Educare al lavoro.
Ripensare la scuola.
Una riflessione sulla scuola e sul lavoro a partire da un manuale di letteratura per docenti
Alessandra Reccia

Mentre programmo le lezioni di storia e di letteratura per le mie classi quarte e quinte di un Istituto professionale, apprendo la notizia della morte di Giuliano De Seta, lo studente diciottenne colpito da una lastra di metallo mentre svolgeva le sue ore di Pcto in un’azienda di Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Questa vicenda non può che segnare tragicamente l’anno scolastico appena cominciato e di più perché si collega, tristemente, a quelle di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, i due giovani morti non troppi mesi fa durante i rispettivi stage formativi, in Friuli e nelle Marche.

Benché si tenti di farle passare come fatalità, è indubbio che queste storie, da un lato, richiamano il tema dell’in-sicurezza sul luogo di lavoro, e dall’altro, gettano un’ombra nera sulle forme in cui si realizza oggi in Italia il rapporto scuola-lavoro, normato in un primo momento dalla L.107 del 2015 di Renzi, che istituiva l’Alternanza (Asl), che nella successiva Legge di Bilancio del 2019, vengono trasformati in Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento).1

Il movimento degli studenti medi, fin dallo scorso anno scolastico, ha giustamente messo al centro delle sue richieste l’abolizione dei Pcto, anche se due delle tre vittime sono decedute durante stage formativi, che solo indirettamente sono ad essi collegati.2

La richiesta nasce, tuttavia, dalla consapevolezza che la posta in gioco riguardi più in generale il tentativo di ricondurre il sistema di formazione e istruzione alle miopi esigenze del mercato del lavoro.3

D’altra parte, parlare per studenti di incidenti mortali sul lavoro dovrebbe essere un ossimoro e quindi consegnare queste morti esclusivamente alla risoluzione giudiziaria e all’ambito delle responsabilità formali e burocratiche significherebbe ignorarne la portata politica e ideologica, oltre che la gravità.

Sarebbe quindi doveroso appoggiare e fare propria l’istanza studentesca, magari istruendo un punto di vista differente, e affrontare la questione come docenti, anche banalmente, cercando di portala nella pratica didattica.

Mi viene in soccorso un libro, passatomi tra le mani già lo scorso anno, Il Capolavoro:4 un manuale per docenti di storia della letteratura, incentrato sul tema del lavoro e pensato per il triennio della scuola superiore.

Gli autori, Lidia Bellina e Sauro Garzi, rispettivamente un medico del lavoro e un insegnate di Lettere, lo propongono come «un suggerimento», una guida per la costruzione di attività curricolari interdisciplinari.

Ma i discorsi che vi si svolgono, capitolo dopo capitolo, hanno anche il merito di richiamare l’attenzione sulla necessità di costruire percorsi educativo-pedagogici e di responsabilizzare i docenti e studenti rispetto al tema.

Nei tre tomi che lo compongono, l’importanza che il lavoro assume nelle nostre vite e nella storia viene fuori dalle opere letterarie e artistiche presentandosi nella sua doppia veste di condanna e di strumento di riscatto, configurandosi come l’insieme delle pratiche, delle conoscenze, degli strumenti e dei luoghi che lo caratterizzano.

Questo libro potrebbe certo costituire un pretesto per attivare una discussione pratica tra insegnanti sul nesso educazione-lavoro, che sia anche un’occasione auto-formativa e un discorso sulla didattica della letteratura e non solo. Si tratterebbe di una piccola e marginale iniziativa, utile però per cominciare a rompere l’ormai colpevole silenzio del mondo docente su questo aspetto.

Questo manuale, quindi, in primo luogo, è uno strumento didattico utilissimo per i docenti, grazie agli spunti di argomentazione, alle proposte di lavoro, alle schede riassuntive, alle indicazioni bibliografiche e soprattutto offre una prospettiva metodologica. Organizzato per “proposte”, ordinate cronologicamente, per le diverse epoche, indica un canone di autori e temi non sempre scontato e suggerisce, inoltre, modi di “tagliare” gli argomenti storico-letterari, di sceglierli e organizzarli, ovvero di trattare lo studio della storia e della letteratura.

