«Dantizzare il nostro mondo»
Presenze della Commedia nella poesia di Franco Fortini
Donatello Santarone

Il titolo di questo scritto nasce dalla risposta che nel 1991 Franco Fortini diede ad una mia domanda sul suo rapporto con Dante in occasione di un ciclo radiofonico per Radio Tre dedicato ai classici italiani: «Quando ci si pone la questione se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l’inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato in qualche modo».1 Questa posizione dell’ultimo Fortini (ricordo che egli morì nel 1994), nel suo appassionato corpo a corpo con i classici, ai quali chiede di animare le ansie e le domande del presente, richiama con grande evidenza la conclusione di una recensione del primo Fortini alla seconda edizione delle Rime di Dante curate da Gianfranco Contini, apparsa nel 1946 sul «Politecnico» di Elio Vittorini: «Possiamo smettere di sognare Dante e i suoi tempi, per guardare Dante e i suoi tempi? O dobbiamo invece smettere anche questa archeologia e lasciar Santa Croce ai frati e agli studenti per cercare altrove la traduzione di quella poesia e di quei miti?».2

Tra questi due estremi temporali, che abbracciano quasi mezzo secolo, Dante accompagna la poesia e la prosa di Fortini.

Per la poesia, con la ripresa di temi e stilemi danteschi, come nella Sestina a Firenze, estremo omaggio del 1959 nella raccolta Poesia ed errore all’amata-odiata città natìa (nella quale, tuttavia, Giacomo Noventa negli anni Trenta lo invitava a comprendere e a prendere sul serio quel che il poeta veneto chiamava il «classicismo cattolico» di Dante), o all’uso “figurale” della Commedia, come nella poesia dedicata al fondatore della rivista «Quaderni rossi», il socialista Raniero Panzieri, nella penultima raccolta del 1984, Paesaggio con serpente.

Per la prosa, con i numerosi interventi sulla insostituibilità di Dante, sul suo fondamentale uso didattico, sulla sua traducibilità e riuso. «Quanto a me, – scriverà nel 1981 – sono certissimo che Dante sia oggi quasi l’unico “pan degli angeli” capace di rifar sangue poetico e morale».3 Un giudizio simile a quello del suo grande amico, insigne germanista e interlocutore prezioso negli anni in cui Fortini tradusse il Faust di Goethe, Cesare Cases, il quale, rivolgendo alcuni consigli ad un giovane docente, ricordava che «c’è sempre più verità attuale nella parola di Dante che in tutta l’industria culturale».4 Fino all’estremo omaggio alla terzina dantesca contenuto in un mirabile saggio sulla metrica della Commedia, scritto con l’orecchio e la sensibilità del poeta e del critico finissimo, commissionatogli un anno prima della morte da Maria Corti per un’edizione scolastica del poema curata da Bianca Garavelli.5

Non mi soffermo su queste e sulle numerosissime occorrenze dantesche nell’opera di Fortini. Propongo quindi una lettura-campione di una poesia dell’ultimo Fortini, Gli imperatori dei sanguigni regni, presente nella raccolta-testamento Composita solvantur,6 edita da Einaudi nel febbraio 1994, nove mesi prima della morte del poeta. Il titolo, ci spiega l’autore in una nota, significa: «si dissolva quanto è composto, il disordine succeda all’ordine (ma anche, com’era nel vetusto processo alchemico, si dia l’inverso)».7 Come si legge nella quarta di copertina, probabilmente scritta dallo stesso Fortini,

la tensione della raccolta è data […] dal dissidio fra scetticismo disincantato e convinzione “irrazionale” di un qualche senso della propria esistenza. In questa polarità si gioca tutto: il colloquio con gli amici e la letteratura, l’ira […] e l’ironia, gli inganni e la fatica, la ricerca del sublime e la dimensione falso-ingenua o “leggera”.

