I.
Nella filosofia al relativismo non è mai stata riconosciuta una vera rilevanza, anche se tratti di una mentalità ad esso affine si possono ricavare, qua e là, da qualche aspetto non di primaria importanza di questa o quella corrente di pensiero di cui è intessuta la sua storia. Tale nozione è stata, di solito, considerata come il frutto di un’indebita generalizzazione se non addirittura come il portato di una visione grossolana, in grado di produrre solo sterili paradossi logici o sofismi tali da trovar sbocco in conclusioni auto-contraddittorie. Del diffondersi di una mentalità definibile come relativistica, si può parlare facendo riferimento ad un periodo a noi vicino.
Giovanni Jervis, che ha scritto di recente un vivace pamphlet intitolato Contro il relativismo,1 sostiene che il fenomeno comincia a manifestarsi nella seconda metà del Novecento, per raggiungere un rilevante successo negli ultimi due decenni del secolo. Negli ultimi vent’anni di quest’ultimo si sarebbe data, quindi, qualcosa di simile ad una vera e propria età del relativismo, che attualmente comincerebbe a fornire di sé i primi segni di declino. Un secolo intero si sarebbe chiuso, così, in pieno disorientamento, ma anche in una sorta di elettrizzata euforia, quasi a volersi disfare dei suoi molti fardelli, per spegnersi, alla fine, in una specie di farsa filosofica.
Per Jervis è legittimo parlare di un’era del relativismo la quale rappresenta la secca e risoluta antitesi dell’epoca dell’illuminismo, che è stata la vera e propria bestia nera dei fautori del post-moderno, i quali hanno voluto in primo luogo disfarsi delle «grandi narrazioni», cioè di quelle mitologie di stampo prevalentemente «progressistico» di cui s’è nutrita la modernità e che i postmodernisti reputavano di essersi lasciata, una volta per sempre, in una sorta di azzeramento, alle spalle. Uno spirito iconoclasta animava i postmodernisti, i quali, in nome di una leggerezza da riconquistare, sembravano decisi a sbarazzarsi di tutto quello che poteva inquietarli, forse perché inclini, prima di tutto, a far buon viso a cattivo gioco. L’uso reiterato anzi il vero abuso del prefisso «post» cui si sono mostrati inclini costoro nell’incollare tale prefisso al maggior numero di parole possibile (post-storia, post-politica ecc.ecc.), nel farne il loro tic per eccellenza, è la principale spia del loro modo di pensare. Viene da chiedersi se la moda del post-moderno, a lungo veicolata dai mass-media, che sembra mostrare segni di un declino, stia recando con sé anche l’entrata in crisi di quella mentalità relativistica che da essa è stata, certamente, alimentata, ma che con essa non si esaurisce. Se il post-moderno comincia a mostrare le proprie crepe, suscitando reazioni di senso contrario, dando risalto agli aspetti sofistici di un fenomeno culturale che, a causa degli eccessi e degli abusi che ha provocato, ha lasciato dietro di sé stanchezza e nausea, non sembra, però, davvero che la mentalità relativistica sia destinata a trovare nell’esaurirsi di tale fenomeno la propria fine. Semplicemente, una siffatta mentalità, a mio avviso persistente, sta mutando i propri connotati, rinunciando ai suggestivi rivestimenti para-filosofici che, in precedenza, s’era data. Perso il proprio allettante involucro spiritualistico, il post-moderno non funge più da veicolo del relativismo, il quale preferisce darsi un aspetto meno suggestionante, alleandosi con il buon senso, diffondendosi in veste più dimessa. Alla crisi della metafisica e a quella dell’umanesimo segue l’esigenza di una cultura post-filosofica, che si esplica in una loquacità scombussolata, che tende a smorzare i toni, a non prendere davvero sul serio niente e a ridurre – sulla spinta dei mass-media – ogni cosa a mera chiacchiera.
Maurizio Ferraris, che a lungo è stato, da noi, sulla scia di Vattimo, forse il più entusiastico fautore del post-moderno, ha di recente riunito in un volume i numerosi saggi che, in precedenza, aveva dedicato a tale argomento,2 facendoli seguire da un’appendice in cui, in una breve confutazione di quanto sostenuto in precedenza (facendo sfoggio di un’amabile auto-ironia, frenata da un pizzico di pietas nei confronti del se medesimo di un tempo), il post-moderno appare come una strada sbarrata, ma viene, nel contempo, rimpianto come un’avventura in fondo seducente tale da indurlo «alla ricerca del tempo perduto». Egli ci confessa che nei primi anni Novanta incominciò a dubitare di un’ermeneutica per la quale non ci sarebbero fatti, ma solo interpretazioni. Dopo aver sentito Gadamer pronunciare per l’ennesima volta che «l’essere che può venire compreso è linguaggio», che altri si affrettavano a tradurre in «il solo essere è linguaggio», o nella formulazione di Derrida «nulla esiste fuori del testo», venne assalito improvvisamente dallo stupore e si chiese – si trovava in quel momento a Napoli – come mai si potesse sostenere che il Vesuvio non esistesse fuori del testo. Da ciò una vera e propria conversione, che l’ha indotto a fissare il proprio sguardo sull’inverso dell’ermeneutica, cioè sulla percezione, sulla realtà fisica, sui fatti e sugli oggetti che non si costituiscono nel linguaggio. Ciò cui approda Ferraris, al termine dei dubbi di fondo che lo aggrediscono nella sua insonne notte napoletana, è un sano buon senso che lo accerta della realtà del mondo fisico, di quel mondo, cioè, tanto spesso e volentieri trascurato dai filosofi. Egli riscopre così il realismo ingenuo, che a chiunque di noi s’impone prima di qualsiasi concezione. Si tratta del buon senso che ci persuade che – stringi stringi – montagne, fiumi, corpi umani e animali, in quanto oggetti fisici, esistono nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti che li conoscono, anche se questi possono averli fabbricati, come nel caso di artefatti (sedie, cacciaviti). Agli oggetti fisici, va detto, sì, che sono da aggiungere quegli ideali (numeri, teoremi, relazioni), i quali esistono fuori dello spazio e del tempo, e indipendentemente dai soggetti che li conoscono, ma che, dopo averli conosciuti, possono socializzarli. Gli oggetti sociali, a loro volta, non esistono come tali nello spazio, ma possiedono una durata nel tempo. Anch’essi esistono perché gli uomini credono che essi esistano, non per questo, però, sono soggettivi, come non lo è il danaro che non cessa di valere di più per il semplice atto di volontà di chi decide che non debba avere più valore.3
Non c’è da stupirsi se a Ferraris le tesi del post-moderno, da lui un tempo propagandate, si rivelino ora come delle assurdità; veri e propri vaneggiamenti destinati a dissolversi al risveglio da un’ubriacatura. Lungi da me la tentazione di sottovalutare un tale risveglio e la diffidenza cui esso induce nei confronti delle esaltazioni apportate dai febbrili scatenamenti di un intelletto che ha perso la bussola. Il donferrantismo va comunque avversato. Non v’è riflessione gnoseologica, per raffinata possa essere, che non prenda l’avvio da quel realismo ingenuo di cui Ferraris tesse, non senza buone ragioni, l’elogio, al quale tutti, del resto, ci atteniamo quando siamo alle prese con la vita quotidiana, quando, per esempio, ci accingiamo a salire su un tram. Che poi di un siffatto prima, i filosofi siano soliti, troppo spesso, dimenticarsi per affidarsi a voli senza ritorno, è indubbiamente un fatto il cui persistere può giustificare le punte polemiche del Ferraris ravvedutosi. Il semplice buon senso è giusto rivendichi i propri diritti. Ed è giusto, altresì, li rivendichi anche quel senso comune, che molto spesso viene – a differenza del buon senso – richiamato con una punta boriosa di dispregio. Ma ciò che segue a un tale avvio non viene in alcun modo aiutato a muovere dei passi in avanti. L’ebbrezza del post viene, sì, esorcizzata, ma alla filosofia è concesso talmente poco che qualsiasi impresa del pensiero viene scoraggiata in partenza. Ciò che deriva da tale recisa reazione agli eccessi del pensiero scoraggia ogni ambizione che osi proporsi di andare al di là della mera (pretesa) elementare evidenza dei fatti allo stato brado o delle convenzioni accettate o imposte come immediatezza all’interno di una determinata società. Il pre-filosofico blocca ogni svolgimento del pensiero, scoraggiandone ogni ardimento. Un pre che si atteggia a evidenza schiacciante finisce per risultare non meno opprimente del post tanto amato dai post-modernisti. Va detto inoltre che si resta, in tal modo, entro il cerchio di quella cultura post-filosofica che, liquidando ciò che le sta alle spalle, nel momento stesso in cui pretende di mantenerne la presenza presso di sé, finisce per ridurlo a mera innocua conversazione, a svago e ad intrattenimento. Non solo per il relativismo, ma per lo stesso post-moderno, ci si può chiedere se esso venga, in tal modo, davvero abbandonato. L’idea della superfluità o addirittura della completa inutilità del filosofare in ogni possibile sua forma tenacemente permane. E in tale trionfo dell’ovvio, che si vuole abbia sempre partita vinta contro le scommesse del pensiero, che ne è di quello stupore che per i greci si situava, come potente stimolo, all’origine stessa del filosofare? Tale implacabile esercizio del buon senso intimidisce e deprime a tal punto il pensiero da ridurlo ad un innocuo giochetto di società. Paventandone la tendenziale boria, lo si riduce al rango di un mero passatempo. Il pericolo latente più insidioso di questi che, in definitiva, appaiono come esercizi di più o meno garbata liquidazione, è un atto di abdicazione nei confronti degli specialismi scientifici, cui viene concessa in esclusiva la prerogativa della serietà. L’esito paradossale delle tendenze, fustigate da Jervis, volte a liberarsi di ogni soggezione nei confronti della scienza fino a togliere legittimità ad ogni modo di procedere che s’impegni ad attenersi a un qualsivoglia criterio di scientificità, si rovescia nel proprio contrario, cioè in una candida apologia dello scientismo (non senza regressioni a forme rozze di positivismo che si poteva supporre fossero finite da un pezzo).4
Se Ferraris si limita a richiamarci a quell’ovvio di cui di solito ci si sbarazza con soverchia fretta, nell’onesto intento di preservare i filosofi dal ridicolo cui si espongono nelle loro sbornie, Jervis – per quante buone ragioni possa avere nel prendersela con il post-moderno – non si limita a questo, ma compie – a mio avviso – un pericoloso passo in avanti: contribuisce a fare della scienza quel feticcio di fronte al quale si genuflette servilmente la quasi totalità della comunicazione massmediale che ci piove addosso in questo sfortunato periodo, ossessivamente, da ogni parte. E disegna un quadro privo di ombre della scienza moderna sboccante in una vera e propria indiscriminata apologia di una modernità intesa in senso assiologico, dalla quale tende a scomparire ogni aspetto problematico e ogni ambiguità, ripristinando la vetusta nozione di un progresso che si poteva supporre fosse ormai da relegare tra i fantasmi. Ogni drammaticità viene espunta, così, in ultima istanza, dallo sviluppo di un mondo moderno che mira ad identificarsi con le acquisizioni vincenti dell’Occidente capitalistico. Questo, altresì, obbliga Jervis a proclamare la superiorità dell’Occidente stesso rispetto a civiltà che con esso non hanno saputo (o voluto?) procedere di pari passo. È per questo che egli non può esimersi dal chiederci scusa per aver dato, a suo tempo, il proprio consenso al ’68 e dal compiere una serie di acrobazie per giustificare la propria giovanile meritoria collaborazione con Ernesto De Martino.5
Jervis individua il nerbo della mentalità relativistica, ciò che la rende essenzialmente tale, in un atteggiamento negativo verso la scienza, che la induce a svalutare le verifiche, i dati sperimentali, le statistiche, i modelli, le valutazioni di probabilità e così via. Ne deriva per lui che il relativista manifesta la propria ostilità verso tutto ciò che ambisce all’oggettività e all’universalità. E sarebbe proprio questo a indurlo a quello che appare come il passo fatale in cui si svela la pericolosità del suo atteggiamento: non si darebbero criteri universalmente validi per separare la verità dalla menzogna. L’amore per le particolarità e per le eccezioni, che è insito in tale mentalità, reca con sé fenomeni come la moda del multiculturalismo e dell’antiglobalismo e la sfiducia nel carattere universale dei principi giuridici può mettere a rischio la convinzione che la politica dei governi debba rispettare le regole del diritto internazionale.
Non c’è da stupirsi se, sulla base di una tale impostazione, Jervis, manifestando una simpatia di fondo per l’illuminismo, non esiti a istituire una contrapposizione secca tra l’Illuminismo stesso e il Romanticismo, che in qualche modo ricorda discorsi di stampo razionalistico consueti negli anni Cinquanta dello scorso secolo.6 L’illuminismo viene esaltato per aver spianato la strada alle forme della democrazia moderna e alla scienza e alla tecnica così come oggi sono conosciute. Ne deriva la valorizzazione degli apporti di alcuni paesi – Francia, Inghilterra, America –, agli sviluppi della ragione, al progresso scientifico e all’affermarsi di saldi principi laici. All’Italia viene rimproverato di non essere riuscita a stare al passo dei paesi più evoluti. Nonostante non mancassero, qui, grandi figure di illuministi, come Beccaria, Verri, Cattaneo, «i nuovi ideali razionali e progressisti non estesero la propria influenza al di là di limitati ambienti della borghesia urbana e non ebbero, in pratica, alcun effetto sul costituirsi della cultura politica post-unitaria: con le conseguenze che ancora oggi è agevole constatare».
Siamo al ben noto motivo del ritardo dell’Italia negli ultimi secoli, delle sue inadempienze nei confronti della modernità, dell’isolamento della cultura italiana dal resto del mondo (evoluto), in definitiva della sua «arretratezza» che ancor oggi, per aspetti decisivi, risulterebbe dal confronto soprattutto con i paesi anglosassoni. Ricordo quanto forte fosse il fastidio di Franco Fortini per tale mentalità, che s’è ripresentata con ossessiva ricorrenza inducendo a forme di razionalismo astratto e di scientismo. Mentre la Francia, per oltre un secolo dopo la Rivoluzione, dovette difendere la democrazia laica dall’ostilità della Chiesa cattolica, in Italia l’influenza, giudicata in definitiva nefasta, di quest’ultima avrebbe frenato ed ostacolato, in ogni sua possibile forma, il processi di modernizzazione, distorcendone lo sviluppo e bloccandolo in una situazione di subalternità nei confronti del Vaticano, che nemmeno lo stato unitario sarebbe riuscito sul serio ad intaccare. Si innesta qui il celebre motivo dei guasti che sarebbero stati arrecati al paese dalla mancata Riforma protestante. La mentalità, che ha in sé alle origini una siffatta convinzione, ha ripreso di recente forza, riproponendo vecchi adagi, che si sarebbero potuti considerare ormai consunti, in nome di una mitica «laicità» e di convinzioni di stampo più ottocentesco che novecentesco, nel cui orizzonte la corda anticattolica vibra con particolare intensità. Jervis a tale ripresa di motivi anti-cattolici mostra di aderire con convinzione. A suo giudizio il Vaticano sta assumendo, in questo momento, un peso crescente e si pone come un massiccio ostacolo all’affermarsi di un’etica civile largamente diffusa e – come piace dire oggi – «condivisa». Anzi egli va oltre: sostiene senza incertezze che attualmente il nemico del benessere, della civiltà, del progresso sia da individuare nelle religioni, nel loro «integralismo» e nel fondamentalismo cui ricorrono. Qui, evidentemente, si riferisce alla presenza crescente dei musulmani in Europa, in cui fiuta un grosso pericolo, aggravato, nel nostro paese, dal fatto di avere una Chiesa cattolica intollerante e a suo avviso addirittura anti-democratica. Se quello musulmano è un potere politico-religioso fondamentalmente intollerante – e in altri paesi europei ciò sta provocando forti reazioni – in Italia la situazione è particolarmente delicata per il fatto che, a suo avviso, il Vaticano ha una posizione molto simile a quella dell’autoritarismo islamico, anche se con un grado minore di immediata pericolosità.
Appellandosi all’empirismo e all’ottimismo tecnologico «occidentale», cioè alla concezione apologetica di una modernità priva di ombre, Jervis fa professione di illuminismo, avallando, di questo, una versione idillica e limitandosi in poche pagine a far menzione di quel pensiero critico-dialettico-negativo cui aveva dimostrato una quarantina d’anni fa una ben maggiore attenzione. La Dialektik der Aufklärung non sembra attualmente turbare minimamente i suoi sonni. La tradizione culturale europea con tutta la sua complessità e con tutti i suoi inestimabili tesori – ammesso si possa parlarne al singolare – viene così semplificata fino a ridursi alla contrapposizione tra scienza (veicolo immancabile di progresso) e religioni, di per sé «oscurantistiche» (tenace ostacolo al progresso medesimo). L’esito di un tale risoluto semplificare, che sbocca nell’elogio dell’empirismo di stampo anglossassone, è un’epistemofilia che riprende la sua battaglia contro facili avversari di comodo. Il lato più curioso delle fantasie illuministiche di tale fatta è che esse sembrano essere maggiormente vicine proprio a quell’allegro relativismo oggi in voga che a una severa rivendicazione del ruolo insostituibile, per una cultura degna di questo nome, della verità.
Ma c’è un altro vistoso inconveniente da considerare: accentuando il legame tra scienza e democrazia, ignorando le insidie della prima, connessa ormai indissolubilmente ad uno sviluppo tecnologico sempre più incontrollato, la visuale s’offusca, ci si caccia in una serie di giri viziosi e di contraddizioni lanciate a briglia sciolta, e i pericoli che la prima comporta per la seconda vengono persi completamente di vista con la conseguenza di fomentarli.
