
Scaduti i diritti, i libri di Cesare Pavese piovono da tutte le parti, ristampati, commentati in edizioni economiche o divulgativamente semplificate. Nel caso di questo Il compagno, romanzo tra i meno apprezzati dello scrittore, la rilettura che Stefano Carrai propone nel saggio introduttivo (Storia di un’educazione e di una scoperta) per farne riscoprire il peso e la collocazione nella ricca bibliografia dell’autore è un invito (per molti) a esaminare un testo considerato eccessivamente didascalico e per certi versi viziato da edificante volontarismo. Teso cioè a inquadrare l’esperienza dello scrittore in una sorta di trilogia che, insieme al Carcere e a La casa in collina, ripercorresse le tappe di un tormentato cammino, muovendo dall’antifascismo della clandestinità, attraversando fasi carcerarie e mesi di confino, sfociando infine nel clima della resistenza attiva vera e propria. In effetti non mancano, tra i titoli citati, rimandi allusivi e riprese tematiche che ne associano stile e idee. Il carcere fu pubblicato nel 1948, ma già da tempo era stato elaborato ed avrebbe formato con La casa in collina il dittico di Prima che il gallo canti. Il compagno uscì nei «Coralli» einaudiani nel 1947; nello stesso anno apparvero La romana di Moravia, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Cronache di poveri amanti di Pratolini, tutti partecipi di quella letteratura neorealistica che si dette quale precipuo impegno la riflessione sulla «presa di distanza – sottolinea Carrai – degli strati bassi della popolazione dal potere fascista».
Il carcere rivela assonanze con Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, ma la prosa di Pavese indulge molto a aperture liriche: è meno scientifica, meno antropologica di quella indagatrice del medico: «Stefano accettò – vi si legge – fin dall’inizio senza sforzo questa chiusura d’orizzonte che è il confino: per lui che usciva dal carcere era la libertà: inoltre sapeva che dappertutto è paese, e le occhiate incuriosite e caute delle persone lo rassicuravano sulla loro simpatia». I riferimenti politici sono meno marcati. Prevalgono cadenze da autoritratto esistenziale. Altro registro è quello del Compagno. Il protagonista Pablo deve il suo nome probabilmente all’Hemingway di Per chi suona la campana (1940) e nei tratti rammenta un amico del cuore di Pavese: Libero Novara.
Si tratta di un «romanzo della speranza», fortemente influenzato dallo scrittore americano, che anche Pavese considerava lo Stendhal di quel tempo, come aveva scritto nel Mestiere di vivere, traendo l’ardita comparazione da un celebre intervento di Elio Vittorini. Carrai sostiene che questa storia di formazione è «uno dei capolavori della narrativa italiana della transizione dal fascismo alla resistenza», e mette in scena la tortuosità di un viaggio che conduce alla difficile libertà. Con Levi potremmo dire alla inebriante e disorientata «paura della libertà». Le direttrici hanno a scena Torino e Roma, e in passaggi dai quali emerge la situazione europea allargano non solo geograficamente il campo favorendo una presa di coscienza più acuta. Certi incontri fanno pensare al Visconti di Ossessione, al peregrinante e girovago Spagnolo, ad esempio. Scarpa se n’esce in una battuta che porta in prima piano Germania e Spagna e smonta spietatamente le ingenue illusioni: «Abbiamo contro tutto il mondo, – mi diceva. – Non farti illusioni. È questo che qui non volete capire. Difendono il piatto e la tasca, i borghesi. Sono pronti a far fuori metà della terra, a scannare i bambini, pur di non perdere la greppia e lo staffile. Arriveranno anche in Italia, sta’ sicuro. Parleranno magari di Dio o della mamma». Evidente è la scelta di una lingua popolare, zeppa di dure metafore contadine capaci di comunicare in sintesi la sensazione di imminenti sconfitte.
«Greppia» è la rastrelliera di solito posata sopra la mangiatoia nelle stalle ed è termine assai diffuso in Piemonte. «Staffile» sta per frusta e metaforizza icasticamente un gesto di padronale arroganza. Pavese aveva teorizzato «l’intreccio di dialettalismi e lingua letteraria per rendere più credibili i dialoghi» e setacciare Il compagno da questa angolazione, come si consiglia di effettuare, è probante.
Il romanzo ebbe una buona accoglienza, ma apparve a parecchi inficiato da un certo schematismo, da uno sfondo ideologico da guerra fredda. Invece è proprio l’insieme dei temi toccato, l’insistito scavo nell’intimo dei sentimenti e il faticoso approdo ad una condivisa e entusiasmante visione del mondo che determinano la sperimentale tensione delle pagine di Pavese e le colorano di un’autentica sincerità; non è un caso che di recente (1999) siano state rilanciate liberamente da Citto Maselli in un film che esalta l’impegno politico in anni di amaro sbandamento. Ben lontani, certamente, dal fatidico 1939 che portò da Torino a Roma Pablo, immergendolo nel funambolico e estroso ambiente dell’avanspettacolo della capitale. Sarà Gina, una donna energica e umanissima, a condurre Pablo verso una via costruttiva in un finale un po’ dolciastro. Che si snoda con brio cinematografico in un’aria inaspettata di libertà. Dopo tante traversie Pablo prende in canna Gina. Traversano una Roma di sogno: «Mi faceva un effetto curioso vedere le strade. Tra la prigione e che partivo quella sera, mi sembrava una nuova città, la più bella del mondo, dove la gente non capisce che è contenta». E il fascino di una Roma solare e agreste si confonde agli occhi di Pablo con la nostalgia delle mai dimenticati colline della contratta giovinezza: «Mi venne in mente che a Torino avrei mangiato della frutta e sentito il sapore di Roma così».