Vicinanza dello Zapatismo
Roberto Bugliani

Quando si è stati in Chiapas, non se ne esce più.
José Saramago

Nelle terre zapatiste non comandano le multinazionali, né il Fmi, né la Banca Mondiale, né l’imperialismo, né l’impero, né i governi dell’uno o dell’altro segno. Qui le decisioni fondamentali sono prese dalle comunità. Non so come si chiama tutto ciò. Noi lo chiamiamo zapatismo.

Questa dichiarazione del subcomandante insorgente Marcos dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (tratta dalla Velocità del sogno, parte II, settembre 2004) è costituita da una serie di enunciati che in prima istanza ribadiscono le ragioni poste dal movimento zapatista a fondamento della sua insurrezione e consegnate al trittico «democrazia, libertà, giustizia» sul quale «il nuovo Messico si fonderà, oppure non sarà» (comunicato del 20 gennaio 1994).1 In seconda istanza, la contestualizzazione geografica di tali enunciati («le terre zapatiste»; «qui») e la loro articolazione politica rimandano alla peculiare concezione del potere propria delllo zapatismo, e configurano, a partire dalla praxis, sia l’identità del nuovo soggetto collettivo detentore del potere decisionale («le comunità»), sia i territori in resistenza in cui attualmente si costruisce tale potere, ossia i cosiddetti Caracoles, municipi autonomi chiapanechi creati nell’agosto 2003 in sostituzione dei cinque precedenti Aguascalientes2 e amministrati dalle Giunte di Buon Governo «nate per servire tutti, zapatisti e non zapatisti, e perfino antizapatisti» (Leggere un video, agosto 2004, parte IV). Da ultimo e in ultimo, essi non mancano di affrontare la questione della nominazione, quella del nome da dare a «tutto ciò», ma nel pensiero zapatista la necessità d’una siffatta definizione politica non può che restare sospesa su un piano di indeterminatezza teorica («non so come si chiama»), e se una risposta va opportunamente data, la sua configurazione passa attraverso la relativizzazione del soggetto («noi lo chiamiamo zapatismo»). Se intendiamo tale indeterminatezza non già nel senso di imprecisione o di irresolutezza, bensì come una sorta di principio regolatore favorente l’ampliamento del progetto politico partecipativo attraverso l’aperto confronto delle differenze, essa consente una pluralità di configurazioni relative (mentre, operando per approssimazioni concettuali, la sua inconfigurabilità sostanziale ci pare possa avere un qualche riscontro con le osservazioni lefortiane sulla natura della democrazia)3 e ci ricorda ciò che Fidel Castro disse al futuro presidente venezuelano Hugo Chávez nel 1994 all’Avana: «Voi in Venezuela la lotta per la dignità, la lotta per l’uguaglianza la chiamate bolivarismo. Qui la chiamiamo socialismo. Ma anche se la chiamaste cristianesimo sarei d’accordo». Nel suo discorso di apertura della II Cumbre delle nazionalità indigene latinoamericane (Quito, 20-25 luglio 2004) Humberto Cholango, allora presidente dell’organizzazione indigena della Sierra ecuadoriana Ecuarunari, è ricorso allo stesso concetto allorché ha affermato: «la nostra lotta per una società veramente plurinazionale che ci comprenda tutti, basata sul consenso e la partecipazione diretta, altrove può avere altri nomi, come democrazia, socialismo, cristianesimo o altro».

Ora, tutte queste dichiarazioni sono concordi nel riconoscere la similitudine e la complementarietà di fondo delle diverse lotte per la dignità, per la libertà, per la democrazia, per la giustizia, per la terra condotte dalle organizzazioni indigene e dai movimenti sociali che all’alba del XXI secolo hanno reso l’America Latina un laboratorio politico di estrema importanza, e nel ritenere le progettualità teorico-politiche in cui tali lotte si iscrivono, vale a dire l’involucro del nome, come variabili dipendenti dal particolare contesto storico-culturale che le esprime. Mentre in Europa è venuta meno, con la caduta di muri già lesionati da tempo e l’implosione di sistemi politico-economici ibridi, la progettualità unificante “socialismo”, nell’America centrale e meridionale hanno invece avuto un forte sviluppo le lotte indigene e popolari, dagli zapatisti del Chiapas ai movimenti indigeni e meticci boliviani ed ecuadoriani, dai Sem Terra del Brasile ai piqueteros argentini, dagli awa colombiani ai mapuche di Cile e Argentina, che si sono ramificate in flussi crescenti di resistenze e ribellioni, la cui caratteristica ultima, al di là della relatività delle singole contingenze regionali e delle forme politiche autoctone assunte (i “nomi”), è l’opposizione alle politiche economiche e ai modelli culturali imposti dal centro imperiale alla periferia dei paesi dominati.

