Francesco Siciliano Mangone,
Il silenzio della terra e Partizione del visibile e del dicibile
Luca Lenzini

Nel corso del 2021 per la casa editrice Pungitopo sono apparse due brevi e intense plaquettes di Francesco Siciliano Mangone, autore di romanzi (tra i quali Il maestro illecito, 2018; La spazzola dell’ingegnere, 2019) e racconti (Misura minore. Resoconti dal quotidiano divenire cose, 2016), oltre che di saggi. Tanto nella produzione narrativa quanto in quella poetica dell’autore è netto e tangibile il segno di un punto di vista disallineato rispetto agli standard correnti della letteratura mediatizzata e d’intrattenimento: in questo senso il richiamo a Walter Benjamin del titolo del romanzo del 1919, con l’immagine della «spazzola», rinvia precisamente ad un leggere la realtà storico-sociale in contropelo che sembra il primum costitutivo della scrittura di Mangone, e Il silenzio della terra ne offre una testimonianza esemplare. Qui infatti il tema delle lotte contadine del Mezzogiorno – Vittorio Foa ne scorse la natura di «azioni che modificano la realtà nell’atto di chiederne la modificazione»1 –, e più in generale del destino a cui la Repubblica, attraverso politiche scellerate e sanguinose repressioni, ha consegnato il Meridione, s’intreccia con il motivo della memoria, altrettanto fondante: memoria degli sconfitti, dunque, ma anche delle loro speranze tradite (il «sogno concreto», scrive Mangone, degli sfruttati e ingannati), vero lascito di cui chi scrive si fa carico. In una delle prose che accompagnano i versi si legge:
Come nel Bloch storico di Thomas Münzer, l’epos carsico del Silenzio della terra allude ad un tempo chiliastico ed implica nulla di meno di un nuovo rapporto con la Natura e la Storia: «Ora, / Invece, sia il tempo di vivere il / Coraggio di nostra / Mancata sufficienza, e d’un colpo / Mutar di passo e / Il possibile sia il Reale atteso» (Ora, il tempo nostro). E di attesa parlano anche le pagine di Partizione del visibile e del dicibile, in apparenza distanti dal paesaggio conflittuale e desertificato del Silenzio, ma coerenti con l’idea di Tempo della raccolta gemella: ora lo sguardo si posa sulle «cose», aggirandosi nell’atelier di Giorgio Morandi in Via Fondazza, luogo discreto, modesto e altissimo del nostro Novecento: «il raduno dei solidi (le coppe la / boccia le fiale composte). / Figure in / bella simmetria di antichi accordi», «(la teiera smaltata la / coppa d’intorno riversa ocra misurata)». La parola-chiave diventa allora «misura»: tra cosa e cosa, vuoti e pieni, prossimità e lontananza, presenza e dimenticanza si gioca l’attesa, una ricerca di senso che passa per il riscatto di quanto è degradato a pura merce. Con maggiore evidenza la riflessione si fa metapoetica, la «voce minima dei versi» sosta «agli incroci / d’infinite carovane di segni». Non a caso l’autore fornisce della definizione di Still Life che intitola la sezione “morandiana” un’interpretazione pregnante e deviante, sovversiva rispetto a quella di “natura morta”: «Non […] una natura andata, indifferente, tutt’altro! Carica del torto d’ingiuste partizioni, il ricordo latente di possibili negati, attende kairos, il suo tempo, per insorgere e ripristinare giustizia». Nella luce tersa e sottilmente febbrile, nelle «geometrie della stanza» e nella «quiete della casa» si fa strada ancora una promessa, riaffiora la «lenta impazienza» che chiede un compimento e attende «il tempo /opportuno».
1 Vittorio Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in «Rivista di storia Contemporanea», 1973, 4, p. 441. Nella Postfazione al libro di Mangone Marco Gatto sottolinea come nel «fazzoletto di anni dal Dopoguerra ai primi sussulti del boom economico la storia del Sud si è decisa» (p. 41).