La poesia Gli imperatori… fa parte di una sezione intitolata Sette canzonette del Golfo,8 sette poesie di tono ironico, con un andamento prosodico che sembra quello, ha scritto Andrea Cortellessa, di un «Metastasio sanguinante che danza, leggero e moribondo, sui carnai».9 E questo sanguinamento altera la levità cantabile di Metastasio sul quale Fortini innesta l’ira petrosa e crudele di Dante, Tasso e Manzoni. La sezione è collocata in maniera strategica al centro della raccolta che contiene cinque sezioni e un’appendice di “versi leggeri” (light verses) e imitazioni. Mentre la poesia che andremo a commentare, la quarta della sezione, è preceduta e seguita, per conferirle maggiore drammaticità, da due parodistici “quadretti” idillici (Se la tazza… e Come presto…) che richiamano la cantabilità di Saba e Pascoli.

Ma leggiamo il testo.

Gli imperatori dei sanguigni regni
guardali come varcano le nubi
cinte di lampi, sui notturni lumi
dell’orbe assorti in empi o rei disegni!

Già fulminati tra fetori e fumi
irte scagliano schiere di congegni:
vedi femori e cerebri e nei segni
impressi umani arsi rappresi grumi.

A noi gli dèi posero pace. Ai nostri
giorni occidui si avvivano i vigneti
e i seminati e di fortuna un riso.

Noi bea, lieti di poco, un breve riso,
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.

A
B (quasi-rima, in assonanza con B)
B
A

B
A
A
B

C
D
E

E
C
D

Il contesto storico nel quale si colloca il sonetto di Fortini è quello della prima Guerra del Golfo del gennaio-febbraio 1991, quando gli Stati Uniti d’America e i loro alleati, forti dell’imminente disfacimento dell’Unione Sovietica, attaccarono e distrussero in poche settimane l’Iraq di Saddam Hussein, che in precedenza era stato loro alleato nella lunga guerra contro l’Iran. Si tratta della prima guerra, dal 1945, a cui partecipa, sotto comando Usa, la Repubblica italiana, violando l’articolo 11 della Costituzione.

«In quell’anno, – scrive Fortini in una nota esplicativa alle canzonette del Golfo – oggi quasi fatta dimenticare, una operazione di “polizia” tra il Golfo Persico e Bagdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo nuova èra nelle relazioni internazionali».10 Dove va sottolineata la lucida consapevolezza dell’intellettuale marxista che osserva un mutamento epocale nei rapporti di forza geopolitici mondiali, determinato dalla rivincita del capitale sul lavoro su scala planetaria in seguito alla momentanea sconfitta delle forze di ispirazione socialista e comunista (dopo il crollo dell’Urss, così commentò Luigi Pintor: «sento puzza di guerra»). Si affermò allora, in altre parole, un mondo unipolare a guida statunitense che solo nei recenti anni è stato messo radicalmente in discussione in virtù di una crescente richiesta di sovranità e autonomia da parte di quello che è stato definito il Sud globale e grazie all’affermazione della Repubblica Popolare Cinese quale attore centrale nel teatro delle relazioni internazionali. Ma così non era nel 1991 e Franco Fortini ce ne dà un’amara testimonianza.

Gli imperatori… è un sonetto con un sistema di rime atipico nelle terzine. Se, infatti, la rima baciata (e in questo caso identica) tra l’ultimo verso della prima terzina e il primo verso della seconda è presente sia in Dante che in Petrarca (ed anche nel destinatario di tanti sonetti fortiniani, Andrea Zanzotto), la successione delle rime non è usuale: CDE, ECD. Tale inusualità non modifica molto la percezione prosodica del sonetto, ma attesta una microvariazione rispetto ad una norma standard dalla quale il poeta sente di poter deviare forse per accentuare il finto e ironico idillio teocriteo descritto nella seconda parte del sonetto.

