Cultura tra locale e globale
Un’esperienza grossetana a cavallo del millennio*
Walter Lorenzoni

Ho conosciuto la Fondazione nel lontano 1994, quando a scuola sono diventato collega di Velio Abati che ne era il direttore. Dopo aver seguito un corso di aggiornamento su Carlo Cassola, organizzato dalla stessa Fondazione, e aver frequentemente conversato con Abati intorno ai vari progetti in cantiere, mi è stato proposto di entrare nel Comitato scientifico. Io, all’inizio, ho avuto delle perplessità, perché venivo da una formazione di studi filosofica e avevo paura di sentirmi un pesce fuor d’acqua. Poi, però, mi sono rassicurato, poiché ho capito che non era un circolo letterario per pochi estimatori, ma molto di più e che, quindi, c’era posto anche per me.
Sono entrato quando già erano state fatte cose importanti (la più significativa il convegno «Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione», del 1991, con relativa pubblicazione degli atti)1 e già c’erano state separazioni e nuove entrate nel Comitato scientifico e negli organismi dirigenti. Il punto di riferimento e l’instancabile animatore della Fondazione era il direttore del Comitato scientifico, Velio Abati, che teneva anche i rapporti con il Consiglio di amministrazione che comprendeva i soci fondatori (Cgil di Grosseto, Unipol di Grosseto, Coop Unione di Ribolla, alcuni membri della famiglia Bianciardi) e gli enti locali che si erano aggiunti successivamente (Provincia di Grosseto, Comune di Grosseto, Comune di Roccastrada).
Quando sono arrivato, la sede consisteva in una stanza, condivisa con altri, nella mansarda della Cgil in via Ximenes, e in due armadietti semivuoti, con una biblioteca di una ventina di libri, praticamente da costruire ex novo. Mi sono allora rimboccato le maniche ed ho cominciato, insieme agli altri, a dare il mio contributo nelle diverse attività in campo.
Ciò che fin da subito ho cominciato ad avere chiaro – e che in seguito è diventato anche oggetto delle nostre riflessioni interne e della messa a punto delle nostre strategie – è che la Fondazione si muoveva intorno ad una serie di differenti polarità in qualche modo intrecciate tra di loro. Polarità diverse che, all’inizio, potevano presentare dei rischi di ambiguità, ma che poi, invece, attraverso la ricerca di continuità e di virtuosità tra le varie iniziative, si sono rivelate, a mio parere, la forza e la peculiarità di questo singolare organismo culturale.
La prima polarità è tra valorizzazione di Luciano Bianciardi, da un lato, e apertura a prospettive culturali di più ampio respiro, dall’altro. La seconda, in parte sovrapponibile alla prima, tra dimensione locale e dimensione globale e la terza, infine, tra attività istituzionale e militanza culturale. Quest’ultima, ovviamente, interseca tutte le altre, poiché ogni aspetto precedente può essere affrontato secondo un profilo istituzionale o militante. Tali intrecci sono divenuti chiari e in qualche modo hanno fatto sintesi quando, nel 1999, è nato «Il Gabellino», il periodico della Fondazione di cui sono stato il direttore editoriale.
Lo scopo centrale della rivista era indagare sui meccanismi della produzione e trasmissione di sapere e cultura, di informazione e comunicazione. Insomma, seguendo un’ispirazione bianciardiana, l’industria culturale all’altezza del presente, potremmo dire. Per chiarire meglio il quadro che ho per sommi capi delineato, vorrei ora entrare un po’ più nel dettaglio, soffermandomi su ciascuna delle polarità indicate.
Cominciamo dalla prima. L’obiettivo prioritario della Fondazione è stato, senz’altro, valorizzare Luciano Bianciardi, un autore non sufficientemente conosciuto e apprezzato, e indagare il contesto storico in cui ha operato. E questo andava fatto non nel senso localistico di esaltare una gloria letteraria del luogo, ma considerando la sua eventuale capacità di rispondere ai problemi della nostra contemporaneità. La prima mossa in questa direzione è stata raccogliere e conservare i materiali bianciardiani e, contemporaneamente, promuovere la figura dello scrittore. Ecco allora l’obiettivo di costruire un centro specializzato di studi su di lui: biblioteca, archivio delle carte, pubblicazione della bibliografia, concordanze sulle opere in volume, video, interviste e raccolta di testimonianze, premio tesi, promozione di studi e ricerche – come, ad esempio, quella sul carteggio tra Bianciardi, Cassola e Laterza sulla nascita dei Minatori della Maremma, a cura di Abati2 – e, poi, naturalmente, convegni, con relativa pubblicazione degli atti, che hanno scandagliato diversi aspetti, alcuni del tutto nuovi, della produzione bianciardiana.