Il “lavoro” è presentato dal punto delle categorie di mestieri (artigianale, intellettuale, industriale) e anche come attività sociale, ovvero legato all’evolversi della consapevolezza e delle forme di organizzazione della forza-lavoro, oltre che dei modi e modelli di produzione.

Ma nello scorrere dei secoli e attraverso il susseguirsi dei “mestieri emblematici” (il contadino, il medico del lavoro, l’inventore, lo stampatore, l’insegnante) si arriva a un’accezione più generale del lavoro, inteso come attività finalizzata alla realizzazione o trasformazione di qualcosa. Ne deriva il senso dell’impegno, dello sforzo, ma anche dell’azione relazionata a uno scopo, con il suo portato di sofferenza, frustrazione, angoscia, ma anche di soddisfazione e realizzazione.

Il Capolavoro ha poi un altro scopo pratico, legato al tema della sicurezza.

Soprattutto negli Istituti professionali e tecnici, la presenza dei laboratori e delle officine e l’utilizzo di macchine equiparano giuridicamente studentesse e studenti allo status del lavoratore e quindi obbligano ad ottemperare, in misura proporzionale ai diversi contesti operativi, alla normativa relativa alla sicurezza sul lavoro. Nelle scuole, però, questo discorso tende a restare chiuso nella dimensione giuridica e spesso è riduttivamente associato a una serie di azioni specifiche o di procedure burocratiche o, ancora, di attività, che però nell’insieme restano totalmente avulse dal contesto didattico ed educativo e associate a norme che si percepiscono pericolosamente come distanti, inutili e astratte.

La scuola, come ci ricordano i nostri autori, dovrebbe invece farsi carico di una educazione alla sicurezza, che può diventare un obiettivo formativo solo se si collega a una cultura del lavoro e quindi al tema dei diritti. In questo senso la storia letteraria del lavoro diventa una base indispensabile per la conoscenza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori.

È proprio l’idea di una cultura del lavoro che fa di questo manuale qualcosa di più che una storia letteraria tematica.

La prospettiva storico-sociale è una spinta fondamentale per recuperare il valore educativo che il tema del lavoro offre e che di fatto ne fa un perno del discordo formativo, «il nodo dell’intreccio tra scuola, vita e società» (Introduzione, p.8), dentro il quale sarà possibile individuare e procurarsi strumenti per il futuro e finalmente mettere in condizione studentesse e studenti di leggere il mondo e relazionarvisi.

La proposta principale del manuale è quindi quella di affrontare la questione lavoro da un’ottica educativa e pedagogica, il che per la scuola equivale a un’assunzione di responsabilità e a una proposta di ruolo e funzione sociale.

Al contrario, la parola lavoro, tra le più usate quando si parla di istruzione e formazione, viene intesa quasi sempre in termini occupazionali. Le conseguenze di questa riduzione di senso sono enormi e sono relazionate alla logica soggiacente le politiche economiche dell’Unione europea, trasversalmente condivisa dai tradizionali schieramenti politici italiani, e che vede nel collegamento diretto tra istruzione e mercato del lavoro la soluzione sia alla disoccupazione giovanile sia all’abbandono scolastico.5

Del resto, rafforzare questo nesso è uno dei principali obiettivi dichiarati negli interventi legislativi che negli ultimi trent’anni stanno operando una lenta ma radicale trasformazione dell’Istruzione e della Formazione di Stato.

Da qui derivano due tendenze in atto.

La prima riguarda quei provvedimenti normativi che tendono ad avvicinare l’istruzione professionale all’apprendistato, come la Riforma dei Nuovi professionali, o a fornire personale qualificato alle industrie, come il potenziamento degli Istituti tecnici superiori.

La seconda, invece, è la tendenza a trasferire nel mondo della scuola, a partire dalla didattica, la logica della competizione e del profitto, tipiche di un determinato sistema di produzione e quindi l’idea riduttiva del processo conoscitivo e di apprendimento come di un insieme di procedure da applicare a differenti contesti.

Di scuola-lavoro e della necessità di tenere in relazione reciproca questi due mondi si è comunque sempre parlato, almeno da quando l’Unificazione italiana ha posto il problema di una istruzione di Stato. Da quel momento è sempre esistita una contrapposizione tra esigenze economico-produttive specifiche e generali finalità educativo-pedagogiche.