La ripresa di motivi illuministici nel secondo dopoguerra – fenomeno, certo, degno di considerazione e di rispetto – ha recato con sé alcuni inconvenienti. Il primo di questi è da individuare in una preferenza unilaterale accordata alla tradizione politica anglosassone rispetto a quella di matrice continentale, nella quale, spesso, si è voluto riconoscere la presenza di aspetti torbidi ed ambigui o addirittura di motivi di stampo reazionario. A farne soprattutto le spese è stato il romanticismo. La disfatta della Germania nazionalsocialista ha giocato un ruolo di rilievo. La responsabilità della catastrofe tedesca è stata individuata nella preminenza di tendenze ostili al razionalismo. Ne è derivata un’incomprensione dei caratteri peculiari dell’Aufklärung. La Germania avrebbe imboccato una strada sbagliata che l’avrebbe portata non solo ad estraniarsi dal meglio che è stato prodotto dagli altri paesi europei, ma a manifestare una ostilità di fondo nei confronti del liberalismo e della democrazia, alimentando, in tal modo, confuse ideologie che avrebbero trovato il loro sbocco in tendenze, inclini ad una chiusura provinciale, autoritarie o addirittura favorevoli a esiti di tipo totalitario. Quattro o cinque secoli di storia tedesca sono stati, di conseguenza, posti sul banco degli imputati, facendo spesso d’ogni erba un fascio. Semplificazioni indebite e deformazioni sono state ampiamente favorite da un siffatto orientamento demolitorio. Grande merito di Thomas Mann, durante il periodo dell’emigrazione, è stato di difendere a spada tratta il romanticismo quando si era soliti cogliere in esso i germi dissolutori che, sviluppandosi, avrebbero condotto la Germania al disastro. Il rapporto tra illuminismo e romanticismo è stato da lui sottratto a qualsiasi tipo di contrapposizione rigida tra i due momenti. Non per niente ha auspicato l’avvento di un nuovo illuminismo, di un illuminismo passato attraverso il romanticismo. Oggi si sa – o si dovrebbe sapere – che non giova presentare queste due grandi correnti nella chiave di un secco antagonismo. Questo proprio per consentire una comprensione più adeguata degli ultimi due secoli di storia.
Per una ventina d’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale prevalse la tendenza a gettare – una volta posti in salvo Goethe e Kant – un’ombra di sospetto su gran parte dell’eredità culturale tedesca, senza risparmiare, spesso, perfino la rivoluzione religiosa del XVI secolo. Ma il secondo dopoguerra ha mostrato di respingere una tale inclinazione a mettere ai margini un’intera tradizione culturale. L’unità europea, stimolando la ripresa del vecchio continente, s’è indotta, infatti, a por fine a quel conflitto franco-tedesco che ci ha tormentati per quasi due secoli. Oggi è impossibile pensare ad un qualsiasi futuro dell’Europa che non riconosca, accanto a quello della Francia, il ruolo preminente alla Germania all’interno di un nuovo ordine europeo capace di evitare per sé una posizione puramente subalterna nei confronti degli Usa.
La nozione indifferenziata di Occidente conviene venga abbandonata. Essa, infatti, sta all’origine di non pochi equivoci. Gli Usa non sono un’appendice dell’Europa, sviluppatasi fino al punto di rovesciare il rapporto che la teneva legata, come realtà coloniale, alla vecchia Europa. Gli Usa sono una civiltà a sé stante, con caratteristiche sue peculiari, molto diversa da quella europea, tendente all’egemonia, prima di tutto, per i rapporti di forza messi in atto dal suicidio dell’Europa celebratosi (anche se, per fortuna, non condotto alle estreme conseguenze) da quelle guerre del Peloponneso della modernità che sono stati i due conflitti mondiali. I pellegrini che cercavano, fuggendo le crudeltà dell’Europa, i suoi conflitti di classe, le sue ingiustizie sociali e le forme di oppressione che essa riservava ai suoi figli, una seconda patria o meglio l’inizio di una nuova vita nel continente americano, avevano ben chiaro ciò da cui volevano liberarsi. Gli Usa si sono costituiti come grande potenza non per riunirsi all’Europa, ma per porsi contro di essa. Hanno inizialmente fatta propria la via dell’isolamento per crescere, come qualcosa di diverso e di originale, per conto proprio, subendo altresì la fascinazione di mondi estranei alla storia europea. Le vecchie élites provenienti dall’Europa, hanno, certo, alimentato la nostalgia per la cultura che era stata loro e lo sforzo conseguente di ritrovare con il continente da cui provenivano (da cui erano fuggiti) nuovi legami, ma tali tendenze hanno mostrato di prevalere solo a tratti, in ben determinati momenti storici, per poi cedere a tendenze opposte, che spingevano la civiltà americana verso nuove avventure, piegando il vecchio mondo ad un destino di dipendenza, cercando di tenerlo avvinto al proprio peculiare modo di vita, all’American way of life, sforzandosi di colonizzare il proprio antico colonizzatore. Se è ragionevole sostenere l’auspicabilità di un buon rapporto (d’alleanza) tra le due sponde dell’Atlantico, è necessario prima di tutto aver ben presente, in tutta la loro portata, le differenze che intercorrono tra le due sponde in questione.
Conviene, in genere, diffidare di ogni forma di rettorica che miri ad esaltare l’Occidente, annegando in esso le differenze che distinguono – e devono continuare a distinguere – il nuovo dal vecchio mondo. Questo per evitare non poche pericolose confusioni. Del resto, le differenze scompaiono solo se al centro dell’attenzione si pone prepotentemente, fino a condannare alla sparizione tutto ciò che gli si pone come altro, quello sviluppo tecnologico, avvertito come fosse qualcosa d’ineluttabile, come un destino, al cospetto del quale la subalternità dell’Europa alla civiltà americana, la quale le si è imposta in modo schiacciante dall’esterno, non è, in alcun modo, evitabile. La superiorità dell’America da questo punto di vista non può, in alcun modo, venir messa in discussione. Il modello sociale americano è estraneo alla civiltà europea e può, solo, sussumendola a sé, alterarne i tratti essenziali, depauperandola dei suoi aspetti migliori e deformandola. Il trionfo dei mass-media e le forme di comunicazione adulterata che essi impongono, creano un vuoto alle spalle degli europei, li sradicano dal loro passato, impediscono loro di aprirsi ad un futuro che non risulti in contrasto con le speranze da loro nutrite nel corso travagliato della loro storia.
II.
Oggi, se si guarda alle varie espressioni artistiche coltivate nei vari paesi europei, in modo sempre più simile l’uno rispetto agli altri, sulla spinta di mode prefabbricate il cui effetto principale è di un appiattimento pressochè totale, ci si accorge subito che i modelli cui esse si attengono sono quasi sempre nordamericani. Ciò che si intendeva, nei paesi europei, come alta cultura è in fase acuta di deperimento; sembra addirittura in via di sparizione, a tutti i livelli. Le vecchie e gloriose università europee sembrano pallide copie deformate di quelle poche università americane, sorgenti come cattedrali nel deserto, in cui viene artificialmente prodotto qualcosa di simile a ciò che un tempo veniva riconosciuto come alta cultura, di cui sembrano mantenere le fattezze, le quali mostrano di saper ottimamente convivere con le forme più degradate di cultura, in una perversa mescolanza di alto e basso, di buono per tutti gli usi e per tutti i gusti, che sempre più, nel trionfo del patchwork, sembra rendere l’idea di un gigantesco super-market teso ad assorbire in sé il mondo intero ridotto a realtà simulata. Tutto ciò infonde un senso opprimente di asfissia. Si è parlato qui sopra di mescolanza di alto e basso (mescolanza che avrebbe, in sé, qualcosa di blasfemo). Ma conviene correggerci. La cultura, ridotta a monstrum, che ci incalza e ci impedisce di respirare liberamente, non consente all’interno di sé distinzione alcuna. Nell’apparente trionfo dell’eterogeneo, è ravvisabile una monotonia deprimente. È condivisibile quanto scrive, in un suo recente libretto, Goffredo Fofi a proposito delle distinzioni: «Non vale più quella tra “cultura alta” e “bassa”, risucchiate entrambe dalla “cultura media” prodotta, e diffusa e consumata, e recensita sui giornali e studiata all’università dall’immenso “ceto medio”, che nei paesi ricchi è “il ceto”».7 Fofi è persuasivo quando dice che, ai margini «alti», i super-ricchi sono culturalmente la stessa cosa dei «medi», mentre, ai margini «bassi», non c’è più il «popolo», «ma solo miseria e disastro, colonizzati da media voraci, miseria e disastro incapaci di produrre, da soli, cultura».
Alto e basso sapevano un tempo alimentarsi a vicenda. Oggi il medio che li ingoia con furia onnivora sfigura e imbruttisce tutto: degrada l’alto, nel fingere di rendergli omaggio, e condanna all’abbrutimento completo ciò che si situa, tristemente, ai margini bassi. Questo viene giudicato da coloro che si ritengono i più furbi, e che sono invece i più inermi nei confronti del processo d’istupidimento generale in atto, come un segno di piena «democrazia». Nell’insopportabile linguaggio dei politici l’equivalente del «medio» è il «centro », il cui accostamento ai vetusti ed esausti termini «sinistra» e «destra» assume un valore di fattore «legittimante».
L’arte, di solito, viene accostata alla comunicazione, anzi si tende a far sì che i due termini facciano tutt’uno. Qui si cela la più grossa mistificazione. La comunicazione, oggi, infatti, non è più in grado di comunicare alcunché. Immerge tutto in qualcosa di indistinto, in una pappa in cui tutto si confonde, in cui, nell’impressione del contrario, ogni cosa piomba nel buio più completo. L’arte è in grado, in qualche modo, di preservare se stessa, solo se si pone come l’acerrimo nemico di una comunicazione onni-pervasiva che non comunica più e condanna all’afasia coloro che vi si immergono, riducendola a rumore.
L’unica distinzione cui sarebbe giusto mantener fede, costi quel che costi, sarebbe quella di arte e merce. Su questo, come sul punto essenziale in cui collocarsi fermamente e da cui non arretrare, si dovrebbe non transigere. Ma è proprio tale accanimento estremo a venir maggiormente sconsigliato nell’attuale frangente. Società e mercato vengono oggi considerati termini equivalenti, addirittura interscambiabili. Se le opere che dovrebbero essere definite artistiche (e che magari riescono, non si sa bene più come, a rimaner tali) vengono equiparate a merci, e se appare non solo lecito, ma addirittura consigliabile, usare nei loro confronti una terminologia di tipo commestibile, questo è avvertibile nel linguaggio corrente non come il segno di un demerito, ma viene elargita quasi fosse una lode, forse la più ambita delle lodi possibili.
L’industria culturale s’è insediata saldamente al posto dell’arte, fino al punto di ridurre questa a mera arretratezza, ad un residuo arcaico da liquidare alla svelta. L’industria culturale ambisce a ben altre raffinatezze rispetto alle quali quello dell’arte è un balbettio stento. La sofisticazione dell’arte massificata trova il proprio modello in quella tecnologia che ambisce ad attrarre a sé, elevandola al proprio livello, forme artigianali sull’orlo ormai della propria estinzione. La tecnologia, elevando a sé l’arte, convertendosi essa stessa in arte, depurandola della sua rozzezza, le assicura una degna morte, una vera e propria eutanasia. Un ceto medio dallo stomaco di struzzo ingerisce beatamente tutto, esultando per la generosità che gli mette a disposizione merce impostale come altamente pregiata, la quale sembra assicurargli una sorta di «promozione sociale», che lo illude, magari per un attimo solo, di essere diventato un’«élite». Lo snobismo di massa crea differenziazioni artificiose che stanno alla base della credenza per cui, in una simile situazione, sia possibile prender parte a veri «dibattiti culturali». La comunicazione corrente la fa da padrona. La televisione diventa il luogo onni-abbracciante ed onni-caratterizzante di qualsiasi tipo di discorso: il modello dei dibattiti, delle tavole rotonde, delle dispute politiche e culturali. Una macchina tritacarne che consuma qualsiasi cosa a tempo di record, ingenerando nausea e crescente senso d’impotenza. Sarebbe interessante esaminare gli effetti dell’azione esercitata dalla televisione (la quale non si ferma mai e dà luogo ad una specie di intrattenimento perpetuo, ad un chiacchiericcio interminabile) e da quell’altro – celebratissimo – mezzo che è Internet, il quale consente a coloro che si isolano volontariamente di svolazzare di qua e di là per il vasto mondo convertito in simulazione, di trovarsi nei luoghi più disparati, a proprio piacimento, nel momento stesso in cui, separandosi da tutto, si imprigionano in una stanza, convertendo un’assenza in una tendenziale onnipresenza. Gli effetti composti di tali azioni (la prima con l’apparenza di una contemplazione la seconda assumendo l’aspetto di un fare) potrebbero fornirci più di un suggerimento per tentare qualche previsione sugli sviluppi prossimi e venturi della sfera di ciò cui viene dato il nome di comunicazione.
Se nei paesi ricchi del cosiddetto Occidente questa è la situazione in cui si trovano sprofondati gli individui, c’è da stupirsi se ai loro piedi si spalanca un vuoto che minaccia di inghiottirli? E come ci si può sorprendere se aree intere del mondo condannato alla fame e alla miseria, trovano sempre meno amabile, pur forte restando l’impulso allo star meglio, al raggiungimento di un minimo di benessere, un mondo siffatto? Come non vedere che dal protrarsi di una situazione del genere traggono vita contraddizioni sempre meno sostenibili che, se esplodessero davvero, potrebbero produrre per tutti guai molto seri, di cui le pulsioni suicide e omicide insieme del nuovo terrorismo sul piano internazionale, con cui velleitariamente ci si confronta, potrebbero rivelarsi come semplici avvisaglie?
Ciò che viene, forse impropriamente, definito «terrorismo» non è che il riflesso speculare del nichilismo operante in quella che un tempo veniva esaltata come «società opulenta», rispetto alla quale esso non può costituire alternativa alcuna, non essendo, rispetto ad essa, un opposto, ma il suo rovescio meramente auto-distruttivo. Il rovescio di quella globalizzazione di cui s’è così a lungo blaterato nello sforzo di ravvisare nell’estendersi del mercato sul piano mondiale la premessa per l’avvento della pace perpetua. I paurosi fenomeni prodottisi nell’ultimo decennio segnano l’implosione di un mondo che era stato unificato forzatamente. Gli sforzi, per quanto lodevoli possano apparire, di tener sotto controllo le contraddizioni cieche e tendenzialmente esplosive che stanno stringendo nella loro morsa il mondo, girano in tondo, senza riuscire a venirne a capo. Ci troviamo quanto il più possibile lontani da una temperie che possa definirsi illuministica, le lodi, in questo momento tributate al quale assumono, loro malgrado, un carattere beffardo. Né migliore figura sono destinate a fare le tendenze che attualmente sembrano volgersi in direzione di un neo-liberalismo. I tentativi, ora in voga da noi, di accreditare il liberismo a sinistra lasciano il tempo che trovano. La politica dà oggi l’impressione di una serie di desolanti sforzi simili a quelli di Sisifo. Da per tutto, e in qualsiasi forma tenda a darsi, essa appare come una macchina inceppata. La cosiddetta anti-politica, fenomeno grottesco che in Italia, negli ultimi tempi, ha stimolato dibattiti a catena, può essere in parte il frutto di un’arretratezza persistente del nostro paese, ma non è affatto qualcosa che non sia riscontrabile anche nel clima di altri paesi, magari considerati come felici modelli di virtù esemplari da noi disattesi. Che la politica giri a vuoto e che i problemi che essa dovrebbe vittoriosamente affrontare s’attorciglino su loro stessi e tendano a marcire, è avvertibile dovunque e i pericoli crescono quanto più ci si eleva di livello. La politica non riesce a liberarsi da quel pantano in cui l’ha cacciata la riduzione, da essa subita, a mera amministrazione dell’esistente. Per democrazia s’intende una dittatura dell’opinione pubblica manipolata che legittima ogni forma di demagogia posta al servizio degli interessi dominanti sul piano economico e finanziario. Oggi la politica è al rimorchio dell’economia, che su di essa ha la meglio in tutti i sensi, pilotandola invece di esserne guidata.
Il marxismo, a suo tempo, era stato accusato di ridurre tutto ad economia. Mai accusa fu più infondata. Il marxismo faceva cadere pesantemente l’accento sull’economia spinto a ciò proprio dalla volontà di contrastarne il tendenziale strapotere, per piegarla alla politica, per sottoporla alla soggettività degli uomini decisi a subordinarla a sé. Il trionfo dell’economia sulla politica è, al contrario, il risultato dello scacco del marxismo, del fallimento della rivoluzione da esso promossa. La politica non riesce più a svolgere quello che dovrebbe essere il suo compito. Deriva da ciò il senso, molto diffuso, che essa stia votandosi al tramonto e che i compiti tradizionalmente spettanti ai politici debbano essere affidati ad altri: agli imprenditori, ai manager, agli uomini d’affari, ai finanzieri, a coloro, in genere, che si presentano come operatori economici. Non mi sembra proprio ci si trovi in un revival del liberalismo, come molte persone benintenzionate si accaniscono – meglio si potrebbe dire: si costringono – a credere, forse per cercare, così, di sottrarsi alla disperazione. E meno che mai sono indotto a nutrire l’idea che ci si avvii verso un rafforzamento e allargamento della democrazia, la quale, sempre più, mi sembra simile a una di quelle feste tardo-estive o primo-autunnali che, in Italia, gli assessori alla cultura e gli organizzatori di partito allestiscono per mandare a casa tutti contenti al termine di lunghe chiacchiere autorassicuranti. Se la politica è a mal partito, la cultura si trova in ancora peggiori acque. Invece di confrontarsi con i problemi che la politica non riesce a risolvere, essa non affronta di petto le questioni, ma si accoda al dibattito politico corrente, limitando lo spazio delle indagini che essa dovrebbe saper promuovere ai «soliti discorsi». I problemi seri vengono lasciati ai settori specialistici della scienza, i quali, a loro volta, è difficile dicano qualcosa di nuovo, ma, fedeli al proprio linguaggio, che è simile ad un mostro che si mangia la coda, s’abbandonano senza tregua ai loro ritornelli, eludendo, di solito, le preoccupazioni di quelli che a loro si rivolgono, ritenendoli «esperti», per saperne finalmente qualcosa di nuovo.