Nella valorizzazione del nostro scrittore, oltre ad evitare la sua mortificazione localistica, abbiamo dovuto combattere contro un altro rischio, più subdolo e insidioso, quello, ancor oggi duro a morire, del Bianciardi anarchico. Per noi era chiaro che, sottolineando solo questa condizione scapigliata, irregolare, ribelle – che consente poi di leggere l’autore in chiave, appunto, di anarchismo, disimpegno e autobiografismo –, si correva il pericolo di dare visibilità, quasi esclusivamente, agli aspetti caratteriali e meno essenziali della sua figura intellettuale. Il termine “anarchico”, che, non dimentichiamolo, aveva a quel tempo un significato ed una particolare coloritura politica che oggi si è persa, fu usato la prima volta, per Bianciardi, da Indro Montanelli, in funzione anti-Pci, nel 1962, in un articolo per il «Corriere della Sera», intitolato Un anarchico a Milano.3 La definizione giornalistica ebbe però successo e con tale categoria, poi più volte ripresa, si è affermata l’idea di un Bianciardi individualista, sempre contro, che non sta da nessuna parte e che, non stando da nessuna parte, può essere di tutti, utilizzato secondo le convenienze del momento. In realtà, la nozione di anarchismo non ha alcuna valenza critica e risulta poco adatta per uno scrittore colto come Bianciardi – certamente né dilettantesco né sprovveduto –, della cui opera, invece, va semmai messo in risalto il carattere satirico, morale, con una narrazione che parte sempre da una collocazione e da una presa di posizione verso la realtà sociale in cui si vive. E Luciano Bianciardi stava da una parte precisa – la parte di determinate classi sociali e dei partiti che le rappresentavano –, mosso da un’urgenza etica che, possiamo senza dubbio affermare, costituisce lo specifico della sua militanza culturale. Poi, nella fase finale della sua vita, ha percorso altre strade, ma senza dimenticare mai il suo punto di partenza. La rabbia espressionistica che si manifesta in certi suoi ultimi scritti – e che fa parlare di anarchismo – rivela sempre comunque il senso di colpa che si porta dietro e che è parte imprescindibile della sua identità. Oltretutto, a guardar bene, anche la stessa rabbia non è mai, in Bianciardi, narcisistica e sprezzante, ma è sempre legata ad un’intenzione di protesta e di denuncia, ad una qualche diagnosi, seppure sommaria, di tipo storico. La sua amara ironia non è, dunque, fine a se stessa, ma ha sempre uno sguardo rivolto a denunciare le storture storico-sociali di fronte ai diritti e alle istanze della ragione.
Man mano che andavamo approfondendo il lavoro sul nostro autore, è emersa la necessità, seguendo proprio una prospettiva ed uno spirito bianciardiani, di fissare l’attenzione sul presente. Ed ecco così l’inizio di una serie di attività culturali su alcuni snodi della vita nazionale e della cultura contemporanea che Bianciardi aveva vissuto in prima persona ed esplorato nella sua opera: il rapporto tra letteratura e mezzi di comunicazione di massa, il contrasto centro-periferia, le contraddizioni della formazione dello Stato italiano, l’attenzione ai processi di produzione e trasmissione culturali. Un simile percorso ha messo insieme tante iniziative (dai corsi di aggiornamento per insegnanti agli incontri con gli autori nelle scuole, dal censimento sui giacimenti culturali del territorio all’approntamento di strumenti bibliografici – ad esempio, Zanzotto, Ginzburg, Pratolini – pubblicati nei «Quaderni» della Fondazione, prima con Giunti e poi con la Società Editrice Fiorentina). Su due di esse vorrei brevemente soffermarmi per dare l’idea di che cosa intendevamo per ampliamento ed apertura a «prospettive culturali di più ampio respiro» e di come interpretavamo un lavoro che volesse anche rendersi autonomo da un punto di partenza esclusivamente bianciardiano: il «Fondo autori contemporanei» e «Scrittori di pace».
