppe De Robertis. De Robertis, nato a Matera, era approdato a Firenze nel 1907 grazie ad una borsa di studio. Vi frequentò con assidua passione l’Istituto di Studi Superiori, dove ebbe a compagni Emilio Cecchi e Renato Serra per fare solo due nomi e a maestro su tutti il grande antichista Girolamo Vitelli. In una commossa pagina del 1939, evocando un colloquio con Serra, riconobbe la funzione decisiva che svolse per loro: «Quel poco che io ho imparato, come si leggono i poeti, io lo devo a lui. E avessi saputo imparare di più». Dal 1914 al 1916 De Robertis diresse «La Voce» rivendicando il continuum fra tradizione e modernità. I contributi della celebrativa «Fiera» hanno un andamento discontinuo. Luigi Baldacci si intrattiene sugli iniziali studi manzoniani. Emilio Cecchi sottolinea che il festeggiato era «probabilmente quello che fu meno tocco dall’influsso del Croce». Mario Luzi nega l’attitudine di «edonista della forma» che gli veniva appioppata, e rimarca che la «critica degli scartafacci», l’esame delle varianti o correzioni che precedono la versione definitiva, «giovò a liberare il mito della forma poetica dalla sterilità dell’assoluto dei post-crociani». Adelia Noferi, allieva prediletta, cita dai Saggi, un passo che sintetizza dell’ottica stilistica derobertisiana: «nel fare opera di critica è necessario guardare all’imponderabile, acquistare il senso dell’imponderabile; e nel leggere, rapire quanto si può di segreto alla pagina». Vagliare un testo significa penetrare nella sua storia interna, attenersi al “fatto” ignorando teorie e sistemi. Lanfranco Caretti parla di «concretezza empirica», di «una didattica efficiente». Si comprende perché De Robertis preferisse l’epiteto di lettore a quello altezzoso di critico, e si sentisse spinto ad un’umile, incessante gnosi letteraria.
Riletti oggi i suoi scritti sui contemporanei sanno di stantìo, con quella prosa allocutiva zeppa di interiezioni, e quel risolvere il discorso critico in ingegnose metafore a effetto. Si sfoglino certe notazioni della raccolta sugli Scrittori del Novecento (1940). Su Palazzeschi: «Direi che la sua pagina è impregnata d’un’odorosa essenza, che nasce e si spande coi suoi propri moti, e, per finire più vicino all’argomento, è una pittoresca rappresentazione» (1930). Stile elzevireggiante che nella recensione scritta perde l’acume impressionistico della lezione ascoltata. Su Ungaretti nel 1934: «Non è facile, nella storia della tormentata poesia di oggi, trovare un così naturale e vivo e diretto rapporto tra parola ritmo e idea lirica, ed è perché l’idea lirica, la parola, il ritmo nascono spogliati di tutto tranne che delle loro forza emotiva e del suono interno e dell’essenziale potenza»: il culto di Ungaretti si esprime in qualità assolute, affermate senza chiare motivazioni. A Montale chiede (1931) a commento tardivo degli Ossi di seppia di diventare «lo storico del uso dolore». L’attacco alla nota su La Madonna dei filosofi di Gadda pecca di un riconoscimento avaro quanto ovvio: «Gadda non è uno scrittore facile, ma uno scrittore nuovo certo è». In Altro Novecento (1962) il discorso su Ungaretti si approfondisce, ma si fa fatica a rinvenirvi il riflesso dell’«ultima bellezza dell’arte imparata dai classici, dal Foscolo come dal Leopardi, come dal Petrarca». Sui “classici” De Robertis ha offerto pagine di sottile penetrazione. Non è il caso di evocare le chiose sulle varianti di A Silvia e degli educati rimproveri rivoltigli da Gianfranco Contini: l’esser privo di un metodo sistematico, il cedere volta per volta a impressioni effimere. Anche su Leopardi De Robertis non ha lasciato il segno. Preparò una scelta dallo Zibaldone, e la fece precedere da una Introduzione (Zibaldone scelto a annotato, Firenze 1922) che è il primo nucleo del diffusissimo Saggio sul Leopardi (apparso come introduzione alle Opere del recanatese (Milano 1937) e successivamente rivisto e aumentato fino al 1960. Nelle Ginestra – secondo De Robertis – «il Leopardi pare compiacersi di certe difficili bravure, che non si giustificano se non sotto la specie di oratoria, pura prosa a ogni modo». Passo influenzato da un crocianesimo teorico di vecchio stampo. Per non dire della gaffe sui (probabilmente) falsi manoscritti preparatori dell’Infinito presi per autentici. Una trappola che trascinò molti, a partire dal Flora, per vie traverse. Il ruolo che di norma si assegna a De Robertis è sproporzionato rispetto al suo valore. Il fascino del docente aveva fatto colpo ed aveva regalato suggestioni o intuizioni memorabili.