
Lévi-Strauss, in un celebre incipit, affermava di odiare viaggi ed esploratori. Sciascia, all’inizio delle sue Cronache scolastiche, più sommessamente confessa di non amare la scuola e di provare «disgusto» per quelli che dall’esterno individuano nel lavoro dell’insegnante un’occupazione idilliaca e piena di gioie. Come mai questo rifiuto così tranciante in uno scrittore che è stato per diversi anni maestro di scuola e nel quale ogni fibra di mente e cuore è permeata da un’inesausta tensione educativa? La lettura del volume di Barbara Distefano Sciascia maestro di scuola può essere molto utile per sciogliere l’enigma. Ma bisogna partire da qui. Dal paragone iniziale sguainato da Sciascia fra il maestro che fa il suo ingresso in classe e lo zolfataro che si cala nel mondo infero delle miniere. La scuola in un remoto paesino della provincia siciliana nei primi anni Cinquanta assomiglia dunque ad un dantesco girone infernale, in cui realmente si patiscono il freddo e la fame. E dove si vive l’esperienza di un’irrimediabile penuria, materiale, morale e intellettuale. Posto di fronte a ragazzi malvestiti, simili a clowns che nuotano in enormi abiti ereditati troppo presto da fratelli e genitori, a ragazzi che durante le ore di lezione pensano solo al momento del pasto, Sciascia si chiede che senso abbia insegnar loro nozioni astratte, probabilmente del tutto inservibili. È il tema cruciale della scuola impossibile. O meglio difficile. Una delle parole più ricorrenti nei registri scolastici redatti da Sciascia fra il ’49 e il ’57, e meritoriamente riportati dalla Distefano in calce al volume, è «difficoltà». E così come davanti all’interrogativo sul come si può essere, oggi, siciliani, Sciascia soleva rispondere «con difficoltà», allo stesso modo, secondo la studiosa, risponderebbe alla domanda su come si può insegnare. Le principali fra queste «difficoltà» sono dunque tre: di motivazione, di lingua e di memoria. Sulla prima grava una pesante ipoteca di classe. Quell’ingiustizia sociale che rende tutti i piani dell’esistenza spogli di senso. La seconda è uno specchio della prima, in quanto Sciascia, molto gramscianamente, è ben conscio del valore d’emancipazione che assume la conoscenza della lingua italiana in un contesto così disastrato. Per lui è dunque fittamente operante il «sogno a contenuto linguistico» ovvero, come Sciascia spiegherà in La Sicilia come metafora, «l’idea di una lingua a vocazione unificante, capace di rendere tutti uguali»; si potrebbe parafrasare, marxianamente, il sogno di una lingua. Un sogno che stenta a tramutarsi in realtà per via di un ambiente refrattario e indifferente. Nei registri scolastici Sciascia parla in modo sconsolato di una «naturale reazione d’ambiente». A scuola si sconta peraltro una pervasiva «diseducazione delle masse nei confronti della “parola”» che Sciascia coglie in modo cristallino, quasi premonitorio, nella sua critica all’embrionale società dominata dalle immagini. Anche la Storia si insegna con estrema difficoltà. Perché è la memoria stessa ad essere poco curata. Gli allievi fanno sforzi immani per ricordare. Negli anni questo scacco della «memoria distrutta» diverrà agli occhi di Sciascia uno dei nodi più spinosi della nostra società. E in questo sarà molto vicino, secondo la Distefano, anche al Fortini che ragionava sulla distruzione pianificata della memoria e sul controllo dell’oblio. Ma la scuola di Sciascia deve, nonostante le difficoltà che affronta, anche selezionare. In questo senso rispetto al messaggio di Don Milani ci sono sì affinità di approccio, nel senso della bruciante coscienza delle discriminazioni di classe, ma anche prospettive divergenti. Sciascia non approva l’idea di una scuola di massa in cui tutti vadano indistintamente avanti, perché questo creerebbe gravi danni alla società, visto che persone ignoranti ed incapaci finirebbero per occupare ruoli importanti. Anche perché il difetto della scuola sta appunto in questo, «che i peggiori studiano e – purtroppo – né buonsenso né bocciature li fermano». C’è quindi nelle Parrocchie di Regalpetra una polemica strisciante, e ricca d’umori leopardiani, verso «pedagogisti e gazzettieri», che finiscono per pensare astrattamente, millantando un progresso sociale ed educativo ancora ben lontano. Con accenti che ci paiono memori nientemeno della Ginestra – «A queste piagge / Venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso […] / Qui mira e qui ti specchia, / Secol superbo e sciocco» –, Sciascia quasi a eco scrive: «L’uomo e il cittadino di domani vengano a farselo qui i galantuomini e gli uomini di governo, i pedagogisti e i gazzettieri» (corsivi miei, eccetto «galantuomini»). D’altronde nei suoi registri, come nelle Cronache, l’uso frequentissimo e risentito del deittico «qui» marca, come una dolorosa trafittura, la distanza abissale fra la scuola che lo scrittore vive e quella che sogna: «Qui occorrono molti anni ancora perché la scuola veramente sia scuola» (corsivo mio). Ma Sciascia, anche quando vestirà i panni dello scrittore, si sentirà sempre e comunque maestro. Infatti dichiarerà di non amare tutta la letteratura ma solo alcuni autori, attentamente scelti. Sciascia associa dunque l’idea della selezione, intesa in senso positivo, sia alla scuola, come si è visto, sia alla letteratura. Ne scaturisce, fra l’altro, anche il significativo impegno sciasciano nella stesura, condotta a più mani, di un’antologia di letteratura italiana per le scuole medie. L’antologia uscirà fra il 1980 e il 1982 per i tipi della Palumbo e sarà intitolata L’età e le età. Sicuramente sembra da ascrivere allo scrittore la Prefazione in cui si ragiona sul «tipo d’uomo» che si intende costruire con questo piccolo contributo. E i valori a cui bisogna ispirarsi per forgiarlo sono l’«amore per la giustizia» e la «coscienza del diritto». Anche su questo versante l’autrice ricorda ancora Fortini, che pure lavorò ad un’antologia scolastica, ma per le superiori, intitolata Gli argomenti umani (1969).
La lettura di questo utilissimo volume ci spinge a interrogarci sul come leggere i registri annotati da Sciascia, tenendo in prospettiva i libri del futuro autore. A nostro avviso non solo come deposito di spunti riflessivi o temi che poi saranno sviluppati nelle opere a venire, in primis nelle Cronache scolastiche delle Parrocchie, ma anche come testimonianze di quei momenti pratici in cui l’esperienza scolastica, vissuta in corpore vili nelle classi, ha comportato una decisiva presa di coscienza verso qualcosa di fondamentale. Qualcosa che riaffiorerà, con gli opportuni travestimenti finzionali, in scene precise dei romanzi di Sciascia. Nella e grazie alla realtà dell’insegnamento si sviluppano come delle matrici indelebili che innescano le future traiettorie dell’invenzione letteraria. Allora ci si potrebbe chiedere non solo cosa e come insegnava Sciascia, ma anche cosa ha imparato dalla scuola. In questo senso, il caso annotato nel registro del maggio 1956 ci appare significativo. Esso si presenta agli occhi stupiti dello scrittore come un «fenomeno curioso». Sciascia riporta che durante le visite ispettive, di fronte al Direttore, succede sempre una cosa strana ovvero che «gli alunni migliori si confondono, balbettano, sbagliano; e i peggiori se la cavano con una certa prontezza. Ciò prova quanto è ingannevole un esame – qualsiasi esame» (corsivi miei). A questo punto la memoria va fatalmente al romanzo storico del ’63 Il Consiglio d’Egitto e in particolare al pubblico dibattito fra l’abate Vella e l’Hager sull’autenticità del codice di San Martino tradotto dal primo. La diatriba vede prevalere l’abate, un abile impostore, sul più serio studioso. Ma il personaggio del romanzo più vicino all’autore, l’avvocato Di Blasi, prende le difese dell’Hager, esprimendosi così: «Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità». A partire da questa riflessione Di Blasi trarrà l’idea centrale del libro, sviluppata poco dopo, per cui «la menzogna è più forte della verità». Si tratta in generale di una delle stelle polari dell’universo mentale sciasciano. Il concetto, tra l’altro, viene poco dopo circostanziato dalla considerazione antirousseaiana per cui «il bambino mente come respira». Ma non era stato prima di tutto nell’aula scolastica che Sciascia maestro aveva imparato, davanti agli inutili interrogatorii del Direttore, che la menzogna «sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita»? Qui i confini fra lo scrittore e l’insegnante diventano felicemente labili. È quello che accade con le grandi figure intellettuali, che sempre esprimono se stesse, il proprio spessore in un profilo essenzialmente unitario. Lo potrebbe specularmente confermare anche un’ultima, marginale, ironica notazione. Per Sciascia il meglio di Napoleone scrittore, come recita il titolo di un suo saggio, si sintetizzava infatti in una riga laconica del Napoleone alunno che, quasi vaticinando il proprio destino, aveva scritto da ragazzo, su un quaderno di scuola: «Sant’Elena, piccola isola».