Il «Fondo autori contemporanei» è partito dall’idea di chiedere a poeti e narratori di farci avere, in copia o in originale, i materiali editi da loro conservati, con speciale attenzione a quelli di più facile dispersione, magari usciti in giornali, riviste, edizioni di piccola tiratura. Insomma, ciò che viene definita la “letteratura grigia”. Lo scopo era catalogare e mettere a disposizione degli studiosi questi materiali che sarebbero stati via via aggiornati e poi schedati. La risposta è andata ben oltre le nostre aspettative. C’è stata una grande disponibilità da parte di tanti autori – alcuni anche molto noti (ad esempio, Alfredo Giuliani o Claudio Magris) – e, alla fine, si è arrivati a oltre 200 scrittori, in lingua italiana o in dialetto. Un’operazione simile è stata poi ripetuta con le riviste di cultura, dando vita ad un fondo specifico ad esse riservato che ha superato le 100 testate.
L’altra iniziativa che ha per me rappresentato un vero e proprio fiore all’occhiello delle attività della Fondazione è stata «Scrittori di pace», con un’apertura addirittura di tipo internazionale. Se mi permettete la battuta, abbiamo preso estremamente sul serio e quasi alla lettera la metafora bianciardiana di Grosseto come Kansas City, città aperta ai venti e ai forestieri! Il progetto, sostenuto dalla Provincia di Grosseto, consisteva nell’ospitare uno scrittore proveniente da aree di conflitto. Egli doveva visitare i luoghi del territorio, incontrare persone e realtà istituzionali, confrontarsi con studenti, fare conferenze e portare una testimonianza sui problemi della sua zona di origine. Successivamente, avrebbe dovuto scrivere di questa sua esperienza in Maremma ed il volume sarebbe stato pubblicato, in lingua originale e in italiano, sui «Quaderni» della Fondazione.
La seconda polarità che ho indicato e che vorrei ora mettere a fuoco è quella tra locale e globale. Teniamo presente che allora eravamo nella stagione dei movimenti per una nuova globalizzazione e contro quella puramente economicista di marca neoliberista. Usando uno slogan di provenienza ambientalista si diceva che occorreva «pensare globalmente e agire localmente». La dimensione locale era per noi imprescindibile. Infatti, è nel territorio che reperivamo i fondi, i finanziamenti, le strutture per svolgere le nostre attività. Ed è sempre nel territorio che dovevamo trovare le risorse intellettuali per alimentare i progetti più ampi, secondo un criterio che sapesse muoversi tra dentro e fuori, tra valorizzazione delle energie presenti in loco e scambio con l’esterno. Valorizzazione che, laddove possibile, aveva anche lo scopo di sedimentare delle competenze che, cresciute dentro il territorio, sapessero arricchirne anche le potenzialità. Questo irrinunciabile legame col nostro luogo di insediamento, anche al di là di quelle che potevano essere le nostre intenzioni, ci esponeva al rischio di essere risucchiati dentro una logica localistica, sensibile, per intenderci, al richiamo del «piccolo è bello». Proprio ciò ci ha spronato, fin da subito, nei nostri incontri settimanali del martedì, a riflettere sull’argomento e a prendere, conseguentemente, delle posizioni chiare e precise.