Un aspetto qualificante del levantamiento zapatista, che è anche una delle risultanze del suo idioma,4 è di aver instaurato un dialogo diretto, ricco di implicazioni teoriche e pratiche, con la società civile sia nazionale che internazionale, escludendo con risolutezza dal suo orizzonte i partiti politici istituzionali. Nella sua forma originaria le ragioni per cui l’insurrezione zapatista ha individuato nella società civile il proprio alleato naturale sono contenute in questa contrapposizione dialettica, anche sul piano del parallelismo sintattico (nella quale la sintesi è la costruzione dell’«anticamera del nuovo Messico»; Seconda Dichiarazione della Selva Lacandona, 12 giugno 1994), che segna il primo dei due tempi politici ad alta valenza simbolica che qui individueremo.

Quasi tutti i partiti e le organizzazioni politiche grandi e piccole del confuso spettro della sinistra messicana sono venuti, in tempi diversi, a dirci chiaramente che essi ci hanno appoggiato, specificando nei dettagli tempi e luoghi, quantità e qualità. Vogliono riscuotere il pagamento, dalla manifestazione del 12 gennaio fino a tutte le recenti carovane con gli aiuti umanitari. Ci chiedono di appoggiarli nei loro diversi regolamenti di conti, in cambio dell’appoggio che ci hanno dato. Noi non dobbiamo loro assolutamente nulla. Da soli abbiamo cominciato, da soli combattiamo, da soli moriamo; era nostro il sangue, e non loro, che ha illuminato il ’94.

Quasi tutti i senza-partito e senza organizzazione politica, grandi e piccoli, del confuso spettro della società civile sono venuti, in tempi diversi, a dirci chiaramente che non dobbiamo loro nulla, che sono loro a doverci tutto, che non siamo soli, e di cos’altro abbiamo bisogno. A loro dobbiamo tutto, per loro abbiamo cominciato, per loro combattiamo, per loro moriamo; era nostro il sangue, e anche il loro, che ha illuminato il ‘94.5

A partire dalla fine del XX secolo, il movimento zapatista ha contribuito, congiuntamente ad altri fattori a esso esterni, ad avviare un processo di ri-politicizzazione della società civile (messicana non meno che internazionale), per dirla nei termini di Miguel Abensour, il quale, in La Démocratie contre l’État,6 avanza l’esigenza di una revisione critica della nozione di società civile, dopo la storicizzazione hegeliana («la società civile è borghese») e in funzione del «riconoscimento del [suo] significato politico».7 La ri-politicizzazione della società civile comporta anche la ridefinizione, da un lato, della sua natura e delle sue caratteristiche, e dall’altro del tipo di rapporto, segnato da una crescente conflittualità, tra questo attore composito e plurale e la società politica che si identifica con il sistema partitico istituzionale. Come ha scritto il sociologo e fondatore della «Universidad de la tierra» di Oaxaca Gustavo Esteva,

la storia teorica e politica dell’espressione “società civile” è molto complessa e intricata. Negli ultimi venti anni la gente ha abbandonato la tradizione accademica e politica che aveva segnato questa espressione per due secoli e ha ridefinito il suo senso e il suo impiego. [Oggi l’attore non convenzionale “società civile”] esprime sempre più l’azione autonoma della gente a partire dalla base sociale che non soltanto si differenzia dal capitale e dai suoi amministratori statali, ma che si contrappone a essi. Diversamente dalla tradizione marxista […] la “società civile” mantiene l’orizzontalità dei diversi che si definiscono per la loro resistenza e non esige dichiarazioni di fede. In Messico, l’azione dei dannificati dal terremoto del 1985 e l’insurrezione zapatista sono stati i momenti-chiave che hanno dato nuovo contenuto e nuove prospettive all’impiego dell’espressione, il cui significato è oggi una nuova forma di resistenza sociale e di organizzazione politica.8

Secondo l’analista Onesimo Hidalgo, in Messico, e a partire dai due «momenti-chiave» individuati da Esteva, la società civile è andata progressivamente occupando «lo spazio in cui avvengono tutte le battaglie politiche».9 Fino al punto che, scrive il direttore della rivista «Rebeldía» Sergio Rodríguez Lascano, «fu possibile fare politica senza bisogno di essere affiliato a un partito politico o a un’istituzione dello Stato».10 Con la crisi della rappresentanza politica «paradossalmente la sfera del politico si amplia, radicandosi nel seno della società civile», osserva Hernán Ouviña,11 ed è per l’appunto siffatto ampliamento della sfera del politico e l’emergenza in esso di settori eterogenei della società civile quali, secondo la caratterizzazione zapatista, «i cittadini senza partito, le organizzazioni sociali e politiche, i comitati civili di dialogo, i movimenti e i gruppi», a rendere possibile l’acquisizione e l’estensione di una coscienza sociale caratterizzata, scrive sempre Rodríguez Lascano, da «nuove forme di comprensione della realtà» da parte di «un movimento senza avanguardia, che però agisce come una avanguardia che aiuta a dinamizzare nuovi movimenti sociali».12 Un movimento che, prosegue Rodríguez Lascano, «senza essere politico alle sue origini, si è trasformato nel più politico esistente oggi nel nostro paese».13