Tutto ciò dovrebbe indurre per lo meno alla cautela coloro che oggi si segnalano per lo zelo con cui sostengono per l’ennesima volta l’opportunità di un neo-illuminismo.
La preferenza accordata all’illuminismo rispetto al romanticismo, espressa perentoriamente sulla base di una secca contrapposizione, dettata da ragioni eminentemente politiche, risulta a mio avviso sospetta e, in definitiva, non accettabile per le amputazioni nella storia culturale dell’Europa cui essa si induce. Nell’immediato secondo dopoguerra la diffidenza di fondo per il romanticismo si manifestò con una certa virulenza all’interno delle punte più acute dell’antifascismo, sia di matrice «atlantica» sia di orientamento comunista. Tale diffidenza fu alimentata dal processo che si aprì, dalla parte dei vincitori, nei confronti della Germania vinta. Fu messa alla sbarra gran parte dell’eredità culturale tedesca e si vollero separare le parti considerate «sane» da quelle (ed erano in maggioranza) che sarebbero state infettate da una malattia che, nel suo sviluppo, avrebbe segnato l’Irrweg einer Nation (per citare il titolo del libro di uno stalinista, Alexander Abusch, che ebbe un suo momento di celebrità e fu tradotto e pubblicato da Einaudi nei primi anni cinquanta). Lukács si distinse da tale scadente produzione pubblicistica e poco concesse allo ždanovismo imperante in Russia e nei satelliti dell’orbita sovietica, ma avallò la leggenda negativa dell’«irrazionalismo», il cui marchio ultra-reazionario si sarebbe impresso sulla storta parabola di un capitalismo barbarico che si sarebbe imposto in Germania, con effetti devastanti quando già era in fase di decadenza, entrato nella fase aggressiva dell’imperialismo. Egli salvò Hegel, ma contrapponendolo a Schelling, nel quale volle vedere l’antesignano di quella decadenza che sarebbe esplosa nella seconda metà dell’Ottocento per poi assumere tratti reazionari di micidiale pericolosità nel secolo seguente. L’irrazionalismo incluse in sé gran parte della storia della cultura tedesca, in relazione con gli sviluppi deformi della nazione e con le mitologie reazionarie da essa celebrate. Fu pronunciato, di conseguenza, un verdetto di condanna del romanticismo, del quale anche Lukács sottolineò gli aspetti patologici che sembravano aver spianato la strada all’avvento del Nazionalsocialismo. La Germania «buona» fu ridotta a singoli momenti della sua storia, tutti regolarmente perdenti. La ricerca, spesso tormentata, del percorso verso la modernità, in cui per decenni s’impegnò la cultura tedesca, conscia della peculiarità della propria tradizione, fu bollata come una disperata velleità, votata fin dall’inizio allo scacco, e l’intera vicenda tempestosa del mondo di lingua tedesca finì per risultare deformata. Questo nella dimenticanza di quell’intuizione geniale che aveva indotto nel 1945 Thomas Mann, un mese dopo la fine del conflitto, nella conferenza di Washington sulla Germania e i tedeschi a sostenere che non ci sono due Germanie, una buona (spesso limitata a Goethe) e un’altra cattiva, ma una sola Germania: quella buona andata a finire male. È chiaro che, nel dire questo, Mann era, prima di tutto, spinto dal suo amore per il romanticismo, che aveva difeso con passione nella parte saggistica della sua opera e che era deciso a preservare come uno scrigno di inestimabili valori poetici. Egli, pur nella strenua battaglia contro gli infangatori di tale preziosa eredità, mantenne la propria fedeltà anche a quelli in cui Lukács volle individuare i suoi «cattivi maestri» – Schopenhauer, Nietzsche e Wagner – che Mann stesso mai volle separare e contrapporre all’altro suo «nume», vale a dire all’astro benefico di Goethe.
Il recente libro di Safranski, intitolato significativamente Romantik. Eine deutsche Affaire,8 riprende i motivi della tragedia tedesca per dimostrare come, nel bene e nel male, il romanticismo non sia separabile dalla Germania. Privata a forza del primo, della seconda rimane ben poca cosa, non più di una pallida copia del mondo della Zivilisation. Quanto al nazionalsocialismo, ben più sarebbero da ridimensionare gli entusiasmi di Hitler per Wagner e le farneticazioni naziste secondo cui un autore come Nietzsche, sul quale, tra l’altro, l’impronta illuministica è ben visibile, sarebbe da celebrare come un precursore del Terzo Reich. È evidente, invece, che la cultura degradata che ha dato forza al nazismo è un positivismo deformato da una grossolana divulgazione para-scientifica, da un evoluzionismo da strapazzo sboccato in forme di darwinismo sociale. Un romanticismo, a sua volta ridotto a paccottiglia, è servito al nazismo per racchiudere in un involucro più seducente una brutale e rozza idolatria para-scientifica.
Il romanticismo, che si dice abbia trovato in Germania la propria patria, non è, però, da intendere semplicemente come un «affare tedesco»: esso si impose in tutta Europa, fecondò l’intero continente, nutrì di sé e stimolò le nuove nazionalità in via di affermazione, diede espressione alla volontà di dar vita all’Europa delle nazioni, valorizzò le tradizioni popolari e un passato capace allora di promuovere il risveglio ancora potenzialmente orientato ad un futuro migliore. Gli impulsi volti all’emancipazione sono venuti all’Ottocento non dal solo illuminismo, ma dall’azione congiunta di illuminismo e romanticismo, i quali, per quanto possano essersi combattuti a vicenda, hanno spesso trovato un terreno comune in cui svolgere i propri rispettivi compiti storici. Le tendenze conservatrici, che pure hanno trovato modo di emergere dal romanticismo, e le tendenze monarchiche e restauratrici da esso scaturite, non ne hanno compromesso mai irreparabilmente la spinta propulsiva: hanno solo frenato le tendenze più ingenue dell’illuminismo. La forza del romanticismo non è dissociabile facilmente dalla sua ambiguità, la quale è, essa stessa, come un bene da preservare. Tale ambiguità va di pari passo con il senso dell’irriducibile complessità del reale, che è qualcosa di prezioso in un periodo che ha visto fronteggiarsi schieramenti costituiti da frotte di terribili semplificatori al servizio dei contrapposti blocchi di potenza. Una sensibilità autenticamente romantica è in grado ancor oggi di porre un freno alla tendenza schiacciasassi imperante da per tutto, tesa a livellare, a liquidare il persistere di quei particolarismi che danno colore ed attrattiva al mondo. Una tale sensibilità conferisce energie a ciò che si sforza di mantenere il mondo come qualcosa di ancora seducente, in un frangente segnato da una brutalità scatenata, da un livellamento generalizzato e dal moltiplicarsi inesausto di conformismi ottusi e spesso idioti. È ancora un antidoto per avversare quella bruttezza che sembra regnare indisturbata da per tutto.
Ma il romanticismo va difeso anche e soprattutto in quelli che sono sembrati i suoi difetti e i suoi eccessi, i suoi partiti presi, messi in berlina dal buon senso, le sue vistose esagerazioni; vale a dire quelli che, ai fautori del progresso, sono apparsi come i segnali più vistosi di una mentalità marchiata dall’irrazionalismo. La pedagogia antifascista, che come s’è visto è stata prodiga di manifestazioni di antipatia verso il romanticismo in ogni suo aspetto, indulgendo a forme di storiografia giudiziaria, se l’è presa soprattutto con la fascinazione dell’Oriente, con la predilezione per i popoli primitivi. Certo, eccessi si sono prodotti nel loro venir alimentati da una mentalità incline alla coltivazione di miti, talvolta dimostratisi in effetti perniciosi. Anche qui, però, è da correggere il tiro. L’origine del male va individuata altrove: in quell’industrialismo di stampo capitalistico che ha fatto di tutto, abbandonandosi alla propria ebbrezza «colonizzatrice», per ridurre effettivamente il mondo ad una porcheria. La simpatia per i popoli primitivi può risultare, senz’altro, talvolta, qualcosa di difficilmente digeribile, ma come non vedere che s’è fatto e si continua a fare scempio, nell’ignoranza della loro ricchezza, di culture che dovrebbero almeno venir rispettate?
Le fissazioni e le eccentricità di stampo romantico, anche quelle che possono apparire come le più stralunate, trovano un’almeno parziale giustificazione nel trattamento riservato, in ogni parte del mondo, a quegli aspetti del vivere associato che mantenevano, in qualche modo, una loro «originalità». Si è qualche volta addebitato ai romantici una propensione capricciosa a stranezze ingeneranti comportamenti bizzarri e magari ciarlataneschi non disgiunti da costumi e mode inclini al grottesco. Certe stravaganze dei romantici possono innegabilmente dimostrare una mancanza di senso dell’umorismo. Esse, del resto, hanno avuto modo di dar ostentazione di sé molto di più nei periodi in cui il romanticismo tendeva a ridursi, avvilendosi, a quelle che sono state individuate come mode tardoromantiche in cui erano ravvisabili fenomeni di impoverimento e di declino. Certamente risibile è che si sia dato così grande spazio e rilevanza, in Europa e, in genere, in quel luogo cui s’è dato il nome di Occidente, alla moda dello spiritismo, definito da Adorno come la «metafisica degli imbecilli». Ma come dimenticare che questa sotto-forma di cultura ha potuto attecchire, sulla spinta dell’industria culturale, in zone altamente civilizzate, in ambienti urbani spesso iper-moderni, in momenti storici particolarissimi (prima o immediatamente dopo immani conflitti mondiali); periodi, cioè, nei quali una civiltà avviluppata in forme spesso paurose di degradazione, tende ad azzerare la morte, per lo più ignorandola o, al massimo, concependola come qualcosa di incomprensibile e di assurdo, proveniente dal di fuori, come un malaugurato imprevisto incidente, equiparabile a un qualche guasto di carattere meccanico. In una tale civiltà, l’unico possibile rapporto con i congiunti scomparsi viene a dipendere dall’adozione di tecniche pseudo-scientifiche che consentano di disturbare i poveri defunti per proporre loro quesiti di una futilità sorprendente. Non dice forse qualcosa un tale culto in pantofole del mistero che assomiglia ai quiz proposti dai giornali e agli oroscopi? V’è certamente un romanticismo ridotto alla parodia di sé che è stato fagocitato dalla volgarità dei mass-media, fenomeno che è spiegabile solo facendo ricorso ad una realtà in cui tutto, ma proprio tutto, compreso il male di vivere, viene ridotto a merce, in cui nulla davvero si sottrae alla sua forma universale.
Ma le vere serie esagerazioni del romanticismo non sono di questo tipo, non c’entrano con la sua riduzione ad una o ad un’altra versione caricaturale. L’unico rimprovero degno di nota che si può muovere al romanticismo è di aver spesso ecceduto, o meglio di essere costantemente propenso a spingere le cose all’estremo, a portarle preferibilmente alle estreme conseguenze, a rifuggire, sempre e comunque, dalle vie di mezzo. La medietà è il nemico per eccellenza della mentalità romantica, la quale, in ogni caso, predilige l’insolito e il perturbante, l’inedito, ciò che prende di sorpresa e sa scuotere, provocare choc, scompigliando le carte in gioco.
Il romanticismo, nelle sue forme più alte, è immerso nella sfera estetica, la sua sfera per definizione, che non è disgiungibile da quella meraviglia, che è propriamente lo stupore che, secondo Aristotele, spingeva al filosofare, mescolandosi nel suo manifestarsi a qualcosa di pauroso, celando in sé, pur nel perseguimento della gioia, quasi fosse un brivido non estinguibile, qualcosa di terribile. Il terrore non è separabile da ciò che mira ad infondere gioia là dove la gioia stessa, come perturbamento irrimediabile, come sconvolgimento di ciò che si vuole incanalato in percorsi rigidamente prefissati, viene avvertita quasi come qualcosa di demoniaco, in una vita che si esige non viva più, e che rimarrebbe annientata da ciò cui pure aspira. In altre parole la gioia è un peso che, se da essa non ci si difendesse, finirebbe per mostrarsi schiacciante.
I pensieri e i sentimenti portati all’estremo, di cui si nutre il romanticismo, e il suo volgersi continuo all’altrove, non rappresentano i vizi che una cultura degna di questo nome deve saper saggiamente evitare, ma sono caratteristiche che ogni cultura propriamente intesa è tenuta a perseguire se vuol restare non illusoriamente tale. Senza abbagli, scommesse, azzardi, senza esagerazioni, una cultura si affloscia e scade al livello di un ron-ron, di un ronzio paziente fino all’esaurimento allo scontato e all’ovvio, alla tetraggine del sempre uguale, agli ossessivi rintocchi di una campana fessa.
L’illuminismo, certo, guai se non ci fosse stato: non può non essergli riconosciuto il merito altamente civile di essersi impegnato contro ogni forma di oppressione. Ma senza il pungolo di quel romanticismo, che, a torto, gli è stato sbandierato contro, l’illuminismo stesso, diventando una macchina ripetitiva, scade e precipita nella noia. La sua fedeltà, di continuo orgogliosamente riaffermata, alla ragione perde ogni vigore quando insiste a considerare la contraddizione come mero errore logico, quasi la filosofia classica tedesca non ci fosse mai stata, come se ogni modo di concepire la ragione potesse venir riportato, sic et simpliciter, ad un modello di razionalità, la quale non s’è solamente dimostrata astratta, ma ha palesato non poche volte i propri connotati morbosi. La ragione è, in una realtà socialmente divorata dalle contraddizioni, dialettica o a rigore non è, poiché altrimenti è destinata a scadere al rango di una apologia di ciò che razionale non è.
Il romanticismo, che qualsiasi scolaretto si sente oggi autorizzato a deridere, è da difendere per il fatto che il modo più giusto di intenderlo lo coglie come una specie di demone, inesorcizzabile. La modernità stessa è ancora da portare a compimento. Operare per consentirle di compiersi davvero, di dar realizzazione alle promesse in essa insite, esclude che di essa medesima ci si possa indurre a celebrare una qualsiasi apologia. La modernità è ambigua e il suo cammino è irto di ostacoli. Ogni passo in avanti viene pagato a caro prezzo. Si tratta di tutto meno che di una marcia trionfale. Non v’è conquista che non corra il pericolo di rovesciarsi nel proprio contrario o almeno che non si sottragga al rischio di venir vanificata. La fedeltà al moderno implica la capacità, se necessario, di sapersi volgere anche contro di esso. La modernità è uno sconvolgimento tellurico, cioè qualcosa di terribile, che, a momenti, può sembrare esorbitante. Non si può essere per la modernità evitando la fatica di esserle, nel contempo, spesso anche contro. Più che mai oggi, se ci si propone di tener duro, incorre l’obbligo di familiarizzarsi non solo con la contraddizione, ma con quel paradosso che di solito ha il potere di intimidire la mentalità illuministica corrente. Senza la corda tesa del paradosso che imponga virtuosistiche acrobazie non c’è alcuna speranza di poter avvicinarsi, anche di un palmo solo, alla verità. Ed è questo che i poveri relativisti, miranti soltanto – in una realtà straniata che tende, di continuo, a rovesciarsi, in cui ogni cosa si rivela anche come il proprio contrario, in barba ad ogni identità irrigidita su se stessa – ad assicurarsi un cantuccio in cui insediarsi per rimanere tranquilli, non capiranno mai, fosse loro magari concesso di vivere cinque vite di seguito. L’ossessione del buon relativista è quella di assicurarsi un’identità paga di sé, la quale se ne infischi di tutto ciò che le è altro. Una magra identità, sorgente dal deserto, è il miraggio tipico di chi chiede solo gli sia concesso di svernare alla meglio. Detto volgarmente, questo significa: ognuno la veda a modo suo, come gli pare, e gli altri s’arrangino come meglio credono. Ma l’asino casca subito: basta riflettere sul fatto che l’identità, solamente per costituirsi, in qualche modo, come tale, è tenuta a passare attraverso la non-identità.
L’errore di Jervis, pur nel merito che è giusto gli venga riconosciuto di aver individuato con sicurezza la vacuità, o meglio, l’insostenibilità del relativismo e di averlo messo in berlina nella sua versione post-moderna, consiste forse nell’aver troppo accentuato i tratti anti-illuministici come elemento principale di caratterizzazione. L’errore non è da considerare solo suo. L’errore s’annida in quell’antifascismo su cui prima ci siamo soffermati, la pretesa del quale era di ridurre tutta la cultura a pedagogia (pretesa che rischia di privare cultura e pensiero del loro potenziale energetico), quasi i filosofi e gli storici dovessero avere come loro ambizione principale quella di ammaestrare i lettori, di indicare le vie del bene e del comportamento giusto e corretto. Quello della verità è un cammino che non può che passare attraverso l’errore e la contraddizione, mirando a qualcosa che si situi oltre, al di là di essi, non cancellando dietro di sé le tappe attraverso cui s’è passati. Quella della verità è una ricerca che non riesce a concludersi, perché forse la verità, in quanto tale, nella sua pienezza, è qualcosa, che pur risultando irrinunciabile, non è raggiungibile. Al vero che è il tutto di Hegel conviene accostare, a mo’ di correttivo, la consapevolezza dei romantici tedeschi, per i quali la totalità non riesce mai ad aggiustarsi, al termine del suo percorso (che essa sa conservare in sé), su se stessa come un cerchio concluso. La verità si avverte, in primo luogo, come qualcosa che manca dolorosamente a chi ne sente l’assillante richiamo. La verità è una presenza che è assenza e può esplicarsi anzitutto come ricerca inesausta di sé, ricerca che la verità compie, attraverso chi ne persegue l’adempiersi. Nelle sue più antiche espressioni, la filosofia ha inteso così la ricerca della verità. Platone, sulle orme di Socrate, è stato riconosciuto, in questo senso, come il padre della filosofia o meglio come il maestro di tutti coloro per i quali la dignità del filosofare è stata ravvisata principalmente nell’esercizio di un conoscere che è, essenzialmente, un ri-conoscere. La consapevolezza di questo riemerge fortemente verso la fine del ’700 nella cultura tedesca, e trova espressione nella parabola degli anelli, in Lessing. Nei romantici si afferma la convinzione che ciò che induce a perseguire la verità non è l’impulso al possesso, ma la forza di un desiderio inestinguibile.la consapevolezza dei romantici tedeschi, per i quali la totalità non riesce mai ad aggiustarsi, al termine del suo percorso (che essa sa conservare in sé), su se stessa come un cerchio concluso. La verità si avverte, in primo luogo, come qualcosa che manca dolorosamente a chi ne sente l’assillante richiamo. La verità è una presenza che è assenza e può esplicarsi anzitutto come ricerca inesausta di sé, ricerca che la verità compie, attraverso chi ne persegue l’adempiersi. Nelle sue più antiche espressioni, la filosofia ha inteso così la ricerca della verità. Platone, sulle orme di Socrate, è stato riconosciuto, in questo senso, come il padre della filosofia o meglio come il maestro di tutti coloro per i quali la dignità del filosofare è stata ravvisata principalmente nell’esercizio di un conoscere che è, essenzialmente, un ri-conoscere. La consapevolezza di questo riemerge fortemente verso la fine del ’700 nella cultura tedesca, e trova espressione nella parabola degli anelli, in Lessing. Nei romantici si afferma la convinzione che ciò che induce a perseguire la verità non è l’impulso al possesso, ma la forza di un desiderio inestinguibile.