Nel Lavoro culturale,4 Bianciardi aveva sbeffeggiato i localisti del suo tempo, archeologi e medievalisti, che si accapigliavano sulle origini della città e gli aveva sbattuto addosso la metafora di Kansas City, simbolo della fede spensierata dei giovani in un progresso ininterrotto, testimoniato dalla costante crescita della periferia. Ma questo localismo arcaico, di tipo ottocentesco, si ripresentava in forme nuove nel presente. Dell’idea di collocare la propria piccola comunità locale al di sopra di tutto, ad esempio, la destra di allora, alla guida del Comune di Grosseto, ne aveva fatto il suo peculiare campo di battaglia culturale. Per noi, quindi, non si trattava di qualcosa di residuale, ma di un fenomeno che si era trasformato nel corso del tempo, rendendosi, per vie traverse, funzionale ai processi di globalizzazione in corso. E ciò non solo perché, in modo abbastanza scontato, la ricostruzione identitaria a livello di piccola comunità sarebbe stata una sorta di reazione uguale e contraria allo sradicamento planetario, ma in quanto risultava uno strumento funzionale alla messa in produzione di un determinato territorio, che entrava direttamente in competizione globale con tutti gli altri, senza più lo scudo protettivo di strutture intermedie, proprie dello Stato nazionale.5 Sul punto in questione, pertanto, bisognava avere le idee ben chiare: non potevamo accettare il nostro “locale” senza discuterlo, senza investirlo di uno sguardo “globale”. C’era, invece, chi – al netto, ovviamente, del localismo – ci consigliava di specializzarci sul locale, ma questo, per noi, avrebbe significato, direttamente o indirettamente, stare dentro una sorta di divisione dei compiti che, poi, nel nostro caso, non era neanche chiaro chi avrebbe dovuto progettare e realizzare, non essendo noi, in sede locale, il punto terminale di una qualche istituzione di carattere regionale o nazionale.
L’ambizione di muoversi tra locale e globale, naturalmente, non significava non essere consapevoli che stavamo parlando da una posizione di marginalità, insieme geografica e sociale. L’intento è stato allora quello di trasformare la marginalità in risorsa. Il titolo della rivista, «Il Gabellino», è lì a dimostrarlo. Il nome, che indica il luogo di confine dove si pagavano le gabelle, è tratto da Aprire il fuoco,6 romanzo di Luciano Bianciardi del 1969, del cosiddetto filone storico-risorgimentale, dove si ha tutto un gioco di discronie che ambientano nel 1959 i fatti dell’epopea risorgimentale accaduti nel 1848. E lì il gabellino segnala il punto di confine e di passaggio tra la libera repubblica di Nesci, toponimo fantastico per indicare Rapallo, e il territorio di Milano, da cui l’esule protagonista è fuggito. Con il titolo della rivista, quindi, si voleva proprio alludere ad uno spazio di frontiera, marginale e insidioso, ma, al contempo, capace di guardare oltre; oltre il punto di vista dominante, per cogliere, secondo un’altra prospettiva, le trasformazioni in atto e costruire nuove forme, più autorevoli e credibili, di aggregazione.
Dico e sottolineo aggregazione perché ci siamo resi conto che la frammentazione e la marginalità che noi sperimentavamo esprimeva la condizione di un pezzo di società collocata in una posizione, al tempo stesso, di subordinazione e di privilegio; subordinazione alla potenza di un’industria della comunicazione capace di ridurre tutto ad un suo ingranaggio e privilegio di potersi muovere liberamente, verso un’autonoma ricerca di un orizzonte di senso delle proprie attività. Per definire questo segmento sociale di riferimento, abbiamo fatto nostro il concetto di «intellettualità di massa», vale a dire quella intellettualità diffusa, nata dai processi di scolarizzazione del secondo Novecento e dislocata, prevalentemente, negli ambiti dell’insegnamento, dell’editoria, del giornalismo e dell’informazione in genere. Così, l’obiettivo diventava riuscire a creare, in una realtà fortemente periferica, un luogo di aggregazione e di dibattito culturale che sapesse stare dentro la stagione dei grandi movimenti del tempo, impegnati, da un lato, per la difesa della pace, la salvaguardia della legalità costituzionale, la tutela dell’ambiente, il sostegno alla convivenza tra culture diverse e, dall’altro, critici nei confronti della globalizzazione in salsa neoliberista.
E infine arriviamo all’ultima polarità che volevo considerare, quella che in qualche maniera le ricomprende tutte: essere istituzione culturale e, al tempo stesso, praticare una militanza culturale.