Semplificando, in base alla prima, le alunne e alunni sono esclusivamente futura forza-lavoro che con le competenze necessarie a questo o quel settore deve assimilare anche la mentalità e l’ideologia che tiene in piedi un determinato sistema.

In base alla seconda, studentesse e studenti sono persone in crescita e durante il loro percorso svilupperanno una propria personalità, individuale e collettiva e, attraverso le conoscenze e le capacità acquisite, un pensiero su se stessi e sul mondo. In questo modo sarà possibile anche svolgere un ruolo e una funzione di utilità sociale attraverso il lavoro e la partecipazione alla vita collettiva.

Dentro la prima concezione, il lavoro è ridotto a merce di scambio; nella seconda, il lavoro è una dimensione dell’esistenza e un modo di stare al mondo, oltre che essere, naturalmente, anche merce.

È chiaro che l’insieme delle questioni che concernono le relazioni tra scuola-lavoro non sono né ascrivibili né risolvibili esclusivamente nelle politiche scolastiche e meno che mai in una Riforma. Esse pertengono il piano economico e politico generale e fanno riferimento a specifiche concezioni del mondo e dei rapporti di produzione. Tuttavia, in virtù della sua funzione sociale, la scuola dovrebbe partecipare attivamente al dibattito e avere la forza di proporre una sua autonoma visione.

In relazione a questo, Il Capolavoro ci aiuta a individuare il limite del discorso mainstream sulla scuola che fa perno, appunto, su una accezione quantomeno riduttiva del termine, che invece è usata come se fosse l’unica possibile, rivelandone così il carattere mistificatorio.

In questo senso, il termine lavoro rientra in un ideale vocabolario di parole da ri-semantizzare, insieme ad esempio a “competenze o “inclusione”, il cui senso è stato semplificato, destoricizzato e naturalizzato nel nuovo discorso sulla scuola.6

Promuovere, come fa questo manuale, una visione articolata del lavoro, inserendolo nel complesso delle dinamiche storiche e culturali, significa quindi attivarsi rispetto alla logica egemone, contribuendo a costruire un discorso critico sul presente.

Attraverso i tre tomi del libro il tema lavoro recupera il significato e le valenze, anche contraddittorie, che esso ha assunto nella storia e nelle vite degli uomini: condanna, sfruttamento, schiavitù, ma anche impegno, lotta, trasformazione e acquista una dimensione olistica, che entra in contraddizione con la visione parziale e strumentale che di fatto ha nel discorso attuale.

In quest’ottica, formarsi non significa acquisire competenze da scambiare o da mettere a profitto in questo o quel settore, meno che mai imparare a svolgere mansioni. Per queste cose del resto esistono i corsi di formazione professionalizzanti post-diploma e post-laurea e gli apprendistati. Ma sviluppare una cultura del lavoro che aiuti ragazze e ragazzi a leggere il mondo nel quale viviamo, a individuare le regole e le contraddizioni della società e quindi anche del mondo del lavoro iper-precarizzato che li attende e a costruirsi una propria e alternativa idea, in cui chiaramente sia sviluppata una consapevolezza dei diritti, che potrà consentire, domani, quantomeno di misurare lo scarto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che sarà.

In questa prospettiva, il problema del Pcto diventa strutturale, in quanto il lavoro in esso è ridotto a cumulo di mansioni e procedure. Ci sarebbe poi da dire che i Pcto spesso non realizzano nemmeno l’obiettivo dichiarato. Le esperienze esterne in azienda e quelle interne con gli imprenditori o gli esperti del settore, spesso non hanno reale incidenza in termini di formazione lavorativa, in quanto le ore svolte, anche le 210 dei Professionali, si rivelano troppe per essere sottratte alle lezioni ma troppo poche per inserirsi realmente in officina, in fabbrica o in ufficio. Il dispendio di energie da parte delle scuole è inoltre eccessivo e in genere molto poco remunerativo per i docenti che se ne occupano. Tuttavia, il Pcto ha un grande impatto ideologico e studenti e famiglie premono affinché abbia un carattere quanto più pratico e fattivo possibile. Lo sforzo spesso profuso da parte delle scuole di cercare di migliorarne l’efficacia e mitigarne gli effetti negativi si rivela se non sempre inutile, comunque inefficace, in quanto nella relazione scuola/azienda lo spazio per il discorso educativo, quando c’è, è marginale. Di conseguenza, anche la migliore delle esperienze di Alternanza si configura per lo più come tempo sottratto alla scuola e quindi a un progetto di crescita, a cui la scuola non dovrebbe rinunciare, come invece troppo spesso accade. A fronte quindi di un enorme impegno profuso, in termini di tempo, fatica, ore di lezione e di lavoro si assiste a una progressiva de-responsabilizzazione dell’istituzione scolastica sul progetto educativo generale.