Ciò nonostante, è indubbio che il romanticismo abbia qualcosa in comune con il relativismo, anche se può sembrare strano l’affermarlo. Nel suo contributo Alessandro Bellan addirittura afferma – e non si può dire che non abbia buone ragioni per sostenerlo – che è proprio con il romanticismo che il relativismo giunge al proprio concetto. Il soggetto si riduce alla rappresentazione di se stesso e l’io assoluto dell’idealismo – si pensi in primo luogo a Novalis – diviene mero principio di approssimazione a una totalità che non si chiude mai, in circolo, su se stessa, ma è sempre di là da venire. Questo comporta necessariamente un processo di relativizzazione del vero. Viene esaltata la libertà dell’io, ma perché tale libertà possa mantenersi, la totalità deve restare indeterminata. In tal modo si fa strada una concezione che oscilla tra il tutto e il nulla, senza mai decidersi per qualcosa in cui il soggetto si sentirebbe imprigionato. L’artista creatore, che per i romantici è il soggetto per eccellenza, il soggetto sovrano, la soggettività come libertà mirante all’assoluto, è spinto dalla propria inesausta tensione, dall’ansia che anima la sua coscienza, a trovar perennemente inadeguate le proprie stesse creazioni, a scavalcarle e a distanziarsene nel momento stesso in cui esse tenderebbero a tenerlo fissato a sé. Perennemente inappagato, lo spirito creatore tende ad esplicarsi in un ininterrotto esercizio dell’ironia, mirando a giocare, a giocare con tutto (buffoneria trascendentale).
La relatività viene avvertita dai romantici come perenne inevitabile inadeguatezza nell’imbattersi nella quale è giusto scatti subito un movimento di fuga. La soggettività non può accontentarsi delle maschere che essa via via si dà. Un assillo – che è un moto di insofferenza della coscienza, la quale bolla la realtà come qualcosa di radicalmente insufficiente – spinge il soggetto sempre più in là, lo induce di continuo ad andar oltre. Il romanticismo, che è un esule ed un nomade, è sospinto a intraprendere un viaggio che aspirerebbe a non aver mai termine. Per non restar crocifisso alla propria finitezza, per corrispondere ad uno slancio che è impresso in lui dalla natura infinita che l’ha generato, il soggetto romantico aspira ad attraversare le figure del mondo, affascinato da una fantasmagoria di luci e di ombre.
La storia non può non deluderlo. Mirando all’altrove egli avverte l’incapacità della storia di mantenere le proprie promesse. Il succedersi delle epoche gli appare come il frutto, in definitiva, capriccioso di un gioco sottratto ad ogni necessità, al limite come un prodotto del caso. Un movimento a zig-zag, che cerca senza mai trovare, senza approdare a nulla di certo.
Il romanticismo finisce per rinunciare ad ogni filosofia della storia. Questa viene sostituita da una filosofia della natura. Il romanticismo è volto in direzione del mondo della vita. Di esso si può entrare a far parte grazie ad una svolta che riconduca lo spirito alla natura, il che implica la rinuncia alla filosofia della storia.
La natura, forza creatrice infinita, crea l’uomo, che pertanto è un ente finito, dotato a sua volta di una forza creatrice che può esplicare sul piano che è propriamente suo: quello della cultura, la quale, in qualche modo, è una prosecuzione, un’espansione e un arricchimento della natura stessa. L’uomo mira a conferire non solo durata, ma addirittura perennità alle sue creazioni di cultura. Ma tali creazioni non sono mai pienamente adeguate all’energia creatrice che le fa scaturire da sé e che le muove. Da ciò l’insoddisfazione che mina alla base ogni cultura e che finisce per insidiarla. Se la filosofia romantica della natura tende a celebrare l’uomo come momento, per così dire, privilegiato, della natura, capace di far propria l’energia creativa della natura stessa, di proseguirne e potenziarne lo slancio, una mestizia di fondo sorge da ogni cultura, conscia della finitezza che l’avvolge, del declino procrastinabile, ma mai, alla lunga, evitabile, cui sembra condannata. L’antropologia, fin dai suoi inizi, è tormentata da un senso di caducità che si oppone agli slanci eroici degli uomini e che finisce per inchiodarli inesorabilmente alla finitezza. Essa s’è ribellata al posto subalterno che Hegel, nella sua filosofia della storia, intendeva assegnarle. Ribellione che ha trovato modo di esprimersi nel pensiero naturalistico di Feuerbach, il quale ha saputo agire, sulla spinta del romanticismo, come una sorta di anti-Hegel. Al posto delle inebrianti certezze di cui faceva sfoggio la filosofia dello spirito, l’antropologia ha posto la serie di dilemmi che sorgono negli uomini e nelle culture dal carattere ambiguamente intermedio dell’uomo stesso, nel suo porsi tra natura e cultura, cioè nel suo soggiacere ad una sorta di doppia appartenenza, che lo rende un essere diviso, lacerato, troppo spesso in conflitto con se medesimo. Le creazioni dell’uomo, inoltre, si muovono in diverse direzioni, non producono una civiltà unitaria, ma danno luogo ad una pluralità di culture, non riconducibili, di per sé, ad alcunché di unitario. La tentazione del relativismo si introduce così nell’antropologia nel momento stesso in cui si costituisce come scienza capace di avvalersi dell’apporto di varie scienze particolari.
III.
Il romanticismo, alle sue origini, non si ferma ad una relativizzazione che pure viene spinta all’estremo, ma è proprio tale tendenza ad intensificare, in un modo o nell’altro, l’ansia verso un approdo ultimo in cui la verità dovrebbe finalmente manifestarsi come assoluto pienamente attuato. D’altra parte, questo approdo, anche se stimola i viaggiatori che ad esso anelano, si sposta sempre più in là, sfugge di continuo fino a dar l’impressione di svanire, come un miraggio, nel nulla. Per i romantici la verità è verità con la V maiuscola, e non è separabile dall’Assoluto (anzi è l’assoluto stesso), ma la fascinazione che esercita e l’imperio che fa valere non sono separabili dalla convinzione che essa sia irraggiungibile. Un abisso separa il relativismo romantico, qualora proprio lo si voglia denominare così, dal relativismo volgare. Quest’ultimo, non rifuggendo da semplificazioni portate all’assurdo, indulge a posizioni la cui sbrigatività sfocia nella follia. La filosofia, fin dal tempo di Platone, s’è data da fare per confutare il relativismo che ho chiamato «volgare» e che Michael P. Lynch chiama relativismo «semplice» o «sempliciotto».9 Si tratta della negazione di una verità per sé: non c’è niente che risponda a tale nome; c’è solo la verità per me o per te. Può far proprio un tale relativismo solo chi si convinca che tutte le credenze cui si abbandona siano vere per lui come individuo. Se la verità è solo per me anche il relativismo da me professato vale solo per me: gli altri non contano. Per accedere a ciò che intendo per vero dovrebbero venir convinti, ma è appunto questa a presentarsi come un’impresa votata necessariamente all’insucesso: gli altri o sono, fin dall’inizio, d’accordo con me o sono inconvincibili; non riuscirò mai a portarli sulle mie, a dimostrare che ho ragione nel sostenere cose che a loro sembrano assurde. Un atteggiamento come quello che è insito nella falsa convinzione che le credenze siano vere solo per il singolo che, in nome della verità per me, le professa come tali sic et simpliciter e se ne fa il fautore, lo isola in una sorta di delirio nel quale si produce una specie di presunzione folle. Dogmatismo rigido e ostinazione spinta fino al fanatismo sono le caratteristiche che balzano maggiormente agli occhi in chi si convinca che tutte le sue credenze, di qualsiasi tipo esse possano essere, siano, in quanto tali, semplicemente «sue», quindi aderenti al vero. Una mentalità del genere è tutt’altro che estranea, attualmente, ad un selvatico senso comune giunto al punto estremo della sua degradazione. Il relativismo rozzo vive della convinzione che, se non la si pensa assolutamente allo stesso modo, è del tutto inutile confrontarsi. Se la pensiamo diversamente non c’è niente da fare: non ci incontreremo mai, non sarà possibile che alcuno dei contendenti riesca a fare un solo passo verso l’altro. «La pensiamo diversamente» è una specie di pietra tombale che cade come un masso dall’alto per schiacciare un eventuale dibattito ai primi segni di un suo insorgere. Discutere è inutile, può far solo perdere tempo. Il vero solo per me resta irrigidito in se stesso e non lascia aperto alcun varco alle eventuali mosse dall’altro, il quale viene giudicato nel falso e dato per liquidato in partenza. La disputa muore prima ancora di manifestarsi come tale. Le sue sorti sono segnate: non potranno esserci né vincitori né vinti, o meglio, se un vincitore ci sarà, questo potrà essere reso possibile solo con il ricorso alla forza, preferibilmente intesa in senso fisico. Prevarrà colui che saprà mettere, materialmente, l’altro al tappeto. Il nulla di fatto potrà venir evitato solo da un’aggressione.
Spesso si dice – e oggi questo ritornello è diventato di prammatica – che il relativista è tollerante, mentre l’intolleranza starebbe tutta e solo dalla parte di coloro che professano una qualche verità, intesa non solo per me, ma per sé. Nulla di meno sostenibile: intollerante è il relativista, che vive di rozzi pseudoconvincimenti o di credenze che non sono altro che favole di comodo al servizio del suo animalesco egoismo. Cattivi sofismi convincono molti che quella della verità è una pretesa indebita, che non è altro che il segno distintivo di una volontà la quale quando dice «verità» intende, in effetti, qualcosa d’altro, di cui è solo la maschera: un potere da far proprio, da esercitare sugli altri, da imporre per sottometterli a sé. Spesso gli antropologi, ossessionati dalle prepotenze che, per assoggettare a sé civiltà più deboli, popoli privi di difese efficaci, vengono compiute dalle civiltà «più evolute», indulgono ad una visione, stando alla quale, la verità portata dall’esterno, magari sulla punta delle baionette, da una civiltà più forte in una più debole proclama come unica la propria verità. I vincitori s’appellano, nel sottomettere chi ha la peggio, ad una verità più alta, per farne uno strumento di dominio. Un tale modo di intendere è oggi molto diffuso e questo spiega come le persone concedano più facilmente il loro favore al relativismo che alle teorie che dimostrano di mantenere fede al carattere «oggettivo» della verità. Le vicende del colonialismo del XIX secolo hanno lasciato il segno. Tutti hanno preso – in un modo o nell’altro – atto che troppo spesso i missionari hanno collaborato con gli eserciti e con le polizie dei regimi coloniali per costringere gli individui da loro soggiogati a credere a ciò che ci si proponeva di far credere loro per renderli più docili al dominio che era stato loro imposto. La coscienza, nelle nostre società «evolute», ha preso ormai da tempo atto di questo, e sa anche che ancora oggi non è proprio che le cose siano cambiate di molto. Il relativismo, ai suoi livelli, per così dire, «primordiali », non è, però, che possa rappresentare – come si vorrebbe – una specie di antidoto nei confronti dell’intolleranza, di cui esso stesso, e in maniera più grave, subisce l’infezione. In primo luogo non è affatto vero che il richiamo alla verità alimenti necessariamente l’attaccamento a credenze che manchino di rispetto per forme di vita avvertite come diverse da quelle che riconosciamo come le nostre o per tipi di pensiero e per concezioni in cui, nell’immediato, non riusciamo a ritrovarci. Le credenze nella verità sono dei tipi più svariati e s’impone l’obbligo di esaminare criticamente se esse, tutte, siano da accettare in blocco o non siano invece da sottoporre ad un vaglio per distinguerle accuratamente le une dalle altre, per separare in esse il vero dal falso, per far nostro il senso che ciascuno di noi può, rispetto alla verità, trovarsi dalla parte del torto, che il pericolo di incorrere in errori è sempre presente e che il negarlo non è che un segno di dogmatismo. Che in una malaugurata situazione di confusione generale, in cui la maggior parte dei membri di una società siano indotti a concepire la verità esclusivamente come verità per me, le cose vadano meglio, in termini di tolleranza, rispetto a società nelle quali è ben radicato il dovere di far riferimento, in ultima istanza, alla verità intesa oggettivamente, non è convincente. Il relativista «sempliciotto» è intriso di dogmatismo ed è tendenzialmente ostile all’altro-da-sé. Le verità degli altri non gli interessano, anzi le avverte come un ostacolo che gli viene messo tra le gambe: ha, pur nella sua pochezza, i tratti dell’Unico di Stirner. L’intolleranza si colloca, ad onta di quanto oggi abitualmente si crede, in prevalenza dalla sua parte. Egli oscilla tra la più completa indifferenza per ciò che pensano gli altri e una preconcetta ostilità. Se ognuno ha una sua propria verità, nutrita da credenze non indagate criticamente, cui non può non tenersi abbarbicato, evitando, quasi dovesse proteggersi da un contagio, di comunicarla in qualsiasi maniera agli altri, le verità sono tante e non possono confrontarsi fra di loro perché ogni verità è chiusa in sè ed impermeabile. Ma se le verità sono tante, e ciascuna è bloccata in sè, nessuna delle posizioni che ambirebbero a requisire per sé la verità è nel giusto: la verità che si dissemina in tante verità, nessuna delle quali può aspirare a darsi il nome di verità, si svuota e si vanifica: a rigore non c’è più. Tutte le verità che non rinunciano, pure nell’evidenza che le condanna al falso, a far valere per sé una qualifica che loro non spetta, danno vita ad una situazione di babelico disordine, ad una confusione generale, che non spiana la strada – come si vorrebbe da varie parti – al dialogo, ma ad un’intolleranza, che rischia di favorire il ritorno ad una specie di bellum omnium contra omnes. Siccome nessuna società può reggere in tale caos, e, meno che mai, sopportarlo, la strada viene aperta ad una guerra civile permanente, la quale è lo spettro inesorcizzato che perseguita, come un incubo, i tormentati sogni dei nostri contemporanei.
In un’epoca rigurgitante di orrori, il relativismo pare presentare una faccia pulita e gentile. Ma è solo un abbaglio. Devo confessare che a me non piace nemmeno il termine tolleranza, oggi per lo più abusato, che mi restituisce una specie di suono fesso. Nessuno mi toglie di mente che il tratto significativo che più può far riferimento a un tale termine sia quello di un atteggiamento di degnazione fatto scendere graziosamente dall’alto, nell’indifferenza generale che affligge tutto e tutti. Vi colgo altresì, in latenza, una sorta di gelido ammonimento, quasi l’eco di una minaccia che brontola a distanza, ma che risulta, comunque, percepibile: «Fino a quando abuserai della nostra pazienza?». La tolleranza, anche se i potenti, fin che possono e fino a quando gli è conveniente farvi ricorso, preferiscono ostentarla come loro rassicurante prerogativa, mi sembra nascondere in sé ciò che può rovesciarla nel suo opposto. Si spaccia spesso come la via più comoda da seguire per evitare reazioni esplosive, con il sottinteso che, se tutto non procede nel modo voluto, resta sempre la possibilità di tornare indietro, di ricorrere a mezzi più ruvidi di controllo.
Ma c’è un’altra considerazione da aggiungere. La tolleranza implica, per affermarsi, come suo precedente, il gelo dell’indifferenza. Essa è animata dall’intento di tutto ammettere per tutto poter vanificare. La tolleranza repressiva, questo oxymoron, elaborato concettualmente da Herbert Marcuse, respinta dai più con sdegno, sembra invece a me basarsi su un’intuizione geniale. Nell’era della mercificazione totale, la tolleranza, che tutto accoglie per tutto addomesticare, si rivela come un mezzo meno costoso e, in definitiva, più efficace, di avviluppare la società intera, trasformata in una sorta di supermarket, in una rete di controlli sapienti che consente di poter fare a meno di quella repressione cui, in fasi arcaiche, si ricorreva.
Questo all’insegna dell’intercambiabilità universale, che stravolge il tessuto dei bisogni, imponendo come forma generale l’equivalenza delle merci.