Oltre ad adottare una forma chiusa, Fortini attua qui un’efficace congiunzione tra deformazione espressionistica ed esasperazione classicistica: il lessico arcaicizzante («orbe», «occidui»), l’anteposizione degli aggettivi e la sintassi non lineare – intricata da anastrofi e iperbati («irte scagliano schiere di congegni», v. 6; «di fortuna un riso», v.11), oppure da costruzioni marcate – rafforzano, infatti, la violenza rabbiosa delle allitterazioni e di una fisicità spinta fino a una macabra disarticolazione corporea («vedi femori e cerebri e nei segni / impressi umani arsi rappresi grumi», vv. 7-8). Di conseguenza, risulta particolarmente duro il contrasto tra le quartine, incentrate sull’orrore di questa visione infernale, e le terzine, che indugiano sulla «pace» in cui vive il soggetto (vv. 12.14). […] Sono proprio la religione laica dell’arte e la fiducia umanistica nella cultura a essere messe in crisi dal bruciante accostamento appena illustrato.11

Ma andiamo con ordine dal primo verso, «Gli imperatori dei sanguigni regni», che si presenta attraverso il vocalismo contratto di ben sette /i/ e subito richiama «Lo ‘mperador del doloroso regno»,12 cioè Lucifero, di Inferno XXXIV, 28, con identica posizione degli accenti tonici di 4ª e 8ª e con sinalefe iniziale in Fortini e aferesi in Dante per la caduta della seconda vocale. Nell’inferno dantesco l’imperatore era uno solo, l’angelo più bello e più vicino a Dio che osò ribellarsi al re del cielo divenendo il mostruoso re degli inferi (ma Tasso ci presenterà Plutone davanti a un’assemblea di diavoli, nel quarto canto della Gerusalemme Liberata, mentre pronuncia una dura requisitoria contro l’imperialismo cristiano, colpevole, a suo dire, «tutte al suo culto richiamar le genti», IV, 12, 8);13 qui gli imperatori sono molteplici, «truculenti e inarrivabili come divinità pagane a cui tutto sia permesso»,14 quasi Fortini volesse alludere alla santa alleanza che si era stabilita tra le maggiori potenze occidentali. L’enfasi esclamativa di questa prima quartina viene subito messa in rilievo dal sintagma «sanguigni regni», con il forte richiamo interno della quasi-rima consonantica (o rima imperfetta) /-igni/ – /-egni/ che stringe nel secondo emistichio la caratteristica sanguinaria di queste arcaiche e mitiche potenze del male. Inoltre, «regni» rima con «disegni» (rima inclusiva) dell’ultimo verso della quartina, che sono detti «empi o rei» con marcata dittologia sinonimica, e tale ricorso fonico accentua la malvagità degli «imperatori» pronti a compiere, come vedremo nella seconda quartina, azioni feroci e distruttive. Il secondo verso si caratterizza per il ricorso a due parole sdrucciole, «guàrdali» e «vàrcano», con insistenza sulla doppia vocale /a/, che conferiscono un impulso guerresco al ritmo anche grazie agli accenti di 1ª e 6ª e preparano la cupezza della /u/ di «nubi», con inarcatura necessaria ad annunciare i «lampi» e i «lumi», in ricorso fonico con la /u/ chiusa di «nubi» e con l’altra /u/ di «notturni» che precede. Di nuovo una inarcatura che mette in forte evidenza, con la parola «orbe», la dimensione planetaria dei «disegni» imperiali e ci presenta, con il timpano della vibrante /r/ e il pianissimo delle vocali /e/ ed /i/, gli «empi» e concentrati pensieri di morte di questi imperatori.