Per proseguire nella disamina di ciò che abbiamo prima definito i due tempi dell’azione politica “formativa” esercitata dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) sulla “nebulosa” società civile, diciamo che nel suo aspetto maturo la ri-politicizzazione di quest’ultima, che nei suoi termini “pratici” concerne la riconfigurazione del rapporto solidario tra zapatismo e società civile, è riassumibile in quello che il subcomandante Marcos ha chiamato «la sindrome di Cenerentola», esemplificandolo con l’aneddoto della scarpetta rosa.

Adesso dal baule dei ricordi tiro fuori estratti di una lettera che ho scritto più di 9 anni fa a quelli della società civile che giungono nelle comunità: “Noi non vi rimproveriamo nulla, sappiamo che rischiate molto per venirci a trovare e portare aiuti umanitari ai civili di questa parte. Ciò che ci addolora non è la nostra carenza, è vedere in altri quello che gli altri non vedono, la stessa orfanità di libertà e democrazia, la stessa mancanza di giustizia” […] Dei benefci che la nostra gente ha tratto da questa guerra, conservo un esempio di ‘aiuto umanitario” per gli indigeni chiapanechi, arrivato alcune settimane or sono: una scarpetta d’importazione col tacco alto di color rosa, del numero 6 e mezzo, senza l’altro paio. La porto sempre nel mio zaino, tra interviste, fotografie, reportages e presunte attrazioni sessuali, per ricordare a me stesso ciò che siamo per il paese dopo il 1° gennaio: una cenerentola […] Questa brava gente che con sincerità ci manda una scarpetta rosa d’importazione col tacco alto, del numero 6 e mezzo, senza l’altro paio, pensando che, siccome siamo poveri, dobbiamo accettare qualunque cosa, carità ed elemosina. Come dire a tutta questa brava gente di no, che non vogliamo più continuare a vivere la vergogna del Messico? […] No, non vogliamo più vivere così.

Questo successe nell’aprile del ’94. Allora pensavamo che fosse questione di tempo, che la gente avrebbe capito che gli indigeni zapatisti avevano dignità e che non cercavano l’elemosina bensì il rispetto. L’altra scarpetta rosa non è mai arrivata e il paio è rimasto incompleto, e negli ‘Aguascalientes’ si accumulano computer inutili, medicinali scaduti, indumenti stravaganti che non sono buoni nemmeno per le rappresentazioni teatrali e, certo, scarpe spaiate. E continuano ad arrivare cose di questo tipo, come se quella gente dicesse: “poverini, sono molto bisognosi, perciò gli possono servire qualsiasi genere di cose, e a me questo avanza”.

Non solo, ma esiste anche una elemosina più sofisticata. È quella praticata da alcune Ong e da organismi internazionali. Consiste, grosso modo, nel fatto che costoro decidono di che cosa hanno bisogno le comunità e senza consultare nessuno impongono non soltanto determinati progetti, ma anche i tempi e i modi della loro realizzazione. Immaginatevi la disperazione di una comunità che ha bisogno di acqua potabile e invece le affibbiano una biblioteca, che necessita una scuola per bambini e invece le propinano un corso di erboristeria.14

In queste parole del vocero dell’Ezln non c’è solo la critica degli errori in ambito di «aiuti umanitari» commessi da formazioni delle società civili nei loro incontri con le comunità zapatiste del Chiapas. Né vengono qui denunciati unicamente gli sbagli commmessi da alcune carovane di solidarietà nel calcolare le effettive necessità materiali di quelle comunità. C’è molto di più. C’è il fatto che l’incomprensione radicale del tipo e della qualità dell’appoggio solidario proviene da una lettura politica errata dello zapatismo o quantomeno viziata dal modo di pensare eurocentrico. Difatti, prosegue il documento:

Chi appoggia una o varie comunità zapatiste non sta solo appoggiando il miglioramento della situzione materiale di un collettivo, sta appogiando un progetto molto più semplice, ma più impegnativo: la costruzione di un mondo nuovo, un mondo che comprende molti mondi, in cui le elemosine e le compassioni per l’altro appartengono ai romanzi di fantascienza… o a un passato dimenticabile e prescindibile […] L’appoggio che chiediamo è per la costruzione di una piccola parte di un mondo che contenga tutti i mondi. È, dunque, un appoggio politico, non una elemosina.