Il trucco cui ricorre il relativismo ingenuo per darsi troppo facilmente ragione, consiste in questo: chi ha rispetto solo della verità per me è sobrio e modesto e non pretende di avere presso di sé alcun universale, quindi è naturaliter tollerante, mentre coloro che si appellano all’universale, pretendendo che esso valga per tutti, e che, se non riconosciuto, debba essere imposto, sia ai volenti che ai nolenti, a questi ultimi per il loro stesso bene (da loro stessi per insipienza ignorato), magari, se necessario, ricorrendo alla costrizione, è un prepotente. Il logoro luogo comune che, a proposito, con più frequenza risuona è: chi si mantiene fedele alla verità per sé è tendenzialmente un violento, pronto ad ogni sopraffazione ai danni di chi diffida di lui. A muoverlo alla prepotenza è un atteggiamento borioso, una presunzione che lo induce a piegare la volontà altrui alla propria. Soccorre, a questo punto, un motto idiota oggi ripetuto fino alla nausea: «Nessuno ha la verità in tasca!», con il sottinteso che chi non dia il proprio avallo ad un simile detto, sia da considerarsi un tendenziale tiranno. In tal modo il massimo di intolleranza, che si esplica in dettami sbrigativi e perentori di indicibile volgarità, come il motto di cui sopra, riesce ad assumere le vesti del proprio contrario. L’universale viene visto, sempre e comunque, come un falso universale, come la maschera di un potere teso a soggiogare gli altri. Ai tempi del post-strutturalismo francese, che ha, in qualche modo, posto le premesse della moda del post-moderno, ci si inebriava affermando, con una luce satanica nello sguardo, che la nozione stessa di uomo è una mistificazione, perché ad esso ci si richiama solo per sancire la preminenza di una specie, quella dell’uomo bianco dominatore che afferma la propria civiltà come superiore alle altre, sancendo, in tal modo, la legittimità della sua volontà a piegare a sé il resto del mondo. In tale visione, l’umanesimo (ogni forma possibile di umanesimo) si rivela un travestimento della volontà di potenza. La scuola del sospetto, Nietzsche e Heidegger, sono stati chiamati a soccorso di una siffatta opera di demolizione.
Jervis ha ragione quando mette in evidenza come il relativismo non accetti alcuna distinzione tra doxa ed episteme: tutto viene ridotto ad opinione. La conseguenza è che in tal modo ogni gerarchia va a farsi benedire. Tutte le opinioni sono situate sullo stesso piano: ogni opinione vale come tutte le altre; ognuno prenda per sé quel che gli fa più comodo. La preferenza per un’opinione piuttosto che per un’altra, magari di segno opposto, è affidata ad una volontà che non si lascia indagare, che si rivela, quindi, come mero arbitrio.
Si vorrebbe che un siffatto arbitrio assicurasse il massimo riconoscimento alle differenze, in effetti le cose vanno (e sono andate) ben diversamente. Così procedendo ci si condanna alla monotonia dell’indifferenziato. Il pensiero si blocca, si contrae ed irrigidisce in una serie di smorfie, di tic: si finisce per ripetere in ogni occasione lo stesso, in un martellamento coatto che ingenera solo noia. Ai rovesciamenti, che, da Hegel a Marx ad Adorno, sono la croce e delizia della dialettica, si sostituisce, affrontando qualsiasi tipo di problemi, un meccanismo ripetitivo, che, in ogni caso, rimanda a qualcosa di soggiacente, ad un fondo oscuro (ad una identità cieca), in cui ogni cosa subisce una deformazione che ne altera irreparabilmente i connotati.
Il relativismo ingenuo non si sottrae alla sorte di distruggersi con le proprie stesse mani. Si scompone e riduce in frantumi, rivelandosi come un groviglio di luoghi comuni, di poveri sofismi, facilmente smontabili. Si giustifica il disprezzo dimostrato nei suoi confronti da Adorno in Terminologia filosofica, che ne rivela la nullità in senso filosofico, in aderenza a quanto sostenuto nella demolizione operata in Dialettica negativa. È giusto che il relativismo ingenuo vada in pezzi, trascinando con sé nella rovina tutti i tentativi, fatti cadere dall’alto, di conferirgli una dignità che in realtà non possiede, di racchiuderlo in un involucro che dovrebbe renderlo attraente.
IV.
Ma il discorso sul relativismo non si può fermare qua. Se al relativismo – si fa per dire – «conoscitivo» non è da riconoscere il diritto di venir preso sul serio – e il suo destino è quello di finire per aggrovigliarsi in un ginepraio di contraddizioni auto-dilaniantisi –, vi sono, però, indubbiamente altre forme di relativismo, di relativismo – si potrebbe dire – ragionevole, che non spingono le cose all’assurdo, evitando così che esse si qualifichino da sole. Tali forme non esigono di porsi come la pietra tombale della verità, non escludono che a tale nozione si possa far ricorso (riducendo, magari, la verità a mera verità storica, distinguendo pertanto con nettezza verità e assoluto), e vogliono situarsi all’interno di una ricerca, la quale, in quanto tale, non può non essere volta alla verità, come una sorta di tarlo salutare mirante a corrodere quelle certezze che siano state smascherate come inaffidabili, forse per essere state accolte con troppa facilità come pacifiche e ovvie, mentre ad un esame attento non si rivelano tali. La problematica inerente al relativismo con cui merita ci si cimenti è quella che stimola indagini di carattere morale, in primo luogo quella riguardante le delicate questioni di convivenza fra gruppi etnici diversi, che è attualmente davanti agli occhi di tutti poiché costituisce un vistoso fenomeno di portata mondiale. Nell’attuale frangente, infatti, sono in corso a ritmo crescente flussi migratori di vasta portata che spingono popolazioni, in fuga da situazioni talvolta disperate (misere condizioni di vita o minacce derivanti da regimi oppressivi o ambo le cose insieme), a cercare altrove, per lo più in zone molto lontane dai paesi da loro forzatamente abbandonati, condizioni che permettano a masse di individui di poter rifarsi una vita.
Questa sorta di emigrazione forzata pone problemi giganteschi, soprattutto ai paesi dell’Europa che non possono chiudere la porta in faccia ad una tale massa di derelitti, il cui accoglimento, però, a sua volta, pone questioni assai complicate, di assolutamente non facile risoluzione, anche perché mette a confronto civiltà diverse, la cui convivenza per lo più pone problemi delicatissimi, la cui soluzione, in un modo o nell’altro, è, così, difficile, e sembra talvolta addirittura impossibile. Usi, costumi, abitudini, lingue, modelli di comportamento diversi devono essere messi nella condizione di poter vivere pacificamente gli uni accanto agli altri. I governi europei affrontano situazioni per loro in gran parte nuove cui non si sentono preparati, ricorrendo a vari espedienti, oscillando tra misure spesso non compatibili l’una all’altra. A questo è da aggiungere che, in misura rilevante, le masse degli emigranti forzati che, con mezzi di fortuna, al termine di avventure ad esito spesso tragico, raggiungono l’Europa, hanno l’obbligo, se vogliono sopravvivere, di «acculturarsi» e di trovare lavoro: se finiscono ai margini non hanno scampo: finiscono per venir succhiate in sé da forme di emarginazione. Si produce un incremento della delinquenza, il che fa sorgere grandissimi guai sia per gli immigrati sia per le società che li accolgono. Il venir a contatto con paesi «sviluppati», in cui s’è imposto un livello considerevole di benessere, è tutt’altro che facile per quelli che provengono da zone disastrate del mondo. Anche evitando di rievocare lo spettro del razzismo, cui spesso si ricorre, indulgendo a un tono deprecatorio, ad un moralismo che rischia di ottenere il contrario di ciò che si proporrebbe di ottenere, cioè di svegliare il can che dorme, nessuno può negare che le difficoltà di inserimento dei nuovi cittadini, ammesso che tali gli immigrati riescano a diventare, non favoriscono una buona accoglienza e che, mancando questa, tutto ulteriormente s’aggrava. Fenomeni di rigetto fomentano reazioni rabbiose in coloro che li subiscono e queste, a loro volta, richiamano contro di sé reazioni di segno opposto improntate a dura repressività. Per intenderci alla svelta, si pensi alle banlieue francesi. Difficoltà di integrazione e ostilità preconcetta verso il nuovo sono due brutte bestie che consentono a due violenze di segno diverso di estenuarsi in pericolosi bracci di ferro. Le società europee recano nel proprio seno le loro brave contraddizioni: esse hanno già in sé le loro sacche di emarginazione. Molti, per i quali la vita non risulta certo agevole nei nostri paesi, che languiscono in forme di disoccupazione o di inoccupazione, vedono negli immigrati una possibile concorrenza non prevista che rischia di danneggiarli. Se spesso si parla di razzismo a vanvera, non si può metter in dubbio che ciascuna delle nostre società ha, più o meno latenti in sé, germi di xenofobia (fenomeno che in misura variabile è inevitabilmente presente in qualsiasi società ed è duro a morire) la quale, degenerando in forme fastidiose, con relativo accompagnamento di demagogie varie, può rappresentare una brutta faccenda in più.
Tutto questo è associato ad un’altra serie di problemi spinosi, che sorgono dal fatto che nella massa di immigrati un posto di rilievo spetta ai musulmani, i quali, in una percentuale non certo trascurabile, si sentono legati all’Islam e rivendicano, in tal modo, una precisa appartenenza religiosa che esige di mantenersi tale nel momento in cui vengono a contatto con un continente, come quello europeo, in cui, sul piano religioso la parte maggioritaria è costituita dalle confessioni cristiane (da noi, in Italia, paese non pluriconfessionale, con una società in cui vige tra le religioni la prevalenza finora indiscussa della Chiesa cattolica, Papa Ratzinger ha mosso forti critiche al relativismo come un vizio di pensiero che metterebbe in pericolo l’unità e la pienezza della verità. Su questo mi riprometto di soffermarmi in un’altra occasione).
Questo nodo di problemi (che s’accumulano l’uno sull’altro) avvelena la situazione in cui attualmente ci troviamo, resa ancora di più tormentosa dal fatto che dire oggi Islam rende inevitabile il ricorso al tragico fenomeno del terrorismo internazionale per l’appunto di matrice islamica. Appelli alla tolleranza piovono – e come potrebbe essere diversamente? – da tutte le parti, con esito incerto, ma non senza suscitare moti di segno contrario, da cui partono le accuse ai predicatori della tolleranza di essere troppo accomodanti o magari remissivi. Non manca chi non perde l’occasione per incitare l’Occidente intero alla cosiddetta «fermezza», agitando lo spettro dello scontro, addirittura alla guerra tra civiltà, con relativi richiami alla teoria di Huntington.
V.
L’attenzione alle scottanti questioni che chiamano in gioco l’etica, nobilita, in qualche modo, il relativismo o almeno lo rende più plausibile. Esso è chiamato in causa da situazioni molto concrete che attualmente risultano ineludibili, rendendo problematica la convivenza sia sul piano nazionale sia su quello internazionale, segnato da conflitti che sembrano via via acuirsi sempre di più. Il relativismo morale segnala la necessità di confronti più approfonditi tra le diversità che sono in campo in questo momento, invocando un aiuto per tale compito non solo a filosofi e scienziati della politica, sociologi, storici delle religioni, esperti di politica internazionale, ma anche a quegli antropologi culturali che finora hanno dato prova di essere più sensibili ai rapporti tra civiltà diverse. È richiesta, pertanto, una ripresa in esame degli apporti di coloro che da tempo, affrontando tematiche riguardanti le etnie, le religioni e le civiltà, hanno mostrato, più di altri, di simpatizzare con approcci di tipo relativistico e di prendere sul serio quello che potrebbe essere definito «relativismo culturale». A questi si possono aggiungere quei filosofi che, negli ultimi tempi, hanno dedicato i loro sforzi più impegnativi alla messa in chiaro della tematica del riconoscimento e alla rielaborazione di quella riguardante il sé e le questioni relative alle appartenenze (si pensi ad Amartya Sen). Infine, è da dire che il relativismo può presentarcisi in una luce diversa se a questa denominazione si vogliono far risalire quegli scrittori, filosofi e artisti che tra Otto e Novecento, in un clima di acuta problematicità, hanno affrontato terreni molto scivolosi, sfidando e mettendo a dura prova la nozione stessa di verità, costretta spesso a difendersi, ricorrendo a vere e proprie acrobazie. Mi riferisco all’epoca in cui l’orientamento filosofico dominante si dimostrò quello detto della Lebensphilosophie. È in tale periodo che il relativismo – se proprio si vuole ancora ricorrere a tale termine – nell’affrontare aspetti ben diversi da quelli prima esaminati, riguardanti il «relativismo degli scemi» –, mostrò il proprio volto migliore.
A questo punto si impongono nuove considerazioni e riflessioni che prima, al fine di sgomberare il campo da equivoci, era risultato consigliabile lasciare da parte. Urgeva dare risalto alle incongruenze del relativismo volgare e svelare quanto infondata fosse quella tolleranza che gli stenterelli del relativismo stesso invocavano indebitamente per sé. Il che richiedeva, conseguentemente, di prendere le distanze da quel relativismo che sarei tentato di definire «rugiadoso»: il relativismo dei «buonisti», rovescio della brutalità della verità per me, sempre pronto ad esaltare le virtù del dialogo. Se uno è sempre pronto a concedere il massimo alle opinioni altrui, ad accordare benemerenze a coloro che la pensano diversamente da lui, rischia di trovarsi fra le mani un cartoccio vuoto, afflosciato su se stesso, che non sa di nulla. A furia di accomodamenti, uno si riduce alla condizione del poveraccio per il quale, al fine di evitare grane, tutto va sempre bene. Se uno sa, fin dall’inizio, che il proprio punto di vista è solo uno fra i tanti, fra gli innumerevoli punti di vista possibili, è come non disponesse di alcun punto di vista. Per usare una parola che piace tanto e che molti si trovano in bocca, senza sapere nemmeno perché – la parola «opinione» – è da dire che l’eccessiva attenzione per qualsiasi cosa gli altri siano soliti gabellare per propria opinione, finisce per far sì che l’accomodante riduca a un timido balbettio a stento percepibile quella che dovrebbe essere la sua propria opinione, che il relativista buono vanifica nel momento stesso in cui, con tono esitante, farfugliando, la enuncia. Uno deve credere in ciò che sostiene. Non c’è affermazione degna di questo nome che non esiga per essere pronunciata una buona dose di convinzione, quindi un certo tipo di risolutezza. Il rispetto per l’altro-da-sé, sia questi magari legittimamente da considerare come un avversario, è un’altra cosa; viene dopo, quando le posizioni diverse che si fronteggiano si sono consolidate, non prima, e meno che mai preventivamente. Senza queste che mi permetto di indicare come necessarie pre-condizioni, nessuna cultura degna di questo nome troverà mai il modo di sorgere. Il dialogo ha un senso solo se i dialoganti stanno ben saldi sulle proprie posizioni, non se si sdilinquiscono facendosi, ad ogni piè sospinto, troppe reciproche concessioni. Nessun dialogo, anche se coloro che vi si impegnano si mettono in gioco per intero, è pre-garantito nel suo esito. Il rischio dell’insuccesso è sempre aperto: alla fine ci si può trovare su posizioni che restano irriducibilmente diverse e magari opposte. Questo non esenta dal confronto, ma significa che il confronto è esposto ad una duplice possibilità: quella di riuscire (e di dare i suoi frutti) e quella di non riuscire affatto. In entrambi i casi l’obbligo del rispetto reciproco non deve essere messo in discussione. Interessanti, a proposito delle difficoltà di dialogo tra gruppi etnicamente diversi, le indicazioni fornite, in sede psichiatrica, da Piero Coppo circa una sorta di logica degli incontri.
Una volta che si siano tolti gli equivoci che fa sorgere, il relativismo assume caratteristiche che lo rendono più ragionevole. Può valere per ogni concezione che non faccia riferimento a principi assoluti ed immutabili, da cui far tutto derivare. Il relativismo, in questo senso, è antico. Il primo che ne tentò una formulazione fu, come a tutti noto, Protagora, nel suo opporsi all’assoluta verità dell’essere parmenideo, quando indicò nell’uomo la «misura» di tutte le cose, sia di ciò che è sia di ciò che non è. Protagora e i sofisti non risparmiarono l’etica. Simili ai contestualisti odierni, costoro sostennero che non esistono valori assoluti indipendenti dalle circostanze e dagli scopi soggettivi. L’attenzione si fissò sulle contingenze, sulle condizioni in cui viene a trovarsi il soggetto quando giudica. Da ciò la relatività di tutti i giudizi, su cui molto ebbero ad insistere Enesidemo con i suoi tropi, e in genere gli scettici.
In questa negazione di principi che esigano di trascurare ogni contingenza si può cogliere l’inizio di una specie di filone che si pone in alternativa, dando luogo ad un vero e proprio antagonismo, alle varie forme di platonismo che predominano, lungo il corso dei secoli, nella tradizione filosofica europea. Questo orientamento, minoritario ma tenace, rappresenta la reazione ad una presunzione che sembra inficiare le ambizioni di un pensiero che, nella sua pretesa di onni-comprensività, non vuole riconoscere i propri limiti. Si colgono in tale presunzione quei vizi che, in epoca positivistica, verranno denunciati nella metafisica. Nel porre l’accento sulla presenza di limiti inconfessati, che si tratta di far risalire alla luce, prenderà sempre più forza la ribellione nei confronti della boria di un pensiero arrogante che non vuole ammettere di essere immerso in un’irriducibile finitezza e reclama per sé una sovranità che non gli spetta. Da ciò il rifiuto dei sistemi che pretendono di abbracciare in sé ogni cosa e tendono, costantemente, a fare, in ogni circostanza, il bello e il cattivo tempo: D’Alembert, distinguendo l’esprit systématique, come garanzia di un modo di procedere ordinato e controllabile, dall’esprit de système, come esigenza di far derivare tutto da un principio unico da cui la molteplicità si dispiegherebbe per tornare ad esso alla fine, chiudendo così un cerchio onni-inglobante, rese esplicita tale ribellione al sistema, svelandolo come chiusura all’esperienza.