Nel primo verso della seconda quartina, «Già fulminànti tra fètori e fùmi», si ripete la scansione degli accenti del primo endecasillabo del sonetto, «Gli imperatòri dei sanguìgni règni», ma con l’aggiunta di un forte accento di prima: /Già/. Quel che salta all’occhio e all’orecchio è la preparazione del fotogramma della cruenta carneficina che si realizza attraverso la percussiva allitterazione delle /f/, delle /t/, delle /r/: «fulminanti tra fetori e fumi», con la ripresa della /f/ seguita dalla /u/ chiusa ad inizio e fine verso: «fulminanti» – «fumi». Poi di nuovo, con la bocca spalancata dei due punti, come dice Karl Kraus citato da Adorno,15 si assiste al martellante susseguirsi della macelleria umana fatta di «fèmori» (sdrucciola) e cervelli esplosi, «cèrebri» (anche questa in posizione simmetrica a «fèmori», con ricorso fonico delle finali /ri/ ed entrambe già annunciate da un’altra parola sdrucciola, «scàgliano» del verso 6). Dove notiamo pure i forti accenti di 3ª e 6ª sulle parole che indicano i corpi squarciati. Fino all’esplosione finale dell’ultimo verso della quartina, «imprèssi umàni àrsi rapprèsi grumi», che allinea cinque parole con allitterazioni delle /p/, delle /r/, delle /s/, delle /i/ in concitato asindeto e potente ìperbato per consegnarci in tutto il suo orrore l’immagine dei corpi carbonizzati. Il raccapriccio e lo schifo sono anche e forse soprattutto nella configurazione ritmico prosodica molto particolare: accenti di 2ª, 4ª, 5ª e 8ª, con due sinalefi pesanti e un ictus importante sulla parola «arsi». La fatica della pronuncia accentua l’inferno della guerra.16

È qui che entra di nuovo in gioco la memoria dantesca di Fortini, a partire dalla straziante esclamazione del poeta provenzale delle armi, esaltatore della guerra, Bertran de Born, lodato da Dante nel De Vulgari Eloquentia (II 2 8), e nel canto XXVIII, 140, dell’Inferno raffigurato con la testa troncata dal busto: «partito porto il mio cèrebro, lasso!». Dove troviamo sia il richiamo fortiniano al «cèrebro», sia la stessa tensione allitterativa, in Dante delle labiali /p/, delle dentali /t/ e delle vibranti /r/. Ma è tutto il canto XXVIII, forse il più orrifico del poema nella sua rappresentazione di un’immane carneficina, che si presta ad essere accostato a queste quartine. Senza contare poi le innumerevoli riprese lessicali dalla Commedia: «cinte», «lumi» (parola che compare solo in Paradiso con valore opposto a quello fortiniano), «empi», «rei», «schiere», «segni» ecc., sulle quali naturalmente andrebbe fatto un puntuale confronto semantico che qui non è possibile sviluppare. Ma direi che dalla Commedia derivi a Fortini una più generale vicinanza ritmica e storico-politica.

È inoltre superfluo ricordare quanto in questa quartina ci sia il ricordo dei primi bombardamenti di Bagdad che arrivarono nelle nostre televisioni dalla CNN come fossero fuochi d’artificio partiti da misteriose «schiere di congegni». E in entrambe le quartine risuonano pure echi dall’amato Tasso della Liberata, con il metallico clangore delle sanguinarie armate dei crociati, antenati altrettanto crudeli dei moderni marines.

Infine, le ultime due terzine, con uno stacco netto tra fronte e sirma. Ho parlato all’inizio di falso idillio teocriteo fatto di serena mestizia e letizia di «noi» occidentali, con il pronome ripetuto due volte ad inizio di ogni terzina (ma pure, al plurale, l’aggettivo possessivo «nostri» con forte inarcatura in punta di verso: «Ai nostri / giorni occidui»). «A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri»: dove si noti l’allitterazione «pòrsero pace» (con «pòrsero» sdrucciola) seguita dal punto: uno spezzone sintattico isolato, che riprende esattamente l’identico ritmo del verso precedente, ma invertendone il clima. Tanto quello era angosciante, quanto questo è pacifico. «Noi» siamo allietati da una natura generosa e rigogliosa, con l’insistita allitterazione della /v/ nell’emistichio «si avvivano i vigneti» (in quasi-rima consonantica con i «seminati» del verso seguente); «noi» siamo beati dalla essenzialità di «un breve riso» (in rima identica con il v. 11), di un paesaggio arioso, della «gloria certa» riservata alla poesia. E «i chiusi inchiostri» del penultimo verso, quasi una paranomàsia con ricorso fonico di /u/ chiusa ed /o/ aperta e che danno il titolo ad una splendida raccolta di saggi fortiniani di Pier Vincenzo Mengaldo,17 alludono con calcolata ambiguità sia al necessario recinto metrico-stilistico che ogni poesia si deve dare per potersi realizzare, cioè una norma socialmente e letterariamente riconoscibile, sia, all’opposto, a un claustrofobico spazio di autosufficienza, intransitivo e intoccabile.18 Il tutto impreziosito da parole nobilitanti come «occidui» (che però allude al tramonto di quella pace irenica che ci garantirebbero gli dèi minacciosi), «avvivano», «serbano» (di nuovo entrambe sdrucciole in posizione come sempre rilevata).