Il superamento della «sindrome di Cenerentola» che ha contagiato alcuni settori delle società civili messicana e internazionale, auspicata dagli zapatisti in concomitanza con la morte degli Aguascalientes e la loro trasformazione nei Caracoles, è dunque parte integrante della complessiva ri-politicizzazione in atto della società civile mediante le modalità della critica degli errori politici e dell’autocritica per aver permesso tali errori, entrambe espresse dalla Tredicesima Stele in un momento importante ma delicato della storia dell’Ezln quale è stato per l’appunto la nascita dei cinque Caracoles e delle Giunte di Buon Governo.

Un’altra esemplificazione di siffatta ri-politicizzazione (sia ben chiaro, il termine non ha significato impositivo o coercitivo: non è nei cromosomi zapatisti proporre “modelli” chiapanechi, da loro stessi definiti più volte inesportabili) è individuabile in ciò che l’Ezln ha chiamato «la Otra Campaňa» (l’Altra Campagna), la cui esposizione richiede un breve excursus.

Resa nota il 1° luglio 2005 dopo che l’Ezln aveva effettuato una consultazione interna, la Sesta dichiarazione della Selva Lacandona è un documento di notevole spessore teorico e di forte impatto politico, col quale gli zapatisti annunciano di voler intraprendere una «nuova iniziativa politica» sviluppando e articolando la lotta contro il neoliberismo capitalista su un duplice livello: nazionale e internazionale, perché, scrivono, «è arrivata l’ora di rischiare un’altra volta e di fare un passo pericoloso, ma che ne vale la pena». Al termine del bilancio degli ultimi undici anni di storia dell’Ezln che occupa la prima parte della VI Dichiarazione («Ciò che siamo» e «Dove siamo adesso»), gli zapastisti fanno sapere che «siamo arrivati a un punto in cui non possiamo andare oltre», per cui «un nuovo passo nella lotta indigena è possibile solo se l’indigeno si unisce ai lavoratori della città e della campagna». L’appello a costruire sul piano nazionale un «fronte ampio», frutto dell’«accordo con persone e organizzazioni di sinistra, perché pensiamo che esista solo nella sinistra politica l’idea di resistere contro la globalizzazione neoliberista e di costruire un paese in cui vi siano per tutti giustizia, democrazia e libertà», non è nuovo a livello strategico, ma nella VI Dichiarazione viene rilanciato con forza proprio nel momento in cui gli zapatisti parevano concentrati unicamente a realizzare le loro forme di autonomia, e dunque “ripiegati” a consolidare amministrativamente i territori da loro conquistati, applicando unilateralmente gli Accordi di San Andrés sulla cultura e i costumi indigeni sanciti nel febbraio 1996 durante il dialogo di pace condotto dalla commissione dell’Ezln e da quella governativa, ma mai riconosciuti dai governi federali messicani da allora succedutisi.

Sul piano della proposta politica, la Sesta Dichiarazione parrebbe riprendere motivi già presenti nella Prima Dichiarazione della Selva Lacandona del gennaio 1994, nella quale lo Ya basta! zapatista invitava il popolo messicano a ribellarsi per abbattere il malgoverno centrale e costituire un governo libero e democratico. Ma, oltre alla scomparsa nella Sesta Dichiarazione dell’impostazione fortemente militarista presente nella Prima, nella quale l’Ezln dichiarava guerra all’esercito messicano e lanciava la consegna di avanzare in direzione della capitale del paese, la novità della Sesta Dichiarazione consiste da un lato nel diverso contesto politico nazionale e internazionale in cui è maturata e con cui si è misurata nel fornire strumenti di analisi teorica e indicazioni pratiche in un’ottica esclusivamente civile15 della resistenza e della lotta, e dall’altro nella volontà zapatista di rimettersi in gioco in modo radicale dopo i risultati positivi ottenuti nella costruzione dell’autonomia. A differenza, dunque, della Prima Dichiarazione, in cui la prospettiva di lotta politica (in quel caso di tipo insurrezionale) era costretta entro i confini nazionali, nella Sesta il livello della lotta politica nazionale viene costantemente articolato e raffrontato con quello internazionale, mentre la stessa analisi storica e politico-economica dell’attuale congiuntura mondiale si presenta più approfondita e adotta una terminologia più adeguata, anche nell’impiego di parole come globalizzazione e neoliberismo: «Il neoliberismo è la teoria, il progetto della globalizzazione capitalista» (parte III, «Come vediamo il mondo»), a cui il documento ricorre per interpretare la fase attuale del dominio capitalistico mondiale.