Nel nostro gruppo di lavoro abbiamo presto avuto la consapevolezza che, in un contesto privo di riferimenti, contrassegnato da forze politiche che avevano perso lo stato di soggetti generali e l’aspirazione ad esserlo, dovevamo consolidare il nostro essere istituzione, da un lato, e, dall’altro, puntare a far emergere il potenziale protagonismo di quella intellettualità diffusa di cui ci sentivamo espressione ed in cui ci muovevamo (a Grosseto fondamentalmente insegnanti e poco più).
Essere istituzione dava una garanzia di credibilità, apriva porte che altrimenti sarebbero rimaste chiuse e permetteva una pluralità di contatti intellettuali che noi, spesso, abbiamo utilizzato per promuovere i nostri progetti, come, ad esempio, quelli del «Fondo autori contemporanei» e delle «Riviste di cultura». Per perseguire la ricerca di una proposta intellettuale autonoma, è chiaro che l’“aggancio” istituzionale ci favoriva, permettendoci, poi, anche delle proposte più spostate sul piano della militanza culturale. All’interno della rivista, lanciavamo discussioni e riflessioni e, di volta in volta, riuscivamo a coinvolgere interi blocchi di interlocutori (insegnanti, redattori, autori); i dibattiti che ne scaturivano venivano in seguito pubblicati sul Dossier del «Gabellino» – il cuore, possiamo dire, dello spirito militante della Fondazione – in rubriche che spaziavano da Luciano Bianciardi alla scrittura femminile, dalla scuola all’intercultura, dalle riviste di cultura alle interviste ad alcuni protagonisti del nostro tempo. Oltre alla consapevolezza, di cui dicevo prima, dell’assenza di precisi riferimenti politici e culturali che avrebbero potuto, in altre epoche, fornirci un quadro generale di supporto, c’era poi anche la certezza della mancanza di una convincente descrizione dello scenario politico-sociale, da cui è derivata, per noi, la necessità di un’attenzione critica autoriflessiva.
Noi non facevamo un’attività politica, né un’attività sostitutiva di quella politica, ma eravamo consapevoli che il nostro lavoro, come amava dire Velio Abati citando Franco Fortini, era una forma storico-politica e, per tale ragione, aveva senso sottoporlo ad un’indagine critica autoriflessiva. Dovevamo far diventare quello che facevamo un campo di riflessione. In questa ottica è diventato essenziale il metodo dell’inchiesta, il più possibile concreto e indispensabile per le risposte che cercavamo. Lo spirito d’inchiesta andava nella direzione dell’elaborazione del concetto di militanza culturale, perché la domanda centrale diventava: qual è il senso storico-politico della nostra attività? La risposta – probabilmente un po’ ingenua, se vista con il senno di poi – è stata questa: praticare un confronto costante con il presente che avesse programmaticamente l’intenzione di mettere in discussione le ragioni stesse dell’agire della Fondazione. Raffronto con l’oggi che doveva produrre un agire pratico-culturale in grado di costruire un discorso pubblico alternativo a quello esistente, mettendo nel mirino le questioni cruciali del presente e sapendosi muovere alla loro altezza. Ci appariva questo anche l’unico modo per far sì che la marginalità divenisse risorsa, altrimenti ci sarebbe stato il ghetto, più o meno specializzato o professionale.
Proverò ora a fare due esempi di come concepivamo la militanza culturale: il primo si muove sul piano teorico ed è relativo al nostro modo di intendere lo specialismo; il secondo, invece, riguarda il piano pratico-organizzativo e si riferisce al nostro impegno per la costruzione di un coordinamento tra le riviste di cultura.
Un tema su cui abbiamo insistito fin dall’inizio e che ricorre frequentemente nei nostri articoli e scritti concerne l’atteggiamento da assumere, come gruppo di lavoro impegnato nel campo culturale, nei confronti dello specialismo disciplinare. Pur svolgendo e promuovendo noi anche attività iperspecialistiche (penso, ad esempio, alla collana degli «Strumenti bibliografici» o al progetto delle concordanze nelle opere in volume di Luciano Bianciardi), abbiamo sempre ritenuto che un certo specialismo (accademico in primis, ma non solo; e poi lo stesso localismo che, in fondo, non è che una forma caricaturale di specializzazione) comporti, in genere, chiusura intellettuale e disinteresse per le domande di senso. La chiusura specialistica è, al tempo stesso, causa ed effetto di quei processi di frammentazione culturale che portano poi alla marginalità di cui parlavo prima. Per noi era necessario, quindi, attraversare lo specialismo a partire dalle nostre peculiarità, scommettendo sempre, a prescindere dalla maggiore o minore ampiezza del punto di osservazione, sulla possibilità di uno “sguardo civile” sulla realtà e di un confronto con le urgenze del presente e con le prese di posizione che esso continuamente sollecita.