Questa atmosfera di sospensione sognante, di attonita serenità che un destino celeste ci consegna, richiama una condizione analoga a quella del canto IV dell’Inferno, quel Limbo abitato da «li spiriti magni» i quali, anch’essi sospesi, «parlavan rado, con voci soavi» (114). E qui appare una inaspettata corrispondenza con una pagina del Fortini prosatore, in un libro del 1963, Sere in Valdossola (che contiene anche le pagine di La guerra a Milano), che ricorda la sua partecipazione alla guerra e alla Resistenza. Richiamato alle armi nel 1941, il giovane ufficiale ritorna per una licenza a Firenze nel luglio 1943 e ritrova al caffè delle Giubbe Rosse tutti i vizi della vecchia cultura aristocratica fiorentina.

Alle Giubbe Rosse – scrive Fortini – nulla è cambiato, ormai da anni. Verso le sette di sera arrivano i letterati e i pittori, siedono, dopo un cenno di saluto alla compagnia, nelle sedie di vimini del marciapiede e della piazza o nella saletta interna fra gruppi di vecchi signori che giuocano a scacchi. Parlano rado, con voci soavi, una universale stanchezza dipinta sui volti. Ci sono tutti, o quasi tutti, anche perché nessuno di loro è stato riconosciuto idoneo [al servizio militare] o per alte protezioni o perché affetto da acuto nervosismo o perché l’epidermide – uno di costoro mi ha detto, in tutta serietà – si irrita prodigiosamente a contatto del panno grigioverde. Talvolta, qualcuno corregge le bozze di una antologia di poeti tedeschi o commenta ironicamente le novità comparse in libreria; perché escono ancora libri. Eugenio Montale siede immobile, socchiude gli occhi, soffia piano. […] Come nelle riviste letterarie è buon gusto non discorrere della guerra se non per vaghi, angosciosi cenni, così nelle brevi conversazioni si parla degli avvenimenti – l’avanzata russa, l’occupazione di Catania, il bombardamento di Roma – come di cose lontanissime, strani rumorosi fatti, materia bruta.19

Per concludere. Come Dante, Fortini considerava la politica e la storia due dimensioni fondamentali dell’esistenza; come Dante, Fortini prendeva posizione (come recita una sezione della raccolta Questo muro del 1973) e non amava gli ignavi, gli indifferenti, quelli che Gramsci chiamerà, in un articolo giovanile, «il peso morto della storia»;20 come Dante, Fortini accettava l’ortodossia ma in modo libero e autonomo; come Dante, il quale si nutriva di cultura classica, cristiana, romanza, araba, Fortini attingeva alle più diverse fonti culturali e letterarie, dai classici italiani a Goethe, dalla Bibbia a Marx, da Milton a Brecht, da Proust a Montale, ogni volta attraversandole in modo autonomo, facendole proprie nella modifica e nel riuso; come Dante, esule da Firenze, anche Fortini si sentiva esule dal soffocante ermetismo delle Giubbe Rosse, da Firenze «città nemica» come dirà in una poesia di Foglio di via, in cui non tornerà a vivere dopo la guerra e la Resistenza, decidendo di stabilirsi a Milano, allora città operaia e partigiana, che egli considerava la vera capitale morale e politica dell’Italia.