Ora, la svolta zapatista annunciata dalla Sesta Dichiarazione e proseguita dall’”Altra Campagna” è iniziata a ridosso delle elezioni presidenziali messicane tenute nel 2006 e si è svolta parallelemente alle campagne elettorali dei principali partiti politici: il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che fino al 2001 aveva governato il Messico instaurando per oltre settant’anni una «dittatura perfetta»; il Partito di azione nazionale (Pan), di orientamento conservatore, che aveva candidato Felipe Calderón a sostituire il presidente uscente panista Vicente Fox, il quale con la sua storica vittoria del 2001 aveva risvegliato le speranze di molti messicani che vedevano in lui un’opportunità di rinnovamento che mai si concretizzò; infine il Partito rivoluzionario democratico (Prd), di centro-sinistra, il cui candidato, Andrés Manuel López Obrador, ex sindaco di Città del Messico, è stato uno dei fondatori dello stesso Prd.

Con il nome di Delegato Zero, perché, spiegano gli zapastisti, «uno Zero, a sinistra, per il mondo dei potenti, non vale niente, e questo vogliamo essere, per cui abbiamo nominato il Sub delegato per essere uno zero in basso e a sinistra», il subcomandante Marcos, assieme ad altri comandanti dell’Ezln, ha percorso in varie tappe e fasi, tra il 2006 e il 2007, tutti i 32 stati della Confederazione messicana, incontrando organizzazioni indigene e meticce, gruppi di base, collettivi universitari e artistici e attivisti sociali, ossia tutti coloro che avevano deciso di partecipare agli incontri raccontando agli zapatisti il mosaico di lotte, ribellioni e resistenze di cui si compone la situazione odierna del Messico profondo.

Proprio in quanto diversa e autonoma rispetto alla campagna elettorale condotta dai partiti messicani, l’”Altra Campagna” ha posto al centro della sua prassi politica l’ascolto.

La Commissione della Sesta [Dichiarazione] ascolterà e così imparerà; conoscerà e valuterà la reale situazione del paese. Al contrario di quello che fanno i candidati dei partiti che si trascinano dietro un mucchio di gente prezzolata e fanno discorsi demagogici, promesse che tutti sanno non si realizzeranno mai, il subcomandante Marcos ascolterà soltanto. Questo è un altro modo di fare politica.

è espressamente annunciato nel comunicato di presentazione dell’”Altra Campagna” (2005).

Contemporaneamente, prendendo posizione in merito alla campagna elettorale ufficiale, gli zapastisti non hanno lesinato critiche circostanziate anche molto dure al candidato della sinistra istituzionale Andrés Manuel López Obrador in quanto rappresentante di un partito di sinistra colpevole di aver firmato nel 2001, assieme al Pan e al Pri, la cosiddetta «legge indigena», che ha snaturato gli Accordi di San Andrés dando il colpo di grazia al dialogo tra governo ed Ezln, e accusato di perseguitare, nei municipi chiapanechi dove è al potere, le comunità indigene zapatiste, in ciò non differenziandosi minimamente dal Pri e dal Pan. «Quando ci riferiamo ai birboni e agli svergognati che sono nel Prd, parliamo e parleremo di coloro che hanno sequestrato il partito, di coloro a cui non importano le idee né i principi, che utilizzano il Prd per interessi personali», ha precisato Marcos nella lettera dell’8 agosto 2005 indirizzata a Benito Rojas Guerrero, un lettore che aveva espresso la sua dissidenza verso l’”Altra Campagna” sulle pagine del quotidiano La Jornada. Non senza aggiungere: «Sono questi birboni e svergognati che dirigono il Prd e circondano López Obrador. E sono loro i responsabili della nostra situazione attuale, perché, oltre quanto da Lei segnalato, noi aggiungiamo le aggressioni che hanno promosso contro di noi».

Malgrado Marcos abbia più volte chiarito che l’”Altra Campagna” non promuove l’astensionismo, bensì l’uso della ragione e il dialogo tra le diverse opzioni politiche della società civile, le accuse zapatiste contro López Obrador hanno innescato una serie di prese di posizione, di polemiche e di attacchi all’”Altra Campagna” da parte di intellettuali vicini al Prd che sono scesi in campo dichiarando il loro appoggio al candidato presidenziale della sinistra istituzionale in nome della politica del meno peggio. Intervenendo in proposito, in un articolo apparso sulla Jornada del 16 agosto 2005, Marco Rascón ha osservato:

L’appello a votare per il “meno peggio” è in fondo un cedimento e una posizione cinica di abbandono delle proprie convinzioni. È un atto di complicità con coloro che sostengono che per giungere al potere (che è così vicino) bisogna spogliarsi dei principi e delle convinzioni, ossia cessare di essere. Il trionfo del meno peggio sarà possibile soltanto se si smette di lottare per il meglio.