Ma agli albori della scienza moderna, soprattutto con Cusano e con Bruno, si tese a dar risalto alle incongruenze tra la finitezza della mente umana e il carattere infinito dell’universo. L’ammissione dell’infinità dell’universo rappresenta un discrimine decisivo anche per inquadrare la natura umana, per richiedere forme di pensiero più aderenti alla realtà che possiamo conoscere, con cui possiamo porci in relazione, quindi più umane, più consone ai limiti imposti alla condizione umana. Tutto ciò comporta conseguenze rilevanti anche nell’ambito della psicologia. Si tratta, in fondo, del richiamo ad una maggiore sobrietà, dell’invito a modi di procedere, sia sul piano della conoscenza sia sul piano dell’etica, che non si discostino dal riconoscimento della finitezza. Queste caratteristiche sono rilevabili, con pari intensità, in due autori diversissimi, addirittura opposti tra di loro per le conclusioni cui pervengono, come Montaigne e Pascal. Da Bacone viene un’importante indicazione: la relatività delle conoscenze è una conseguenza della stessa natura umana, delle inclinazioni e delle abitudini che gli uomini si rivelano incapaci di trascendere.
Da Hamilton e Mansel a Poincaré e Mach e in genere all’empirio-criticismo, si genera un filone epistemologico che conduce ad un vero e proprio relativismo gnoseologico, non privo di addentellati con il piano dell’etica. Il positivismo ne risulta influenzato in maniera rilevante. Il criticismo di fine secolo, prendendo le mosse dal costante richiamo a Kant, apre a scenari nuovi ed inquietanti nella temperie fluida che si situa a cavallo tra Otto- e Novecento. Nell’era moderna, per tre secoli, stimolati dagli aspetti più spinti dell’empirismo britannico, germi di relativismo si insinuano in diverse posizioni di pensiero, promuovendo riflessioni, talvolta corrosive, che tendono a soluzioni estreme. Quella che è stata, forse in modo inconsapevolmente ironico, definita la belle époque, è satura di un’atmosfera elettrizzante e nervosa in cui ogni pretesa certezza viene investita criticamente e messa radicalmente in discussione, in cui non c’è idolo che non si miri ad infrangere.
VI.
In questo periodo, che sfocia in uno dei più devastanti cataclismi della storia, i due punti filosofici più forti, cui, ad esempio, si ispira Vaihinger, con la sua «filosofia del come se», sono rappresentati dalle figure di Kant e di Nietzsche. Non senza forzature, e in un modo, in definitiva, non accettabile, Kant viene concepito come il rappresentante di una filosofia radicalmente relativistica, mentre William James e J.Ch.F. Schiller non esitano a richiamarsi direttamente alle origini del relativismo, cioè a Protagora.
Il relativismo gnoseologico e morale viene inserito, così, nella corrente del pragmatismo, cioè della filosofia che, per eccellenza, esprime lo spirito americano. Un’analisi attenta delle forme di pensiero inclini, più o meno, in un modo o nell’altro, a concedere spazio alla mentalità relativistica depurata dei suoi aspetti più rozzi, sarebbe tenuta a dar risalto alla rete di rapporti intercorrenti tra il relativismo e gli altri «ismi», che si collocano nelle sue vicinanze e che interagiscono con esso, dando vita a incroci e influenze reciproche di vario tipo: convenzionalismo, nominalismo, soggettivismo, scetticismo, pluralismo, storicismo, nichilismo, vitalismo, e di altri «ismi» si potrebbe ulteriormente far menzione.
Nietzsche, la cui impronta è rilevabile in modo prepotente nel pensiero che s’afferma dalla fine dell’Ottocento al crollo della Germania di Weimar, influenzando non solo i filosofi, ma gli artisti e gli scrittori, spesso imponendosi loro in coppia con Schopenhauer, di cui è discepolo ribelle (teso a porsi in antagonismo con lui), si pone decisamente al centro del quadro con il suo prospettivismo. Vicino alla Lebensphilosophie, stimolatore dell’imporsi degli aspetti insieme più seducenti e più perturbanti di tale orientamento, Nietzsche, il cui pensiero, in qualche modo, si può considerare come la versione più radicale del romanticismo, interpretando con virtuosistica abilità l’esistenza, vede il reale come una fantasmagoria, come un gioco di forme illusorie nel cui succedersi, nel cui intersecarsi, si aprono conflitti ermeneutici che sfociano in una sorta di guerra permanente, quella che si apre dal contendere fra di loro delle volontà di auto-affermazione dei soggetti interpretanti. Non si tratta di muoversi verso una verità assoluta, che non esiste, ma di assecondare, nel gioco delle visioni in lotta, forti effetti di verità (una prospettiva che si voglia vincente, in un reale che è fatto di apparenze, deve imporsi quasi fosse verità). Tutto, in fondo, scaturisce dalla volontà di potenza. La morale viene sottoposta ad un esame genealogico in cui viene riportata alle sue radici che sono extra-morali. Le motivazioni dell’operare «buono» non sono soggiacenti ad alcuna morale, la quale, stando alla sua effettiva genesi, finisce per apparire come qualcosa di diverso da quello che si intende per «morale». È per questo che Nietzsche è stato assunto, accanto a Marx e a Freud, come uno dei rappresentanti di quella cui è stato dato il nome di «scuola del sospetto», la quale ha incitato i fautori del post-moderno a perseguire le loro de-costruzioni. Un rapporto forte indubbiamente è ravvisabile tra Nietzsche e la psicoanalisi, anche se Freud, abbarbicato al suo ostinato (e in fondo salutare) perbenismo scientifico, ha fatto sempre lo gnorri, rispondendo in modo evasivo a chi gli poneva il quesito. Quanto a Marx, è da dire che la sua figura e quella di Nietzsche si pongono entrambe come culmine di un ben determinato sviluppo filosofico della modernità, il quale, secondo Del Noce, era rappresentato da un razionalismo mosso fin dall’origine da un ateismo postulatorio (l’uomo, per riappropriarsi di sé e per dar prova del meglio di sé, deve emanciparsi da Dio, uscendo così dall’infanzia per entrare davvero nell’età adulta). Si tratta di due culmini che non comunicano tra di loro. Per Del Noce si dava, però, la possibilità di un passaggio, ma questo si profila solo attraverso un fallimento totale, attraverso quello che Del Noce stesso vedeva come il trionfo-scacco del marxismo. Il marxismo porta a termine il suo compito di demolizione della società borghese-cristiana, ma alla fine è come se il vincitore soccombesse sul corpo del vinto. Esso, la cui forza principale era stata quella di essere un ateismo che si fa religione, non resiste agli effetti distruttivi del proprio stesso operato. Gli subentra un illuminismo di massa di segno nichilistico, la cui creatura è la «società opulenta», in cui il marxismo stesso è gettato ai margini, relegato tra i perdenti. Il nume della società nichilistica, a giudizio di del Noce, non è Marx, non può più essere Marx, ma è Nietzsche. A proposito del quale è da dire ancora che è sintomatico di una insuperabile ambiguità il suo essere stato, nello stesso tempo, quando dominava la cultura tedesca, in grado di attrarre le avanguardie artistiche del primo Novecento e le tendenze politico-filosofiche della conservative Revolution.
La sfera in cui si muove pienamente a proprio agio Nietzsche è la sfera estetica. Le riflessioni di Gottfried Benn sull’arte come l’ultima forma di metafisica possibile nell’Europa contemporanea, si situano per intero, sia pur con originali apporti suoi, entro il cerchio del prospettivismo nietzschiano. L’arte è l’unica attività in grado di rendere sopportabile, anzi di farne qualcosa di attraente, di seducente – un magnifico spettacolo – un mondo che è terribile.
Il pathos che si sprigiona dalle pagine insinuanti di Nietzsche è quello di chi trae il massimo della fierezza dalla propria capacità di reggere, di sopportare il peso immane di cui s’è gravato le spalle, di non soccombere, convertendo, anzi, addirittura, ciò che potrebbe schiacciarlo in un agio superiore, in cui quel che prevale non è Last ma Lust. Ciò che lo incanta è il gioco che converte le apparenze, rendendole fonte di infinito godimento. È il sorriso efebico di San Sebastiano che resiste allo strazio delle frecce e delle lancie che ne trafiggono il corpo. La conquista da far propria è quella di una leggerezza cui pervenire attraverso esercizi fisici rasentanti vere e proprie forme di supplizio, perseguite grazie all’attenersi ad una disciplina inflessibile molto vicina all’ascesi. Gli sforzi, al limite del possibile, devono tradursi in una bella apparenza che non tradisca fatica alcuna, che si affermi come una sorta di seconda spontaneità. In tal modo lo spavento viene esorcizzato.
Si situa sulla scia di Nietzsche, un’altra importante (e assai contorta) figura: quella di Spengler, in cui lo storicismo (che recava in sé fin dai suoi inizi tratti relativistici) approda alle sue conclusioni più radicali. Da noi, nel suo bel libro ingiustamente oggi dai più dimenticato, Dallo storicismo alla sociologia, Carlo Antoni, ricostruendo sapientemente la parabola del pensiero tedesco nei suoi tardi esiti, ha dato risalto alla crisi dell’universalismo nella riflessione sulla storia, concedendo spazio anche alla figura dell’autore di Untergang des Abendlandes. Il relativismo spengleriano assume tratti esplicitamente pessimistici, anzi di carattere catastrofale. Ogni epoca storica è un’individualità organica a sé stante, che nasce, si sviluppa e muore. Ogni civiltà è sottoposta al destino di una pianta, il cui fiorire non può sottrarsi al declino. «Valori» e «certezze» sono legati ad un ciclo destinato al tramonto. Le civiltà sono chiuse, senza contatti tra di loro che non siano scontri di carattere rovinoso tra entità destinate a perire. Di tali civiltà bloccate in sé e non permeabili a ciò che si situa al di fuori di loro, Spengler ambisce ad essere l’impassibile morfologo.10
Italo Testa opportunamente ha messo in evidenza come la morfologia delle epoche storiche portasse ad intenderle come unità culturali statiche, collezione di giardini ben coltivati e strutturati, il che ha condotto ad una spazializzazione delle civiltà, che vengono chiuse entro recinti separati, come una molteplicità di spazi irrelati, e riconosce a Ernst Bloch il merito di aver visto nei magazzini Spengler il luogo dove i saldi del relativismo hanno trovato la vetrina meglio allestita.
Nel primo decennio del XX secolo s’è manifestato il fiorire di svariati relativismi che toccavano numerosi campi: le scienze naturali e quelle sociali, la logica matematica e le avanguardie artistiche. Si è assistito, pertanto, in questo periodo, a slanci innovativi che hanno investito pressochè tutti gli ambiti della cultura. Negli anni tumultuosi in cui nasce il ’900, tra fervori e slanci volti a trasformazioni grazie alle quali ci si proponeva di alterare, anzi di mutare alla base gli assetti della cultura così come ancora in quel momento si presentava, una febbre sembra invadere gli intellettuali, che si sentivano attratti dal nuovo. Il relativismo è stato, in certo qual modo, tale ansia di rinnovamento senza freni, tale febbre, ignara di ciò che stava preparandosi e del Donnerschlag, che di lì a poco avrebbe svegliato l’intera Europa, strappandola al suo suggestivo dormiveglia. In quegli anni il pensiero corre a briglia sciolta, si scioglie dal rispetto per venerandi legami, non conosce più vincoli, investe con il suo furore d’innovazione costumi consolidati, abitudini che a lungo sono sembrate non scalfibili. Il nemico per eccellenza da combattere è la routine, tutto ciò che sembra pietrificare nel consueto e nel ripetibile l’ansia che pungola ad aprirsi all’assolutamente nuovo, all’inedito. Tutto spinge verso una specie di terreno vergine, nell’attraversare il quale si produrranno mutamenti epocali. Si pongono le basi per le straordinarie scoperte che vivificheranno e faranno mutar volto al mondo, che mai più sarà quello che era stato prima. Il mutamento epocale ci sarà – e come – ma non sarà quello che gli uomini di cultura (filosofi, artisti, scienziati operanti nei più svariati campi del sapere) speravano. Sarà un cataclisma sanguinoso che mostrerà di non risparmiare niente e nessuno, un vero flagello che si estenderà a macchia d’olio.
VII.
Ciò che ancora colpisce guardando al secolo scorso è la presenza di una grande cultura che stava dispensando i suoi mille tesori e, accanto ad essa, l’irrompere sulla scena di un largamente imprevisto festino di barbarie che ha messo in moto, senza che più ne fosse arrestato il corso tumultuoso, micidiali tendenze regressive.
Oltre al trauma provocato dalle stragi di massa – dai genocidi fino all’affermarsi di una mentalità che pretendeva per sé il diritto di disporre di tutto, di piegare a sé masse enormi, di spostare paesi interi sulla carta geografica, di dividere il mondo in zone soggette a diversi poteri da contrapporre frontalmente le une alle altre, facendo proprio l’arbitrio di stabilire a chi, tra i popoli, veniva riconosciuto di poter ancora sopravvivere e chi invece era giusto venisse soppresso –, è da considerare un altro trauma al primo strettamente connesso: il trauma consistente nel dover per forza prender visione che si dà la possibilità (sancita dall’evidenza storica) che una cultura raffinata si sviluppi accanto a tendenze distruttive ed auto-distruttive, che di fatto ripristinano lo stato ferino. Da questo trauma l’Europa non si è ripresa mai del tutto. Ha tratto origine da ciò quell’inimicizia nei propri stessi confronti, quella diffidenza per la propria civiltà, nutrita di cattiva coscienza e di rimorsi d’ogni genere, che ancor oggi affligge gli europei e che li conduce quasi ad avversare la propria stessa identità. Mi riferisco a quella specie di relativismo piagnone che attualmente spinge non pochi europei a stracciarsi le vesti e a fustigarsi.
Oggi si esporrebbe al ludibrio chi osasse riprendere il motivo ottocentesco del progresso immancabile che avanza, trascinandosi dietro nella sua corsa ad esito pre-garantito tutti i campi in cui si esplica l’attività umana. Presentemente progresso si dà solo in campo tecnico-scientifico, mentre non si produce in altri ambiti e ad altri livelli. Tale progresso è indubbiamente, se considerato solo in sé, qualcosa di mirabile, anzi di portentoso. Ma dicendo questo bisogna aggiungere che l’umanità nel suo complesso non migliora. La storia del secolo scorso inequivocabilmente ci dimostra che siffatto progresso con tutte le sue conquiste può convivere con orrori e atrocità di ogni genere, di cui è stato, del resto, prodigo il Novecento stesso.
Sono d’accordo con quelli che deplorano che un così esiguo numero di studenti, entrando all’Università, scelga le facoltà scientifiche per preferire ad esse quelle generiche, di stampo, più o meno «umanistico», che spesso sono in grado di concedere loro solo il dubbio vantaggio di poter fregiare del titolo di «dottore» il proprio biglietto da visita. E sono pronto ad associarmi al coro di quelli che stigmatizzano l’ignoranza penosa della matematica di cui danno prova i summenzionati studenti. Però, c’è da dire che dai tempi del buon Charles Snow, il quale, parlando delle due culture, esortava a colmare l’abisso che, a suo avviso, le divideva, molta acqua è passata sotto i ponti. Le cose, da allora, cioè da oltre quarant’anni, si sono ulteriormente e in misura vistosissima complicate. Significativamente, in questo momento, a proposito della tecnoscienza, si parla per la nostra civiltà, di destino. Ma tale destino, che fino a qualche decennio addietro si rivestiva di una retorica di tipo faustiano, mi sembra oggi assai simile all’esercizio del cavalcare la tigre; operazione forse purtroppo indispensabile, ma certo almeno un po’ rischiosa. Mi accontenterei che ci fosse, diffusa nel mondo, una maggiore consapevolezza di tale rischio. Tutto qua. Non credo a vie di salvezza da assicurarsi con il soccorso di mistiche di provenienza orientale. E a chi, preso da entusiasmi francescani, invocasse «sorella acqua» ricorderei l’esortazione del Musil di Der Mann ohne Eigenschaften a non tuffarsi nei ruscelli, ma a cercare di nuotare immergendosi nelle tubature di servizio per la distribuzione di questo prezioso indispensabile elemento, in cui Talete individuava l’origine di tutte le cose.
Quanto allo sviluppo, senza un rapporto con il quale tutti gli innumerevoli inviti alla ricerca scientifica perdono gran parte del loro significato, mi sembra giusto sottolineare che non v’è oggi forse nessuna nozione che sia così altamente problematica e ambigua. Parlando di queste cose, si nota attualmente – per dirla educatamente – almeno un eccesso di disinvoltura. Oltre vent’anni fa, spiritosamente, Odo Marquard metteva in evidenza un divertente paradosso, tipico dei nostri tempi, che può venire espresso così: è proprio nella modernità, cioè nell’epoca della crescente perdita dell’esperienza, che prosperano le scienze sperimentali.11 Proprio là dove diminuisce la capacità di fare esperienze, tale capacità viene preservata attraverso la sua delega agli specialisti dell’esperienza, il che conduce all’istituzionalizzazione delle scienze sperimentali (esatte e «dure»). Così, pur permanendo, anzi intensificandosi, la perdita dell’esperienza, la nostra diventa, in maniera sorprendente, l’era dell’empiria sperimentale. In tal modo accettiamo sempre più esperienze che non facciamo personalmente. Le scienze sperimentali adempiono ad un compito che non è privo di aspetti beffardi: promuovono proprio «quella perdita di esperienza per contrastare la quale esse erano state escogitate e istituite».
VIII.
Non si possono però fare i conti adeguatamente con le tematiche del relativismo senza soffermarsi sull’apporto fornito dall’antropologia, soprattutto con quella americana. Questo impone di affrontare in primo luogo la grossa figura di Herskovits, che fu allievo di Boas e che condusse ricerche sulle culture afro-americane (Guayana olandese, Haiti, Trinidad, Brasile) e sulle culture originarie dell’Africa occidentale. L’apporto rilevante, ricavabile dai suoi studi, è una teoria del relativismo culturale che si propone di mantener fermo il carattere universale della cultura, pur facendo cadere l’accento sulla specificità d’ogni singola cultura. Per mettere a fuoco le culture egli si sofferma sui sistemi di produzione e distribuzione dei beni, elementi non disgiungibili dalle forme di organizzazione sociale e politica, senza trascurare l’esame dei valori vigenti in ogni singola cultura, la religione cui, in essa, ci si richiama costantemente, le tecniche cui si ricorre e la produzione artistica.