So bene, tuttavia, che se Fortini oggi ascoltasse questi arditi paragoni, ne avrebbe sorriso. Così, infatti, mi disse nel corso dei dialoghi per Radio Tre: «Mi sento imbarazzato a dire continuamente io e Dante. Ma non trovo che si guadagnerebbe molto in virtù se dicessi Dante e io. […] Tu capisci che stiamo parlando di Dante, non, con tutto il rispetto, di Sandro Penna».21

Ringrazio Stefano Dal Bianco per i preziosi suggerimenti metrici.

Note

1 F. Fortini, Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani con Donatello Santarone [2000], Roma, Bordeaux, 2024, p. 27, corsivo mio.

2 F. Fortini, A proposito delle «Rime» di Dante, in «Il Politecnico», 31-32, luglio-agosto 1946, pp. 54-58, corsivi miei.

3 F. Fortini, Dante “avanguardista”?, in «il Messaggero», 14 luglio 1981.

4 C. Cases, Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio, in Insegnare la letteratura, a cura di C. Acutis, Parma, Pratiche Editrice, 1979, p. 52.

5 F. Fortini, La metrica della «Commedia», in Guida alla Commedia, Bompiani, Milano 1993, pp. 53-70. («A Franco Fortini, lettore desiderato», così scriverà Maria Corti in una dedica all’amico). Questo e altri scritti danteschi si leggono ora nella sezione Fortini e Dante, a cura di F. Diaco, in «L’Ospite ingrato online», 10, luglio-dicembre 2021, pp. 211-294.

6 F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, ora in Id, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014 e 2021.

7 F. Fortini, Composita solvantur cit., p. 85.

8 «La terza parte di Composita è costituita dalle tanto dibattute Sette canzonette del Golfo. Si tratta di una sezione particolarmente controversa, in quanto il riferimento alla crudeltà della Prima Guerra del Golfo – ossia alla grande storia e agli eventi politico-militari internazionali – non solo viene giustapposto senza soluzione di continuità a scenette private e banalmente quotidiane, ma soprattutto viene filtrato e straniato attraverso un tono volutamente leggero e ironico. Il termine “canzonetta”, infatti, se da un lato costituisce un generico rimando all’utilizzo di forme chiuse, dall’altro va preso alla lettera, nella sua accezione tecnica, essendo un’allusione all’ode-canzonetta, forma metrica che dal Sei-Settecento arcadico (Chiabrera, Rolli, Metastasio) passa, poi, a Parini, a Foscolo e, come ballata romantica, a buona parte dell’Ottocento (Manzoni, Berchet, Carrer). Nel XX secolo, sono soprattutto Saba e Caproni a riallacciarsi, in modo novecentesco e problematico, a questa tradizione melica, fungendo da modello per Fortini» (F. Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2017, pp. 326-327). «Sei “canzonette” vengono pubblicate per la prima volta nel 1991 sulla rivista “l’immaginazione” con il titolo da un «Divano Occidentale-Orientale». Di fatto solo la prima e la settima delle Sette canzonette del Golfo possono essere definite, dal punto di vista della forma, delle vere e proprie “canzonette”» (F. Fortini, Canzonette del Golfo. Varianti e inediti, a cura di M. Marrucci, in «L’ospite ingrato», Conflitto/guerra/media, 2, 2003, p.239).

9 A. Cortellessa, Kosovo: il conflitto “diventa” poesia, in «l’Unità», 3 gennaio 2000, p. 3.

10 F. Fortini, Composita solvantur cit., p. 85.

11 F. Diaco, Dialettica e speranza cit., p. 330.

12 In opposizione a Dio, «quello imperador che là su regna» (Inf, I, 124); «lo ‘mperador che sempre regna» (Par, XII, 40).

13 «È chiaro che in tutta la Gerusalemme Liberata il conflitto non è fra Cristo e Maometto, non fra due religioni, ma fra Dio e Satana e che l’Angelo caduto ha un’eloquenza patetica fortissima, come colui che ha saputo combattere Iddio come imperatore» (F. Fortini, Dialoghi col Tasso, a cura di P.V. Mengaldo e D. Santarone, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 87).