E in un articolo sucessivo l’analista politico Carlos Fazio ha fatto notare, in riferimento a un presunto governo popolare che si sarebbe delineato con la vittoria di López Obrador:

Non può esserci governo popolare se l’appoggio non viene strutturato dal basso. Se cioè non ci si appoggia alla gente e non si dà alla gente alcuna possibilità di rendere effettivo tale appoggio. Si tratterebbe dunque di completare tutto ciò con l’altra campagna dell’Ezln, nella prospettiva di un altro progetto di Nazione, della rifondazione del Messico e di un altro modo di far politica.16

La vittoria per solo mezzo punto percentuale del candidato del Pan, Felipe Calderón, su López Obrador avvenuta il 1° luglio 2006 – vittoria ottenuta in sospetto di brogli elettorali, dagli zapastisti denunciati nel corso di un’intervista concessa da Marcos a Radio Insurgente il 4 luglio: «Noi non c’entriamo con l’agone elettorale, ma per una questione etica e morale, come zapatisti, se vediamo qualcosa di mal fatto dobbiamo dirlo, e quello che vediamo è che là in alto hanno compiuto una frode elettorale» -, e dal candidato del Prd mai riconosciuta (in risposta López Obrador si è proclamato «presidente legittimo» e ha dato vita a un movimento di protesta e di lotta e a una sorta di governo-ombra parallelo a quello di Calderón), ha favorito il manifestarsi e l’acuirsi di contraddizioni che erano latenti nella società civile messicana relative al tipo di democrazia da perseguire e al programma politico da condividere.

Se la posizione di netta estraneità all’«agone elettorale» assunta dall’“Altra Campagna” ha implicato, da un lato, la perdita di consensi da parte di un certo numero di esponenti della società civile messicana appartenenti al ceto intellettuale (del resto, già nelle precedenti elezioni presidenziali del luglio 2000, dove in gioco era la nefasta permanenza al potere del Pri, il partito-Stato, gli zapatisti avevano espresso in modo netto la loro posizione dichiarando: «Questa non è la nostra ora»), dall’altro si tratta di una perdita fisiologica di consenso in quanto la ri-politicizzazione della società civile non è affatto un processo indolore né un va-da-sé senza ricadute in negativo. L’”Altra Campagna”, insomma, ha esibito indubbie valenze di novità, ma all’interno della continuità di un discorso politico radicalmente altro com’è quello zapatista: «Come Emiliano Zapata davanti alla poltrona presidenziale continueremo a dare le spalle al Palazzo Nazionale». E nel far ciò «continueremo a guardare verso il basso, verso i movimenti e le tendenze di resistenza e di costruzione di alternative». Perché se «le elezioni passano, i governi passano, la resistenza resta così com’è, un’alternativa in più per l’umanità», si legge in La velocità del sogno (parte II).

Le ragioni teoriche e le modalità pratiche che hanno guidato l’orientamento politico zapatista nel percorso che il Delegato Zero ha compiuto riunendosi con i movimenti di lotta di tutti gli stati messicani sono state quelle riassunte già da tempo nel «camminare domandando» e nel «comandare obbedendo», riproponendosi nello specifico attraverso l’ascolto di ciò che gli zapatisti chiamano «il fiore della parola», perché il progetto stesso della democrazia partecipativa è indissociabile, per dire con Crépon, «da un ascolto a monte delle […] eruzioni (proteste, manifestazioni)» della parola, in quanto il «potere dei senza potere» è «essenzialmente quello della parola – di una parola alla quale il modello della democrazia di equilibrio ha reso, col passare del tempo, le élites politiche sempre più sorde».17 In altri termini, prosegue Crépon, «la democrazia sarà partecipativa a condizione di sostituire alla rappresentazione della parola la condivisione dell’idioma»,18 ossia, come dicono per loro conto gli zapastisti della Sesta Dichiarazione, si tratta di «mettere d’accordo le nostre lotte che adesso sono sole, separate le une dalle altre, e [di trovare] qualcosa come un programma che contenga quello che vogliamo tutti e un piano per riuscire a far sì che questo programma, che si chiama “programma nazionale di lotta”, si realizzi».

Beninteso, tanto la «condivisione dell’idioma» quanto la realizzazione del «programma di lotta» sono possibili mediante una preliminare operazione di intermediazione comunicativa (che per gli zapastisti è all’ordine del giorno in quanto in uno stesso comunicato l’Ezln suole rivolgersi contemporaneamente alle comunità indigene, alla società civile nazionale e a quella internazionale) al fine di inquadrare in uno spazio semantico comune taluni concetti-chiave come quello di democrazia, talmente intriso di significati politici e culturali propri della civiltà occidentale da avere poco a che fare con il pensiero indigeno.19 A questo proposito l’ecuadoriano Luis Macas, uno dei fondatori della Confederazione indigena Conaie, ha detto in un suo intervento alla II Cumbre delle nazionalità indigene di Quito:

nelle comunità esiste il sistema del consenso, che non è necessariamente la democrazia in quanto concetto “occidentale”. Per cui quando parliamo di forma democratica partecipativa come elemento che regola i rapporti interindividuali basato sul sistema del consenso assembleare delle comunità indigene, è un’espressione di approssimazione politica con cui cerchiamo di tradurre in termini occidentali la struttura socio-politica e organizzativa delle comunità indigene.