Il suo sforzo è rivolto quindi a far emergere con chiarezza le differenze che intercorrono tra le culture, senza, però, rinunciare a quei meccanismi di fondo che sono rilevabili, come base comune di funzionamento, in tutte, che consentono, cioè, di fornire una sorta di scheletro fondamentale cui ci si può riferire per spiegare l’attività complessiva di ogni gruppo umano. Per lui ogni società è insieme unica e diversa da tutte le altre. Nel 1947 Herskovits raccomandò all’Onu di rispettare la cultura di ogni singolo popolo e le espressioni degli individui che operano in diversi contesti, secondo forme peculiari loro proprie. I suoi interessi trovarono sbocco nello sforzo di porre le basi per un’antropologia economica. Questo implicava la consapevolezza che le istituzioni economiche dei popoli che si trovano in una fase pre-industriale sono da ricondurre al loro particolare contesto sociologico. La conseguenza da trarne è che risulta abusivo ogni intento di imporre dall’esterno categorie che si mostrino estranee alla peculiarità di ogni singola cultura. L’invito che Herskovits rivolge ai potenti del mondo e alle istituzioni internazionali è chiaro: le categorie elaborate dalle teorie economiche sorte e sviluppatesi in aderenza a determinati modelli nell’Occidente industrialmente «avanzato» non sono senza indebite forzature applicabili a sistemi economici diversi. La parte più fortemente innovativa della lezione di Herskovits sta proprio qui. La polemica è trasparente: si rivolge alla mentalità adagiandosi nella quale ci si convince che da un lato c’è il progresso, che culmina nell’assetto tecnologico delle società cosiddette avanzate, dall’altro c’è l’arretratezza, propria dei popoli addormentati e di civiltà arcaiche che devono venir svegliate dal loro lungo profondo sonno per mettersi al passo con i tempi, bruciare le tappe in un inseguimento che potrebbe, però – viene suggerito – non aver fine e rivelarsi vano. I popoli pre-industriali non si trovano indietro rispetto ad altri, soprattutto a quelli che sono passati attraverso il processo di industrializzazione, ma rispetto ad essi sono semplicemente diversi. Nel secondo dopoguerra Herskovits seguì con attenzione il fenomeno della decolonizzazione e le vicende dell’Africa che stava cambiando.
A mio avviso il contributo degli studiosi americani all’antropologia culturale rappresenta uno degli apporti più originali che siano venuti dalla cultura americana. I pionieri dell’antropologia culturale, tra i quali Herskovits è annoverabile insieme a Margaret Mead, Ruth Benedict e Sapir, hanno scosso alle fondamenta l’idea di un progresso unilineare e messo in crisi l’etnocentrismo.
L’orientamento evoluzionistico ingenuo strettamente legato all’ideologia coloniale era stato già, del resto, sottoposto a una critica pungente da uno dei padri dell’etnologia, Franz Boas. Alcuni dei suoi allievi, in particolare la Benedict e la Mead, raggiunsero negli anni ’20 e ’30 un’ampia notorietà. Queste due illustri signore non hanno trovato buona accoglienza nel libro di Jervis, che le accusa di aver mostrato una forte predisposizione all’«idealizzazione rousseauiana e romantica delle comunità preletterate». Jervis deplora altresì la convinzione che «la mente dell’uomo fosse libera da influenze biologiche e venisse interamente plasmata, fin dall’infanzia, da fattori storici e ambientali ». Il nostro critico non esita ad attribuire alla Benedict, alla Mead, al marito di questa, Gregory Bateson, e all’antropologia americana in genere, residui di una credenza nell’anima. Si rivelerebbe nei culturalisti l’incapacità di superare un’immagine pre-darwiniana della natura umana. Questo indurrebbe alla convinzione che biologico uguale cattivo e culturale uguale buono, con tutti gli strascichi idealistici e spiritualistici che una siffatta mentalità inevitabilmente recherebbe con sé. In Jervis la demolizione delle teorie degli allievi di Boas serve da premessa per affrontare una critica alle radici dell’antipsichiatria in una parte consistente del suo libro. Qui Jervis traccia un segmento della propria autobiografia, perché con il fenomeno dell’antipsichiatria egli ha avuto direttamente a che fare, fino ad esserne un riconosciuto esponente. La palinodia che ora egli pronuncia non manca di aspetti anche molto interessanti. Il pentimento aguzza lo sguardo e la diretta esperienza di posizioni interessate, spesso spinte ai limiti dell’assurdo, sa mettere in evidenza le incongruenze che minavano dall’interno un tale indirizzo.12
Resto dell’idea che l’antropologia, già negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando, tra l’altro, si stabilì un pur non facile rapporto tra questa disciplina e la psicoanalisi, costituisca una delle esperienze più stimolanti di un momento storico che ormai ci siamo lasciati alle spalle. Nel periodo tra le due guerre, la fascinazione esercitata da luoghi lontani ed esotici, per idealizzati essi possano essere stati, ha svelato un’ansia reale che stava manifestandosi in un continente ferito, il quale stava passando da un festino di morte ad un altro ancora più orrendo. Questo alimentò una brama di evasione verso paesi nuovi o antichissimi, in cui si cercavano esperienze inedite e la possibilità di attingere a energie fresche. Fu certo spesso semplicemente una fuga e non mancarono antropologi che rimasero presso i popoli che avevano eletto ad oggetto non solo di studio, ma d’amore, e si inibirono la strada del ritorno. Era una fuga cui Nietzsche aspirò senza attuarla, cui Rimbaud invece s’indusse. Si trattava di lasciare dietro di sé un’Europa estenuata, per approdare a nuovi lidi, per far esperienza di luoghi dai colori più intensi ed accesi. Gli americani non furono da meno: magari ingenuamente, si aprirono a modi di vivere che per loro costituivano mondi diversi dall’Occidente, cui seppero accostarsi con rispetto. L’animus che è dato cogliere negli studiosi americani di etnologia è apparentato, a mio avviso, a quanto di meglio, anche sul piano politico, ha saputo esprimere quell’America che è ancora pervasa dallo spirito dei pionieri.
È l’America che vuole essere ancora in cammino, che sente di far parte integrante di un’avventura non ancora conclusa, che si contrappone ad un’altra America, posseduta dall’idea che gli Stati Uniti abbiano il diritto di intervenire da per tutto, nel mondo, per indurre i popoli recalcitranti, con le buone o con le cattive, ad accettare il modello di vita americano, che viene identificato senz’altro con il bene. Si tratta, nel secondo caso, dell’America che pretende di salvare il mondo e giustifica, a causa di questa convinzione, anche l’aggressione armata, facendo proprio il mito nefasto della guerra preventiva. L’Occidente, al cui centro dovrebbe situarsi una tale America ebbra di sé, non riesco ad accettarlo come qualcosa di cui io debba far parte. Non mi ci riconosco. Non voglio attribuire a un mondo siffatto alcun tipo di supremazia rispetto ad altri mondi, che la mentalità esaltante la superiorità dell’Occidente bellamente ignora.13
IX.
Ciò che costituisce la dignità del particolare «relativismo», così come esso s’è manifestato nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento al concludersi della prima metà del secolo che gli è seguito, è la passione per una scepsi che definirei ardimentosa, che mai tende ad eludere i grovigli riservati al pensiero da una problematicità che non si concede tregue o momenti di riposo, che è pronta a ripartire, in qualsiasi momento, per un nuovo viaggio, cui si affida senza alcuna garanzia di essersi assicurata il ritorno. È la cultura europea del primo Novecento, animata da una vera e propria fame di vita. È l’Europa filosofica di Dilthey e della Lebensphilosophie cui ci siamo richiamati più volte. È la rivendicazione del valere dell’esperienza vivente, della Lebenswelt su cui hanno insistito Husserl e la fenomenologia, e che impregna di sé quel periodo d’incanti che è stato l’impressionismo francese, nel quale ci si proponeva di attingere ad un nuovo più forte sentire, ad un’intensità da far nuovamente propria.
È, questa, un’epoca che, affidandomi agli occhi della memoria, sarei tentato di definire come l’ultima età dell’oro della letteratura, che è stata segnata dalle avventure colme d’azzardo della pittura e della grande musica nuova da un fiorire delle forme espressive che teme pochi confronti con epoche precedenti. Lo spirito di scoperta raramente ha trovato accensioni più forti di quelle cui s’è offerta in tale periodo di infervorata ricchezza.14 Un’intelligenza come quella sbalorditivamente acuta di Paul Valéry solo allora poteva manifestarsi. Sono gli anni, tra l’altro, quelli che indico, che hanno favorito il sorgere di quell’esercizio di libera intelligenza, simile al vagabondaggio, che è la saggistica, genere animato da una curiosità onnivora. L’intero continente europeo, prima di precipitare, sgomento, nel disastro, fu solcato da vere e proprie scariche elettriche che ne stimolavano l’energia e il gusto di vivere. La figura che mi sembra raccogliere in sé, fino a diventare emblematica, la curiosità inesauribile e la voglia di vivere di un’intera epoca e i suoi incanti, mi sembra quella di Georg Simmel, straordinario saggista filosofico, per il quale non mi pare improprio riprendere, conferendole un nuovo significato, una vecchia definizione come quella di libero pensatore.
Simmel lotta continuamente con dubbi che stimolano la sua sottigliezza e mette a dura prova, continuando ad amarla, però, e a rispettarla profondamente, la verità. Cimentandosi all’inizio della sua attività con determinati aspetti del positivismo, avvicinatosi poi al neo-kantismo, egli ha affrontato i nodi più intricati della conoscenza storica e s’è dedicato a un lavoro monografico e saggistico, regalandoci magnifiche ricostruzioni della vita e dell’opera di figure come quelle di Kant, di Goethe, di Schopenhauer, di Nietzsche e di Rembrandt. Simmel si trova di fronte ad una molteplicità di mondi (religione, filosofia, arte, scienza) che coesistono fondandosi ciascuno su un proprio principio organizzativo. Nell’individuo tali mondi si trovano l’uno accanto all’altro, senza richiedere mai una conciliazione definitiva. La pluralità dei mondi rimanda ad una concezione «biologica» della vita spirituale, in cui agisce una tendenza organica che esprime l’auto-potenziarsi della vita, la quale scarta come falso tutto ciò che può risultarle dannoso. La tendenziale unità tra verità e utilità vitale che in tal modo si istituisce avvicina Simmel a William James, a Bergson e a Nietzsche. Nell’ultima fase dalla sua riflessione filosofica, che prende l’avvio dal saggio del 1912 Sulla filosofia della religione, si delinea una concezione secondo la quale la vita si manifesta come contrasto tra lo spirito e le sue stesse forme. Tale contrasto, che non può mai sfociare in una verità definitiva, è l’insieme della lotta contro la non-vita, che è mera esistenza, come tale accidentale, sempre esposta al rischio del non-senso, e contro l’irrigidirsi delle forme che la porta a cadere nella non-verità. La vita fluisce ininterrottamente, brilla per un attimo e subito scorre via. La metafisica della vita, quindi, non può trovare espressioni adeguate della sua verità. Un simile contrasto tra vita e forme è l’elemento in cui vive la vita stessa. In tale visione la morte non è meramente cessazione della via, ma anche il suo limite immanente in un’anticipazione che presuppone un’esperienza del tempo diversa da quella della successione dei suoi momenti (gli «ora»). Sono qui avvertibili punti non irrilevanti di consonanza con Heidegger, il cui Sein zum Tode giunge alla sua espressione quasi dieci anni dopo la morte di Simmel nel 1918. Vicino a Simmel è anche Bergson. Si può dire che Simmel si muova entro un cerchio di riflessioni che prefigurano in qualche modo la Recherche proustiana: ma vicinissimo a lui è anche il giovane Lukács, che proprio in questo periodo, in Die Seele und die Formen, manifestò punti di notevole affinità con Simmel stesso, il quale gli fu in qualche modo maestro, ma verso il quale, dopo avergli rivolto un omaggio, mostrò, per ragioni di convenienza ideologica, ben poca gratitudine. E gratitudine non gli fu mostrata nemmeno da Ernst Bloch e da quel Walter Benjamin, il quale, se non altro per essere l’autore dei Passages, avrebbe ben potuto metter in mostra il debito che aveva nei suoi confronti per lo splendido saggio dedicato alla Großstadt. Memorabile, altresì, è lo scritto di Simmel su quella che egli chiama la «tragedia della cultura», consistente nella tendenza perdente delle forme culturali a conservarsi contro la vita, che, dopo aver dato loro corpo, le supera. Nella realtà contemporanea la vita manifesta una crescente avversione, che tende a rendersi definitiva, e le forme perdono sempre di più la loro capacità di resistenza. La tragedia si colloca, nell’ultimo Simmel, alla base del processo stesso di socializzazione. L’individuo è sempre più ribelle nei confronti delle forme e delle istituzioni, e rifiuta in maniera sempre più drastica di sottomettersi alle regole del cosiddetto «vivere civile». Su tale motivo farà leva anche Klages.
Simmel, che è autore anche di scritti di carattere sociale, non senza tentativi di fondare una nuova sociologia, è apprezzato da studiosi americani, che non esitano addirittura a preferirlo, in questo campo, a Max Weber.
Nella produzione simmeliana che riflette sulla realtà sociale contemporanea s’impone crescentemente la tendenza a far cadere l’accento su una conflittualità radicale senza possibilità di soluzione. Anche se è ben conscio del costo che ciò comporta, Simmel è incline costantemente a mettersi dalla parte della vita e a simpatizzare con essa. Il suo pensiero individua il pericolo maggiore nell’irrigidimento, in qualsiasi modo esso si manifesti. Là dove si avverte un irrigidirsi, là si apre una crisi che può minacciare seriamente la civiltà e che può aizzarle contro forze che vengono rese ad essa nemiche. È questo uno dei grandi motivi che attraversano, nella prima metà del Novecento, la cultura europea. Per molti versi, esso si rivela a noi, a posteriori, come il più importante, con l’amarezza che viene dall’essere consapevoli che s’è trattato di una richiesta di soccorso che nessuno ha avuto la forza di raccogliere, che è risuonata quindi a vuoto.
X.
Luperini, nel suo confronto con Jervis, ha dimostrato subito di riservare le proprie simpatie al relativismo. È facile capire perché. Il vero nemico da combattere è stato subito da lui individuato nel dogmatismo. Jervis afferma: «L’estrema destra è coerente nel trarre tutte le conclusioni del relativismo culturale»; Luperini ribatte: «A me non sembra che il nazismo o le posizioni dell’estrema destra xenofoba di cui si parla qui, che sostengono la supremazia bianca, sia una posizione di tipo relativista. A me sembra, anzi, che questa sia una posizione di tipo assolutistico, dogmatico». La tenerezza di Luperini per il relativismo, in un primo momento – confesso – mi ha sorpreso, ma presto ho capito: Luperini guardava a quel relativismo che s’è manifestato – come ho cercato poc’anzi di precisare – nella cultura del primo Novecento, nell’esercizio coraggioso della scepsi, ostile ad ogni forma di dogmatismo, fedele ad una pratica critica che non si concede soste, che insorge contro ogni irrigidirsi. Il suo richiamo a Gramsci è sintomatico. Il marxismo, quello che ha prevalso, che si è imposto, in epoca staliniana e dopo, come il quadro teorico del socialismo reale, non ha saputo vedere altro nel relativismo che una forma di retroguardia, che un’espressione di decadenza della cultura borghese, come un segno del prossimo decomporsi di quest’ultima. In questo modo il marxismo s’è condannato all’isolamento, s’è messo da solo al margine del meglio della cultura contemporanea, su cui ha fatto cadere un verdetto di condanna. Luperini ha sofferto di questo al pari di tutti coloro – me incluso – che hanno cercato di battersi – invano – per un marxismo rinnovato e rivivificato. Egli avrebbe voluto un marxismo all’altezza dei compiti che s’era dato, in sintonia con gli aspetti più fecondi della cultura del ’900, che sono stati invece sottovalutati, trascurati, se non addirittura – e spesso è accaduto – avversati. Luperini richiama Gramsci, proprio il Gramsci del carcere, che, a proposito di Pirandello, sostiene che l’opposizione tra dogmatismo e relativismo è l’opposizione tra pensiero arcaico e modernità, quella modernità da cui proviene lo stesso marxismo. La posizione di Jervis, pertanto, gli si rivela diametralmente opposta rispetto a quella di Gramsci, nel quale egli trova giudizi positivi anche nei confronti del futurismo e, in genere, delle avanguardie artistiche. Il che – aggiungo – lo distingue nettamente da Lukács, il quale, data la sua adesione tattica allo stalinismo, ha pronunciato un sommario verdetto di condanna contro ogni forma di modernismo artistico.