14 F. Diaco, Dialettica e speranza cit., p. 330.

15 «Secondo Karl Kraus i due punti spalancano la bocca: guai allo scrittore che non la riempie di cibo nutriente» (T.W. Adorno, Note per la letteratura. 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, p. 101).

16 «I saw the charred Iraqi lean / towards me from bomb-blasted screen, // his windscreen wiper like a pen / ready to write down thoughts for men, // his wind screen wiper like a quill / he’s reaching for to make his will» («Ho visto piegarsi un iracheno carbonizzato / verso me attraverso il parabrezza schiantato, // col tergicristallo che pare una penna / pronta a scrivere pensieri per la Terra, // col tergicristallo che pare uno strumento / che egli afferra per fare testamento», T. Harrison, V. e altre poesie, a cura di M. Bacigalupo, Torino, Einaudi, 1996, p. 151). Sono le prime tre strofe di 92 del poemetto di 184 versi in rima baciata A Cold Coming – Un freddo venire, del poeta britannico Tony Harrison. Nato nel 1937 a Leeds, città industriale dello Yorkshire, da una famiglia della working class (il padre era fornaio), studia i classici greci e latini presso l’Università di Leeds e si immerge nella grande tradizione letteraria inglese (da Blake a Shelley, da Keats a Yeats). Dopo aver molto viaggiato (insegna per un periodo in Nigeria e in Cecoslovacchia, visita Cuba, Mozambico, Leningrado, passa diversi periodi di lavoro negli Stati Uniti), oggi vive a Newcastle. Con Ted Hughes e Seamus Heaney, Harrison è uno dei massimi poeti britannici del secondo dopoguerra (una selezione di sue poesie edite nel 1984 dalla Penguin vendette più di mezzo milione di copie, un record per un libro di poesie.) Come ha scritto il traduttore italiano di Harrison, il poeta e critico Massimo Bacigalupo, siamo in presenza di una «poesia dantescamente “petrosa”, fatta di materia sonora esplosiva: i versi di Harrison possono essere politici, sociali, storici, familiari, autobiografici, metapoetici, ma tendono sempre alla deflagrazione. Insieme alle consonanti e alle rime, spesso ardite, a esplodere è l’apparenza tranquilla della realtà, che viene aperta come una ferita e di cui vengono mostrati i conflitti che stanno al suo interno» (Tony Harrison, biografia). A Cold Coming, sferzante monologo di un soldato iracheno carbonizzato dal fuoco delle armi statunitensi e alleate, fu composto da Tony Harrison in occasione della Prima Guerra del Golfo del 1991, dopo la pubblicazione sul settimanale inglese «The Observer» di una fotografia di Kenneth Jarecke accompagnata da questa didascalia: «La testa carbonizzata di un soldato iracheno si affaccia dal finestrino del suo veicolo bruciato, 28 febbraio. Il soldato morì quando un convoglio di veicoli iracheni in ritirata da Kuwait City fu attaccato dalle Forze Alleate» (T. Harrison, V. e altre poesie cit., p. 187).

17 P.V. Mengaldo, I chiusi inchiostri. Scritti su Franco Fortini, a cura e con un saggio di D. Santarone, Macerata, Quodlibet, 2020.

18 Se provassimo a scomporre la parola “in-chiostri” potremmo azzardare anche ad un terzo significato: la separatezza dei “chiostri” nei monasteri medievali dove però si trascrivono e si tramandano, superando quindi la separatezza e permettendone la diffusione, i manoscritti delle culture del passato.

19 F. Fortini, Sere in Valdossola, Marsilio, Venezia, 1985, p. 21, corsivo mio. Cfr. anche F. Fortini, La guerra a Milano. Estate 1943, a cura di A. La Monica, Pisa, Pacini Editore, 2017, p. 68.

20 A. Gramsci, Odio gli indifferenti, in «La città futura», 11 febbraio 1917, ora in Id., La città futura, a cura di S. Caproglio, Einaudi, Torino 1982, pp. 13-15.

21 F. Fortini, Le rose dell’abisso cit., pp. 25-26.