Da questo punto di vista va quindi letta pure la questione del recupero di alunne e alunne a rischio di abbandono attraverso percorsi di inserimento diretto al lavoro, considerando anche quelle e quelli che pur avendo superato i 16 anni non hanno concluso il ciclo di istruzione e a volte nemmeno l’obbligo. È evidente infatti che percorsi drop out, Iefp o i vari corsi formazione rappresentino una reale alternativa alla “strada” e alla definitiva marginalizzazione dei ragazzi e ragazze ormai persi alla scuola. Ma al di là dell’emergenza c’è un problema di prospettive e di scopi. La formazione delle e degli adolescenti, anche quella lavorativa, dovrebbe essere sempre finalizzata alla crescita e indirizzata pedagogicamente e per tanto non può essere sottoposta alle esigenze delle aziende. Diversamente si chiama apprendistato oppure sfruttamento.

La questione andrebbe certo affrontata a monte e anche fuori dalla scuola poiché, come suggeriscono i dati, l’abbandono è figlio innanzitutto delle disparità economico-sociali e territoriali e tende a riflettere tutti gli squilibri del mondo esterno.

Nella loro premessa, Bellina e Garzi propongono Il Capolavoro come strumento per qualificare le attività di Pcto. Per quanto questo non sia un obiettivo da poco e data la situazione nella quale di fatto si realizza la scuola-lavoro, certamente necessario, tuttavia le discussioni che il libro stimola portano a superare l’idea dell’Alternanza e a spingere per la sua abolizione. Cambiare totalmente rotta rispetto alla normativa vigente non deve significare rinunciare in classe ad occuparsi di lavoro, che anzi per i docenti potrebbe costituire l’occasione per riflettere sul ruolo che la scuola potrebbe avere nel mondo e sul proprio mandato e scegliere se essere funzionari burocrati e quindi limitarsi a certificare abilità e competenze o essere insegnanti e quindi contribuire a difendere, rifondare e sviluppare una funzione educativo-pedagogica della scuola.

Note

1 L. Giustolisi, Educare allo sfruttamento, far fruttare l’educazione, in «L’Ospite ingrato», 3/4, 2018, Il lavoro della letteratura, pp. 111-128.

2 F. Antonelli, I professionali e il rapporto scuola/lavoro, in «Gli Asini», 15 febbraio 2022; P. Causarano, Morire lavorando, morire studiando, in «Società italiana di Storia del lavoro», aprile 2022. Rimandiamo in generale agli articoli de «Gli Asini» che si sono occupati del tema scuola/lavoro.

3 Rimandiamo a A. Reccia, M.V. Tirinato, Oltre il bivio. Strumenti per un discorso su scuola e insegnamento, in «L’Ospite ingrato», 9, 2021, Scuola, la posta in gioco, pp. 1-17.

4 L. Bellina, S. Garzi, Il Capolavoro. Un percorso storico-letterario sul lavoro per il triennio della scuola secondaria di secondo grado, Roma, Edizioni Conoscenza, 2021.

5 Valga, in generale, la lettura di R. Casciola, Ciclo di audizioni sul tema della dispersione scolastica, Autorità garante per l’infanzia e adolescenza, giugno 2021.

6 È stata al centro della discussione del Tavolo pedagogia e didattica di Priorità alla Scuola la necessità di ri-semantizzare o anche sottoporre a verifica alcune delle parole-chiave su cui si costruisce oggi il senso di scuola. Il Tavolo si è configurato come un gruppo di discussione e auto-formazione a partire dai temi della valutazione, a cui hanno preso parte docenti di ogni ordine e grado, qualche genitore e una studentessa. Il documento che riassume e presenta il lavoro svolto è in attesa di pubblicazione.