Ed è appunto allo scopo di comunicare il più chiaramente possibile traducendo il loro pensiero in un linguaggio che tutti, indigeni, meticci, società politiche e civili, possano intendere, che gli zapastisti ricorrono spesso a termini che, almeno secondo i canoni politici occidentali, sono considerati “semplici” o “primitivi” (il potere, il potente, il denaro, il malgoverno, le Giunte di Buon Governo, ecc.), ma è per l’appunto la loro modalità espressiva, nella misura in cui privilegia un discorso a spiccata valenza simbolica e allegorica, a conferire valore universale alla loro parola, dacché tali procedure espressive hanno costituito il primigenio affresco comunicativo dell’umanità.

Avviandoci verso la conclusione, diciamo che la critica della democrazia come spazio colonizzato e piegato interamente agli interessi di potere della classe politica, funzionante a prezzo di riduzioni e distorsioni apparentemente contingenti ma in realtà iscritte «nell’idea stessa del progetto democratico», per dire con Slavoj Žižek,20 è stato l’elemento di congiunzione, il ponte su cui si sono incontrati il movimento zapatista messicano e i nuovi movimenti antineoliberisti e anticapitalisti europei. Ma gli zapatisti, da «perversi scommettitori dell’impossibile» (La mela di Newton, maggio 1996), hanno compiuto quel passo ulteriore e radicale la cui realizzazione in ambito della praxis politica europea Žižek pone come opzione a venire, come scelta tra due scenari: «o si accetta e si sottoscrive questa corruzione [dell’ordine politico democratico] in nome di un rassegnato realismo, oppure si possiede abbastanza coraggio da formulare un’alternativa di sinistra alla democrazia».21 Detto per inciso, questo «coraggio», frutto, scrive sempre Žižek, della combinazione di volontarismo quale «atteggiamento attivo di presa del rischio» e di «più profondo fatalismo»,22 non è facilmente rintracciabile nei nuovi movimenti del cosiddetto Primo Mondo, in quanto, se ci riferiamo alla radiografia fatta da Hernán Ouviña nel saggio citato Zapatistas, piqueteros, Sem Terra, vediamo come tali movimenti siano «composti da uomini e donne nella maggioranza giovani, di buona posizione economica (nuova classe media, vecchia o tradizionale classe media e in misura minore settori periferici al mercato del lavoro), con un alto livello di educazione e la perdita di alcuni benefici dello stato sociale», mentre in America Latina «buona parte delle lotte attuali sono animate da movimenti costituiti da esclusi – siano essi disoccupati, indigeni o lavoratori rurali – con scarso o nullo livello educativo». Inoltre, molti dei movimenti europei si sono trasformati «in organizzazioni le cui azioni tendono a consolidare uno spazio di negoziato e di trasformazione sociale nel seno dello Stato stesso”, ossia, si potrebbe anche dire, essi praticano il conflitto all’interno dello Stato democratico, considerando il conflitto stesso nient’altro che uno strumento di mediazione; al contrario, in America Latina «lo zapatismo, i Sem Terra e i piqueteros non paiono centrare le loro azioni su una vocazione di governo».

In attesa, dunque, del «coraggio» auspicato da Žižek, ovvero della praxis politica nel centro dell’Impero, la sua odierna mancanza non ci impedisce tuttavia di lavorare sulla praxis teorica, e ritornare pertanto alla questione della nomin-azione, accennata all’inizio del nostro intervento. Per cui, se la nostra democrazia attuale è bloccata, conservatrice, autoritaria, escludente, «perché non tentare un altro nome, perché non proporre a coloro che continuano a interrogarsi sulla vera democrazia il nome di democrazia insorgente?».23 Nel documento Il mondo: Sette pensieri nel maggio 2003 il subcomandante Marcos pare rispondere a una proposta del genere intesa a ri-orientare il nome (la teoria) democrazia attraverso le dinamiche delle lotte che sorgono dal basso, ricordando (e con un tono vagamente althuserriano che fa gioco al suo dire) che per gli zapatisti «la Teoria», ovvero il primo dei sette pensieri, riguarda in primo luogo il problema degli «effetti di una teoria su una pratica e il “rimbalzo” teorico di quest’ultima», e, in secondo luogo, l’identità sociale, ovvero «chi produce questa teoria» Dopo aver così delimitato il campo della teoria, Marcos ne conclude che «le risposte alle domande sullo zapatismo non si trovano nelle nostre riflessioni teoriche, ma nella nostra pratica», alla quale la parola zapatista vuole essere conseguente e, proprio per questo, non pragmatica (essendo il pragmatismo una «pratica senza teoria né principi»). Pertanto, se la metateoria è «la riflessione teorica sulla teoria», Marcos ne conclude che «la Metateoria degli zapatisti è la nostra pratica».