Il relativismo ingenuo liquida, irresponsabilmente, la verità; il relativismo raffinato è molto più cauto, mantiene con la verità un rapporto, pur ridimensionandola, negando che vi sia una verità eterna, cioè una verità unica, valida ugualmente per tutti i tempi, ma non relegandone il concetto in una specie di futile limbo. Noi della verità non possiamo fare a meno. È proprio della condizione umana il richiamarsi ad essa. Non solo l’esigenza di attingere alla verità è insopprimibile, ma senza un riferimento ad essa saremmo nell’impossibilità di proferire qualsiasi giudizio. È un tribunale cui dobbiamo ricorrere, su cui sono fondati i criteri cui ci appelliamo. Non possiamo, in primo luogo, sbarazzarci della realtà di fatto e questo ci spinge a ricostruire nella maniera più fedele possibile di cui siamo capaci o almeno con la massima approssimazione quale essa è. Le concezioni della verità, certo, sono tante e, in larga parte, non conciliabili tra di loro, ma l’esigenza della verità non per questo cessa di imporsi in maniera perentoria. Quando ci sembra di esser riusciti in qualche modo a toccare la verità, ci sentiamo meglio rispetto a quando andavamo arrancando, immersi nel vuoto e nel buio. Invochiamo la verità anche quando temiamo che essa possa farci male, che possa porsi contro di noi e mostrarsi spietata nei nostri confronti. Un autore, che viene considerato come il più ostinato tra i detrattori della verità come Rorty non ha mai voluto ammettere questo. Con tono sprezzante egli diceva di essere disposto ad affermare che il concetto di verità non si possa identificare semplicemente con quello di giustificazione, ma aggiungeva che questa per lui non era una ragione sufficiente per ritenere che fosse interessante discuterne. Considerava risolta la tenzone tra i realisti e gli anti-realisti a favore di questi ultimi. Il suo pragmatismo aveva cercato soccorso nei post-strutturalisti francesi, in Foucault e in Lyotard, soprattutto in Derrida. Soffermarsi sulla fradicia questione della verità non era solo per lui semplicemente una perdita di tempo, ma presentava anche i suoi bravi pericoli. Significava arrestarsi, per pavidità, di fronte a quei residui, rilevabile nello stesso illuminismo, quando evitava per una persistenza di servilismo di condurre a termine il proprio salutare compito di demolizione. Le titubanze dell’illuminismo a spingersi all’estremo fanno sì che esso vada ad urtarsi contro un ultimo tenace scoglio. Oggettività e verità devono venir messe da parte, se ci si vuole liberare del tutto dalla religione, che Rorty aborriva e in cui scorgeva la fonte di tutti i mali. Al posto di valori come vero, giusto e bene vanno collocati i valori che, molto meglio di quelli soppiantati, si mostrano in grado di promuovere la democrazia: solidarietà, tolleranza, libertà, senso di continuità (valori che sono propri della tradizione pragmatistica).15 È interessante notare come Rorty colga un’unità di svolgimento che lega il post-modernismo all’illuminismo, che invece – come abbiamo visto – Jervis pone agli antipodi l’uno dell’altro, come inconciliabili. Questo dimostra che la contrapposizione tra paladini della verità (al suo livello elementare, come aderenza alla verità immediata) e relativisti costituisce un aspetto non decisivo. Se per verità s’intende solo rappresentazione fedele della realtà (livello legittimo, ma non esaustivo), relativismo e anti-relativismo si situano all’interno della stessa cultura.
Cini ha posto in evidenza, a proposito della parola «verità», come essa sia una parola ambiguissima.16 Ha ragione, certo, ma come potrebbe essere diversamente? Verità è un termine d’uso in tre ambiti, tra loro difformi: nel discorso della filosofia, nel discorso comune e in quello scientifico. Una volta ci si sia liberati da ogni forma di scientismo, non si può non riconoscere che è alla filosofia che spetta indagarne il significato. Gli scienziati fanno riferimento alla nozione di verità in una molteplicità di modi differenti, a seconda dei vari ambiti specialistici. Vedere nella questione della verità un problema meramente logico è operazione legittima, ma riduttiva, come lo è il forzato limite entro la sfera delle indagini sui vari tipi di linguaggio affrontati dagli specialisti del settore. Le logiche oggi si sono emancipate dalla filosofia, sono diventate tecniche raffinatissime e spesso finiscono per riferirsi ad oggetti eterogenei. V’è, poi, una pluralità di oggetti diversi nell’accostare quel continente smisurato che è il linguaggio, il che è aggravato dal fatto che il linguaggio non rispetta i limiti che via via gli vengono assegnati dalle definizioni degli studiosi. Poesia e filosofia se ne infischiano della buona creanza che viene insegnata al linguaggio, il quale costantemente mostra di esser qualcosa di selvaggio, riempiendosi di pretese che dovrebbero essere bollate come indebite. Al «ciò di cui non si può parlare bisogna tacere» di Wittgenstein, Adorno ribatteva che la filosofia non può evitare di parlare di ciò di cui, a rigore, non si dovrebbe parlare, di sfidare, cioè, l’ineffabile. E lo Hoffmansthal di La lettera di Lord Chandos non esitava a scorgere nel linguaggio un’impresa pressoché disperata, sicuramente votata allo scacco, situando, così, la verità dalla parte del silenzio.
Sul logorarsi inesorabile delle vecchie parole della tradizione metafisica s’è soffermata la cultura della prima metà del Novecento, quella che sapeva andare fino in fondo, escludendo il ricorso a qualsiasi scorciatoia. Con le molle va altresì presa anche la famosa contrapposizione vero-falso, dato che – come Aristotele ben sapeva –, anche una proposizione falsa è dotata di significato, mentre una proposizione priva di significato non può essere falsa, o meglio: non può essere né vera né falsa.
Accanto alla verità della proposizione, cui ha dedicato la propria riflessione con straordinario acume Aristotele, nella tradizione platonica s’afferma una verità d’altro tipo: la verità ontologica. Con il cristianesimo si attua un’autentica rivoluzione, grazie a cui la verità viene identificata con Dio. Il Logos s’incarna. Il Vangelo giovanneo dice: «Io sono la via, la verità, la vita». Tale modo d’intendere la verità, riemerge in Hegel, per il quale l’Assoluto è un risultato. Vero e tutto si ricongiungono, anzi s’identificano, al termine del processo dialettico; idea e verità fanno tutt’uno. La struttura del pensiero è anche la struttura del reale. Il vero in sé e per sé è l’Assoluto stesso.
A lungo la verità è stata concepita come corrispondenza, per rendere la quale San Tommaso aveva parlato di adaequatio rei et intellectus. Tale espressione rappresenta quella che è stata considerata come la concezione classica della verità. Concezione che è stata messa, attualmente, in crisi. Nella filosofia novecentesca a provocare tale crisi sono stati soprattutto Husserl e Heidegger. In primo piano balza la aletheia, cioè il disvelarsi della verità, il che obbliga Heidegger a rivedere profondamente il linguaggio della filosofia, a piegarlo a una radicale trasformazione, che ne modifica ed altera i connotati fondamentali, in una ricostruzione della terminologia tradizionale. Questo, e non altro, può autorizzare un accostamento di Heidegger alla febbre di decomposizione e ricomposizione dei linguaggi artistici che pervade le avanguardie, che, per altri aspetti, sono rimaste estranee allo spirito dell’autore di Sein und Zeit e degli Holzwege. Al centro si pone un nuovo rapporto dell’uomo con la verità. La tematica dell’esistenzialismo ne rimane profondamente segnata. Tornano a ripresentarsi, particolarmente in Jaspers, la concezione della verità come autorivelazione dell’esistenza, mentre in Heidegger si tratta di un’autorivelazione dell’Essere, che non è mai completa. L’essere è obnubilato, si rivela a tratti per poi ritrarsi nuovamente su se stesso; l’essere, cioè, si sottrae di nuovo all’ente. Si riafferma la concezione della verità come alcunché che, al contempo, è presente e assente. La verità, ricongiunta all’assoluto, ma ad un assoluto che si concede solo a sprazzi, che si rivela in momenti di non-nascondimento, viene riconsiderata nella sua irraggiungibilità. Riaffiorano così non pochi motivi della tradizione romantica.
Sia che si concepisca la verità come il termine conclusivo di un processo (come meta ultima cui tende lo sviluppo della storia) sia che la si veda come rivelazione di un essere che si offre come un dono sia, ancora, che essa s’imponga come l’irrompere di qualcosa che è in grado di cambiare, nel profondo, la vita di colui nel quale essa si apre come un varco, la verità viene affermata come un dramma (come il dramma per eccellenza dell’esistenza cui i singoli non possono, pena il degradarsi del loro esistere a un vegetare, sottrarsi e che li sprona di continuo a moti d’auto-trascendimento). V’è anche un modo di sentire la verità e di concepirla che la fa assurgere al livello della tragedia. Anzi, si può dire che la verità stessa diventa tragica. Se la verità irrompe solo a tratti nella nostra vita per poi subito tornare a nascondersi, la sua rivelazione è sempre frammentaria. Le schegge, i frantumi di verità possono anche porsi gli uni contro gli altri, dar luogo a contrasti che lacerano nell’intimo la verità stessa, dando addirittura l’impressione di verità divergenti che tra loro confliggono. La verità – intendo dire – può anche mostrarsi nemica di sé e, di conseguenza, entrare in lotta con se stessa. Max Weber, con il politeismo dei valori, e Simmel, con il conflitto dei valori, ci hanno dimostrato qualcosa di molto simile a ciò che ora cerco di dire.
Il relativismo, qualora si mantenga entro limiti ragionevoli, può agire come stimolo salutare all’interno di una ricerca incessante della verità, di qualsiasi tipo siano le motivazioni che la muovono. Nessuno può pensare che oggi vi sia, e operi in quanto tale, una sorta di unità morale dell’umanità. Questa, del resto, non c’è mai stata e sono mitologiche le versioni che se ne sono date proiettando nel passato esigenze che scaturiscono dai tormenti di una crisi in atto. Ma l’impulso che indirizza alla verità è più forte di tutto ed è da concepire in termini di universalità.
Le civiltà che si sono formate nel corso dei millenni della storia e della ricerca umana sono tante, e così le religioni, le quali, per altro, non sono identificabili con questa o quella singola civiltà. Questo non vuol dire che sia giusto concepire le civiltà come entità chiuse e bloccate in sé, per così dire, senza rapporti con ciò che è loro esterno. Le civiltà non sono impermeabili l’una all’altra, ma hanno sempre intrattenuto fra di loro rapporti, più o meno intensi, dando vita a incroci ed ibridazioni, che spesso hanno arricchito le civiltà stesse che si trovavano a comunicare tra di loro. La consapevolezza di ciò intermittentemente s’è manifestata nel meglio delle tradizioni che hanno dato forza e lustro alla grande cultura europea, in un continente che non è stato solo il luogo in cui si sono consumati i misfatti provocati dalla xenofobia e dall’odio razziale. Tale consapevolezza traspare dal saggio di Edoarda Masi, che pone a confronto civiltà diverse includendole in un ben più ampio cerchio, in quello in cui l’uomo lotta per assurgere, attraverso immani difficoltà, al ruolo di soggetto della propria stessa storia. L’ambito più largo in cui il corso molteplice e differenziatissimo, il multiversum, possiamo dire, delle civiltà umane viene assunto e compreso è quello cui veniva un tempo dato il nome di genere umano. E qui s’impone il ricordo della grande cultura tedesca di fine Settecento e degli stupendi saggi che, in tale periodo, Schiller ci ha donato. Ci sorregge, a tale proposito, il pensiero del pellegrinaggio cui l’umanità s’è sottoposta nel corso del suo variegato viaggio d’avanscoperta in terre prima sconosciute. Viaggio pungolato dalla nostalgia per quella patria in cui ancora non siamo mai stati, come mirabilmente messo in luce, sull’ispirazione che gli viene dal Prinzip Hoffnung, da Ernst Bloch. La patria sarebbe raggiunta nel momento in cui si rendesse possibile il libero dispiegarsi del molteplice, in cui si può riconoscere la Versöhnung, così come la concepiva Adorno, la quale lascia sgombero il campo al manifestarsi delle differenze. In questo, una volta sconfitta la dittatura del principio d’identità, potrà instaurare il proprio regno quella che un poeta molto amato da Adorno stesso, Eichendorff, definiva in modo seducente come schöne Fremde (bella estraneità). Luperini ha ben reso, nel suo confronto con Jervis, in evidenza questo motivo, che fa balenare l’avvento di un universale non più ridotto a maschera di questo o quel particolare, ma come universale davvero universale.
Nulla di tutto ciò io trovo nelle scombussolate tenzoni che si accendono, attualmente, su relativismo e anti-relativismo.
Aggiungo che la speranza che si apre in tale prospettiva di non illusoria liberazione non potrà emergere se non sorretta da un rispetto tenace per la verità, dalla volontà di prendersi cura della verità, nella convinzione che essa sia intimamente buona e giusta, e degna di essere perseguita, che sia, quindi, un bene da custodire gelosamente.
1 G. Jervis, Contro il relativismo, Bari-Roma, Laterza, 2006.
2 M. Ferraris, Postmoderno vent’anni dopo, in Tracce. Nichilismo Moderno Post-moderno, Milano, Mimesis Volti, 2007, pp. 165-71.
3 Ivi, pp. 169-70.
4 È lo scientismo, non semplicemente il relativismo, all’origine dei guai culturali del momento. Sul postmoderno ha scritto pagine eccellenti Terry Eagleton. Di recente è uscito, tradotto in italiano, il suo ampio studio su Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa, Roma, Fazi Editore, 2007.
5 Vedasi il primo capitolo del succitato libro di Jervis: I denti della signora Aristotele, Ernesto l’apparizione di un santo cit., pp. 3-29. In questa prima parte del suo libro Jervis procede con brio e in modo avvincente.
6 Ivi, pp. 45-7.
7 G. Fofi, Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza, Milano, Elèuthera, 2006, pp. 89-106.
8 R. Safranski, Romantik. Eine deutsche Affaire, München, Hanser Verlag, 2007.
9 M.P. Lynch, True to life. Why Truth Matters, Massachusetts Institute of Technology, 2004; trad. it. La verità e i suoi nemici, Milano, Raffaello Cortina, 2007, pp. 35-55.
10 Questo è un pericolo che, pur tra i suoi meriti, corre qualsiasi impostazione antropologica del tema del relativismo. Gli antropologi fanno uso di un concetto di cultura che ne rende la parola come mero sinonimo del termine civiltà. La tendenza a concepire le civiltà come entità chiuse è molto forte. Testa ha ben messo in evidenza come non sia affatto plausibile che il pluralismo sociale e politico venga efficacemente difeso dal relativismo culturale e rimanda allo studio di Seyla Benhabib (cfr. infra) sulla rivendicazione dell’identità culturale, in cui si parla di un universalismo minimale per evitare gli effetti più crudi del relativismo stesso.
11 O. Marquard, Krise der Erwartung – Stunde der Erfahrung. Zur ästhetischen Kompensation der modernen Erfahrungsverlust, discorso per il sessantesimo compleanno di H.R. Jauss, ora in Skepsis und Zustimmung. Philosophischen Studien, Stuttgart, Reclam, 1994; trad. it. Crisi dell’attesa – Ora dell’esperienza. Sulla compensazione estetica della perdita moderna dell’esperienza, in Compensazioni. Antropologia ed estetica, a cura di Tonino Griffero (cui si deve anche l’introduzione), Roma, Armando, 2007, pp. 109-38. In questo agile, pur se densissimo saggio, Marquard parla di una crisi dell’attesa. Per lui l’esperienza è il remedium, anzi l’unico remedium contro l’estraneità al mondo. Ciò vale soprattutto quando il principio di realtà perde, in modo crescente, la possibilità di farsi valere. Da questo l’attivazione di processi di infantilizzazione. Richiama a questo proposito Koselleck per l’abisso tra attesa ed esperienza e Jachim Ritter per sottolineare la scissione tra passato e futuro, dovuta ad una crescente velocizzazione. La sua convinzione è che, in tale frangente, spetti all’arte il compito di conservare il mondo.
12 G. Jervis, I denti della signora Aristotele cit., vedasi il capitolo terzo dal titolo Dall’antropologia culturale all’antipsichiatria. Il relativismo culturale e i suoi limiti, pp. 75-126.
13 È giusto parlare, a proposito dell’informazione corrente, di fabbrica del consenso disinformato, ma a chi va addebitata tale fabbrica se non a quei mass-media che prosperano indisturbati, se non a quell’idolatrato «Occidente» del quale non potremmo non fare parte integrante?
14 Di recente è stata ripubblicata una serie di saggi di Alberto Savinio, apparsi la prima volta nel periodo precedente alla guerra ’14-’18 (La nascita di Venere. Scritti sull’arte, a cura di Giuseppe Montesano, cui si deve l’introduzione al volume, e di Vincenzo Trione, Milano, Adelphi, 2007). Un afflato messianico anima questi scritti, teso all’avvento di un’era in cui dovrà cadere ogni ostacolo al «perpetuo fluire della vita».
15 Nel volumetto dal titolo A cosa serve la verità (Bologna, il Mulino, 2007) è contenuta una disputa tra Richard Rorty e Pascal Engel, che funge da difensore della verità. A proposito della verità, devo dire che trovo molto bello il saggio dal titolo Il piccolo libro della verità (Milano, Rizzoli, 2007), di Harry G. Frankfurt. Tra i difensori del relativismo (in senso antropologico) ho trovato garbato, di limpida scrittura ed equilibrato, salvo qualche sbavatura, il libretto di Marco Aime Gli specchi di Gulliver. In difesa del relativismo, Torino, Boringhieri, 2006, nel quale, tra l’altro, vengono affrontate in pagine felici figure molto diverse tra loro come Toynbee, Lévi-Strauss, Caillos, Leiris e Geertz (autore, quest’ultimo, del famoso scritto dedicato all’antirelativismo).
16 Del saggio di Marcello Cini mi ha interessato particolarmente il discorso che egli fa a proposito dell’intuizione come forma capace di comunicare agli altri la natura di «verità». Nei grandi – scienziati o artisti – questa forma è l’invenzione di un vero e proprio linguaggio: Cini ci racconta del chimico Kebulé, che aveva intuito la struttura ad anello della molecola di benzene «avendo sognato un cerchio di ballerine che danzavano tenendosi per mano». E fa seguire a questo un passo che mi sembra straordinario: «In questo caso la danza era il simbolo di un legame flessibile, regolare e stabile che ha suggerito un legame simile per gli atomi di carbonio della molecola in questione». E aggiunge ancora: «Forse però anche i quadri di Matisse potrebbero essere stati concepiti a seguito di un sogno simile. In questo caso la danza come simbolo di grazia e di leggerezza. In sostanza l’invenzione di una metafora appropriata, con la sua ambiguità essenziale, gioca sempre un ruolo fondamentale nella formulazione di “verità individuali”». Cini è un fisico, ma dimostra qui di intrattenere un rapporto intenso anche con la sfera estetica, riconoscendo in essa una sorta di humus sottostante alle diverse attività umane.