Sul piano organizzativo, invece, mi sento di dire che l’esempio più significativo della nostra idea di militanza culturale sia stato il tentativo di costruire un coordinamento nazionale tra le riviste di cultura, quelle, ovviamente, che presentavano prospettive intellettuali simili e avevano un comune orizzonte di riferimento. L’idea era quella di riuscire a creare un percorso condiviso di crescita in termini progettuali e di riflessione intorno alla questione del «far rivista», proprio sfruttando la nostra particolare posizione istituzionale che ci consentiva di diventare un punto stabile di riferimento in un contesto, quello delle riviste di cultura, segnato da frammentarietà, precarietà organizzativa, incertezze economiche e di altra natura. Ci siamo allora mossi con grande dinamismo, andando, innanzi tutto, a prendere contatti con chi, prima di noi, aveva tentato qualcosa del genere e, poi, dando vita ad una serie ininterrotta di iniziative specifiche, come l’organizzazione di un incontro sul tema alla Fiera del Libro di Torino del 2001, l’allestimento di una Mostra-convegno delle riviste di cultura a Grosseto (con relativa pubblicazione degli atti),7 l’effettuazione, nella nostra sede, di seminari sulle e tra le riviste, l’apertura di uno spazio fisso del Dossier del «Gabellino» dedicato al confronto tra redattori e riviste.
Il nostro sforzo per la realizzazione di un coordinamento tra le riviste di cultura puntava, in primo luogo, allo sviluppo di questo mondo, «sia sul piano interno (per esempio, progetti di più ampio respiro irrealizzabili da una sola rivista…), che sul piano esterno (maggiore visibilità e capacità di contrattazione con altri soggetti istituzionali e culturali)». In secondo luogo, poi, l’obiettivo più ambizioso del coordinamento era «far emergere, nell’area delle riviste di cultura che esprimevano un bisogno di soggettività che possiamo definire “umanistico”, un nucleo di soggetti che fosse in grado di costringere altri interlocutori, anche esterni all’ambito delle riviste, ad esporsi riguardo ad un ordine di domande e di problematiche che non erano quelle del pensiero dominante».8 Si trattava, in sostanza, di sollecitare l’intellettualità di massa che esse rappresentavano, e che raramente si riconosce come tale, a venire allo scoperto e a confrontarsi con le sue contraddizioni. L’allestimento di forme stabili di coordinamento si è rivelato, poi, più complesso del previsto, ma è comunque nata una rete di soggetti più vicini tra di loro che si sono confrontati, hanno allargato le loro prospettive ed hanno costruito un tratto di percorso in comune, soprattutto dopo la Mostra-convegno del 2001, che ha visto oltre 120 riviste in esposizione.
In conclusione mi sento di dire che tenere insieme profilo istituzionale e militanza culturale non è stato un elemento di ambiguità, ma, anzi, si è rivelato l’ingrediente essenziale della vita della Fondazione e la sua cifra specifica, cosa che, del resto, ha sempre stupito tanti dei nostri interlocutori.
