Carla Ammannati,
Memorie per un Figlio
Luca Lenzini

Carla Ammannati, Memorie per un Figlio, Roma, Aracne, 2020.

Se non depistante, è almeno denotativo – ma non per questo meno impegnativo – il titolo che Carla Ammannati ha scelto per il suo ultimo lavoro narrativo, Memorie per un Figlio, ricco com’è di voci e invenzioni, di storia e fantasia. Non si tratta, infatti, di un vero “memoriale”, bensì di un romanzo a pieno titolo, nella tradizione modernista; ed anche se la destinazione o dedica al «Figlio», con la maiuscola, dichiara l’intenzione fondante (che può ben dirsi “pedagogica”), lo sviluppo del racconto articola, come in una grande fuga o sonata, il tema del ricordo spingendosi in zone folte di echi mitici, trame psichiche e leggende familiari, senza timore di affrontare tornanti severi e impervi – come quelli delle Apuane che si stagliano nella copertina del libro – ma anche vallate storiche di cornice più prossima: dagli anni della guerra, i Sessanta, fino all’oggi. Una ricerca, dunque, resa in movimento, per nulla statica o uniforme; ovvero un «pellegrinaggio» che si dirama lungo il cammino come un caleidoscopio o prisma riflettentesi nelle figure che vi prendono la parola (Esther, Terenzio, Antimo, Raffaella…), generazione dopo generazione.

Sul piano strutturale l’impianto è dato dal dialogo tra un prete eremita ed una donna, Diego e Luisa, le cui vicende esistenziali si contrappuntano (per insistere sulla metafora musicale) in quel che il Prologo definisce una «drammaturgia» per scene o «quadri» (nove, per la precisione), alla fine ricongiungendosi. Ogni stazione o voce ha il proprio accento, un taglio ed una cadenza che prima ancora dei fatti di cui si narra presentano un ambiente, un ceto ed una diversa prospettiva sul tempo che ne accoglie lo sguardo. Ed è qui, per l’appunto, che il testo mostra la sua forza e rivela il senso della sua scommessa: nel coro che si va formando di pagina in pagina, di voce in voce, nell’intreccio dei destini individuali e delle vicende collettive, offerto in piena luce e senza quell’elemento velleitario e dimostrativo che condanna all’inutilità tanti ambiziosi tentativi che rivisitano la storia comune per farne premio e consolazione al fruitore-consumista. La matrice tragica di quella storia, invece, affiora in queste Memorie plurali naturalmente, quasi un paesaggio abbagliante e rimosso visto per un attimo dal finestrino di un treno in corsa: così se alle pause, ai ricorrenti silenzi ed ai minuti eventi che ogni volta cadono nello svolgersi dei capitoli – il sole che disegna una striscia sul pavimento di mattoni, un lontano abbaiare di cani, la civetta che si fa sentire dal bosco – spetta di far risuonare una vibrazione soggettiva, interiore, nel testo, il fulcro di tutto il coro dei padri e delle madri e dei figli è un nucleo di dolore irredento che non ammette compromessi e conciliazioni, bensì soltanto richiede uno sforzo di conoscenza; ed un appello etico, dunque, muove non solo alla volta del Figlio, bensì del lettore. Agnizioni, morti indicibili, ritrovamenti, storie dentro storie di passioni e sviamenti costituiscono la trama profonda, in questo senso “classica”, del mosaico drammaturgico che Carla Ammannati ha composto; e forse a tale stoffa di lunghissimo corso rinvia il «corredo» (Prologo, p. 8) che la madre consegna al Figlio, non per caso un profugo dei nostri giorni. Di quel che è “legittimo” il romanzo, in fondo, a suo modo discorre – senza farne trattato, né ostentare saggezze – continuamente, e i sacri arredi e i patrii Penati dovrà trovarli anche lui, Hassan, strada facendo.