Uno spettacolo ispirato dalla cultura Indiana, di cui la coreografa e i suoi danzatori si sono impregnati durante un soggiorno a Calcutta e nel Kerala, lasciandosi suggestionare ed emozionare da paesaggi, profumi, colori, sapori, simboli e tradizioni.
L’India diviene l’ultima tappa di un viaggio alla scoperta di paesi e città del mondo che aveva già condotto la coreografa e la sua compagnia a Roma, Palermo, Madrid, Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona con la volontà di sempre, di svelare attraverso la danza, paesaggi interiori e frammenti di mondo che raccontano l’uomo e la vita.
Sullo sfondo di morbidi drappi bianchi di seta, mossi da una brezza dolcissima, come danzanti canne di bamboo, si susseguono immagini meravigliose, create dall’appassionata e toccante gestualità di corpi sempre profondamente umani e reali. La scenografia minimalista di Peter Pabst, mette in risalto una danza incisiva e toccante, avvolta dalle luci di un’atmosfera “blues,” in cui ritmi e sonorità dinamiche si alternano a melodie dolcissime e appassionate: blues indiani, musica elettronica, musica etnica, in un cocktail poeticissimo che ipnotizza ed entusiasma.
Bamboo Blues è uno spettacolo da godere con tutti i sensi, un collage eterogeneo, che evoca l’India nei suoi aspetti tradizionali e in quelli contemporanei, con rimandi alla danza, al cinema Bollywoodiano, alla società, alla religione, efficacemente trasfigurati nel linguaggio danzato. È così che, ad esempio, l’intensa e affascinante gestualità della danza indiana si mescola a sonorità del tutto occidentali in un sincretismo di emozioni che godono della libertà di esprimersi aldilà di qualunque codice. Perché sempre, negli spettacoli della Bausch, ci si accorge di quanta sapienza ci sia nell’usare con disinvoltura e candore, nel mescolare e sposare i più disparati elementi, in funzione di un “teatro totale” che irrinunciabilmente si avvicina alla vita. Le braccia morbide e tormentate delle danzatrici, i loro lunghi e sensuali capelli, lo splendore degli abiti di seta, mostrano sulla scena una femminilità, come spesso avviene negli spettacoli della Bausch, appassionata e dolente. Lei, che in genere, è bravissima a scavare dolorosamente nella psiche dei danzatori, non trascura dolenti accenni a violenze culturali o alla sempre irrisolta lotta tra i sessi, in cui è la donna che faticosamente e disperatamente ricerca l’amore. Ma in Bamboo Blues è tutto più morbido, più leggero; più soffici sono le cadute e gli atterraggi dei copi sui corpi. C’è sopratutto tanto dolcissimo amore, allegria, sensualità e gioco, il tutto rivestito da una potente patina di divertimento e di ironia. Strepitosi giochi corali si alternano ad assoli intensi. I “passi alla Bausch”, le sue celebri passerelle di gesti ritmati e perfettamente all’unisono, si servono, in questo spettacolo, di lunghi e morbidi tessuti di cotone indiano con cui i movimenti dei danzatori interagiscono, in una ironica sfilata di sari. Come sempre nei suoi spettacoli, il pubblico è chiamato in causa, è coinvolto, invitato a collaborare, a sentire il profumo del cardamomo e a vedersi passare di fianco i danzatori che, spesso e volentieri, sconfinano in platea. Danzatori eccellenti nella tecnica e potentissimi nell’espressività che sembrano rincorrere il vento per tutto il tempo, da soli, all’unisono o trascinando il partner. Tutto scorre davanti agli occhi degli spettatori: le immagini, i colori, le emozioni si susseguono velocemente. Scorre, travolgendo il pubblico, la proiezione video di una foresta rigogliosa che espande improvvisamente lo spazio e che, lungi dal voler creare un effetto scenografico realistico, gioca con la scena e i corpi danzanti, in un’esilarante alternanza di dentro e fuori, pieni e vuoti, effetto ottico e svelamento dell’effetto.
In tutti gli spettacoli della Bausch c’è un elemento materico che ingombra la scena e che inevitabilmente influenza la danza (terra, acqua, fiori, mattoni); in Bamboo Blues c’è tanta aria e respiro. Con quest’aria quasi palpabile, che diviene metafora perfetta dell’impalpabile poesia della sua danza, con la carezza di questa brezza leggera, che ci sembra di sentire sulla pelle, Pina Bausch saluta i coetanei che hanno ammirato e vissuto i suoi storici spettacoli e saluta noi nuove generazioni, noi che abbiamo avuto poche altre occasioni per assistere dal vivo a quella magia di cui abbiamo studiato, ascoltato, visto in video. Siamo accorsi con entusiasmo, ansiosi di vivere in presenza quella che, a nostro malincuore, è stata l’ultima delle sue poesie. A malincuore adesso, non possiamo fare altro che accontentarci del lascito della sua straordinaria e preziosissima eredità.
Pina Bausch
Coreografa tedesca considerata la “madre” del Teatrodanza europeo.
Nata a Solingen in Germania nel 1940, comincia gli studi di danza con Kurt Jooss e successivamente, grazie a una borsa di studio, si trasferisce in America per studiare presso la Juilliard School of Music di New York. Dopo una carriera di successo come danzatrice, nel 1973 fonda il Tanztheater Wuppertal, di cui è direttrice e coreografa, che è attualmente considerata la compagnia di Teatrodanza più importante al mondo. È soprattutto a Wuppertal che sono nate le sue più famose e rivoluzionarie creazioni: Café Muller, Kontakthof, Arien, La leggenda delle castità, Walzer, Nelken.
Ha ricevuto numerosissimi premi e onorificenze per la sua attività e per il lavoro svolto con il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, tra i più recenti il Leone d’Oro alla Carriera, consegnatole nel giugno del 2007, con questa motivazione:
Tanti gli spettacoli ispirati all’Italia. Nel 1998 venne a Roma, le era stato commissionato uno spettacolo sulla capitale, in occasione del Giubileo dell’anno 2000 e lei creò O Dido, affrontando la città eterna da un punto di vista ben diverso da quello celebrativo, quello delle comunità di emarginati, che si contrappongono alle strade, ai ristoranti e ai monumenti frequentati dai turisti: la periferia e le testimonianze della storia, in fondo non così tremendamente lontane.