Quest’avventura culturale è stata, senz’ombra di dubbio, un’esperienza collettiva,9 ma il regista ne è stato sicuramente Velio Abati, di cui siamo ospiti e che vogliamo oggi festeggiare. Io, nel corso del tempo, ho avuto modo di presentare, in questa sede e altrove, il romanzo, le poesie, le prose di Velio Abati,10 ma ciò di cui mi sento di poter parlare con maggiore competenza non riguarda tanto il poeta o il narratore, ma l’organizzatore culturale. Per diversi anni, oltre ad incontrarci, insieme agli altri membri del gruppo di lavoro, nelle riunioni settimanali, nella sede di via Parini prima e della villa lorenese di Alberese poi, abbiamo avuto un confronto pressoché quotidiano, fatto di lunghe telefonate, incontri a tu per tu, chilometri di email per pensare, condividere, mettere a punto, trovare soluzioni, affinare o riproporre qualcosa. È qui che ho avuto modo di cogliere le qualità dell’organizzatore di cultura. Non solo tante idee e creatività nei progetti, ma capacità di pensare immediatamente alla loro esecuzione. E, quando qualcosa si concretizzava, subito un rilancio per allargare continuamente gli spazi e le modalità d’intervento. Un’altra dote di Velio, poi, è la sua incredibile abilità nel costruire reti di relazioni, cosa che gli ho sempre invidiato e che ancora riesce a sorprendermi, anche in questo momento, ad esempio, che sono qui davanti a voi che continuate ormai da anni a frequentare i «Colloqui del Tonale».11 Oltre a tutto ciò, c’è un’altra specifica e rara qualità che va sottolineata e che, al di là della quantità di eventi realizzati, rappresenta, a mio parere, il vero discrimine per definire il valore di un organizzatore culturale: si tratta della capacità di ricondurre ogni iniziativa, dall’incontro alla festa del paesino al convegno nazionale, ad una visione d’insieme, in grado di collocare sempre il proprio agire dentro una precisa idea di politica culturale, capace di tracciarne il senso e la direzione.
Alla fine, colgo così l’occasione per ringraziare Velio di avermi coinvolto in questa avventura – che è stata per me una straordinaria esperienza intellettuale, politica e umana – e per fargli i miei fraterni auguri di buon compleanno.
* Trascrizione rivista dell’intervento tenuto dall’autore il giorno 11 marzo 2023 alla ventesima serie dei «Colloqui del Tonale» di Alberese (Gr), intitolata «Settanta e altre feste». L’esperienza a cui si fa riferimento copre un arco temporale che va dal 1994 al 2006.
1 Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione. Convegno di studi per il ventennale della morte promosso dalla Camera del lavoro di Grosseto, Grosseto, 22-23 marzo 1991, a cura di V. Abati, N. Bianchi, A. Bruni, A. Turbanti, Roma, Editori Riuniti, 1992.
2 La nascita dei «Minatori della Maremma». Il carteggio Bianciardi-Cassola-Laterza e altri scritti, a cura di V. Abati, Firenze, Giunti, 1998.
3 I. Montanelli, Un anarchico a Milano, in «Corriere della Sera», Milano, 2 ottobre 1962, p. 3.
4 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 1957.
5 Cfr. W. Lorenzoni, Valutazioni provvisorie, in «Il Gabellino», Grosseto, III, 3, maggio 2001, p. 1.
6 L. Bianciardi, Aprire il fuoco, Milano, Rizzoli, 1969.
7 Riviste di cultura e industria della comunicazione. Atti della Mostra-convegno promossa dalla Fondazione Luciano Bianciardi, Grosseto, 9-11 novembre 2001, a cura di W. Lorenzoni, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2005.
8 W. Lorenzoni, Riviste di cultura oggi, in Riviste di cultura e industria della comunicazione cit., pp. 23-24.
9 Il gruppo di lavoro di cui si parla in questa testimonianza è stato di fatto costretto alle dimissioni nel luglio del 2006, in seguito ad una martellante e denigratoria campagna stampa che ha assecondato la volontà dei nuovi decisori politici di creare il vuoto istituzionale intorno alla precedente conduzione e gestione della Fondazione Luciano Bianciardi. Per una parziale ricostruzione della vicenda, fatta a diversi anni di distanza, si rimanda a W. Lorenzoni, C’era una volta il «Gabellino», in «Poliscritture», 1 dicembre 2015.
10 V. Abati, Domani, San Cesario di Lecce (Le), Piero Manni, 2013; Id., Questa notte, San Cesario di Lecce (Le), Piero Manni, 2018; Id., Fughe, San Cesario di Lecce (LE), Piero Manni, 2020.
11 La prima serie dei «Colloqui del Tonale» si è tenuta nell’autunno del 2012.