«La ribellione del Chiapas è qualcosa di più di un caso di studio che prova una certa teoria», ha osservato giustamente Mihalis Mentinis, sostenendo che nessun approccio teorico già belll’e pronto è in grado di «cogliere la totalità dell’insurrezione zapatista».24 Per contro, gli zapastisti stessi non hanno mai accreditato l’idea che il loro “modello”, ivi compresa la loro pratica di democrazia diretta fondata sul consenso assembleare, sia esportabile e possa a sua volta fornire alle società civili internazionali un approccio teorico pre-confezionato a temi cruciali quali la democrazia, il potere, la ribellione, supplendo così alla loro insufficienza di elaborazione teorica in relazione alla novità di fase costituita dalla forma attuale assunta dal capitalismo mondiale. Il che non significa che il loro pensiero e il loro agire siano da ritenere aprioristicamente non pertinenti. Semmai crediamo che la “lezione” zapatista – o, per meglio dire, l’elemento di rottura che il rapporto tra pratica zapatista (la «metateoria») e politica ha introdotto nel concetto di democrazia inerente al modello liberal-parlamentare -, possa valere in modo effettivo da catalizzatore per l’elaborazione di nuovi e peculiari strumenti teorici da parte delle società civili europee. Altrimenti detto, la posta in gioco è l’individuazione di un comune punto di partenza nell’affrontare l’ordito democrazia che «è oggi il principale organizzatore del consenso».25 Nella loro estensione orizontale, i fili di questo ordito intrecciano dei principi globali, uno dei quali è ciò che Alain Badiou ha chiamato «il principio dell’omogeneo» che «garantisce il conservatorismo del voto, incarnato dall’alternanza»26 e da cui gli zapatisti, nella loro pratica politica matura, espressa, come abbiamo visto, dall’”Altra Campagna”, hanno preso le distanze, contrapponendovi l’alterità della loro prassi politica, la quale ci pare corrispondere a quanto Badiou per suo conto ha definito come «vero eterogeneo» che «esprime un’altra idea della politica, ad esempio quella d’una politica di emancipazione, una politica decisa dalla gente comune e non dai detentori delle poltrone di Stato, una politica incurante delle elezioni».27

Vogliamo concludere questa riflessione sullo zapatismo, inevitabilmente provvisoria e tributaria di un ascolto europeo, ricordando la nascita al mondo dell’Ezln in quel 1°gennaio 1994 quando, in un luogo marginale della geografia mondiale e in una terra abitata da indigeni invisibili e prescindibili,28 si è prodotto un evento paradossale e anacronistico:29 l’affermazione di una insurrezione armata ritenuta impossibile nell’allora congiuntura storica, che ha prodotto una rottura reale nel pensiero politico e una discontinutà nel corso della storia (messicana, ma non solo). E a sedici anni di distanza la fedeltà all’evento dimostrata dalle comunità ribelli zapastiste è ciò che fa questione. «Nelle terre zapatiste», ma nondimeno (o tanto più) in quelle europee. Perché c’è una disciplina, o una pratica, da interrogare. Ossia: Hic Rhodus, hic salta.

Note

1 In questo articolo daremo per acquisita la cronologia relativa alla nascita dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (1983) e all’affermarsi dell’insurrezione zapatista nello stato messicano del Chiapas a partire dal 1° gennaio 1994, data in cui l’occupazione armata di quattro municipi tra i più importanti del Chiapas da parte dell’Ezln fece emergere dal panorama politico e sociale latinoamericano non meno che mondiale un soggetto a lungo escluso: l’indigeno, con buona pace delle teorie di «finis historiae» allora in auge a seguito della fine del bipolarismo Usa-Urss e dell’avvento del nuovo ordine mondiale monopolare.

2 Prima della nascita dei Caracoles, gli Aguascalientes erano gli spazi destinati all’incontro tra gli zapatisti e le società civili, costituiti all’interno dei Municipi autonomi ribelli zapatisti (Marz).

3 «La caratteristica rivoluzionaria della democrazia», sostiene Claude Lefort, è che il potere non è appannaggio di nessuno, né dello Stato, né del popolo, né delle rappresentanze politiche, per cui «il luogo del potere si rivela inconfigurabile» e «il suo esercizio è sottoposto a una procedura di rimessa in gioco periodica» (C. Lefort, Essais sur le politique, XIXe-XXe siècle, Éditions du Seuil, Paris 1986, pp. 26-27).

4 Intendiamo questo termine nel senso conferitogli da Marc Crépon nel saggio La démocratie en défaut (in M. Crépon e B. Stiegler, De la démocratie participative. Fondements et limites, Éditions Fayard, Mille et une nuits, Paris 2007): «questa parola significa lo scarto, la devianza o più semplicemente la differenza rispetto a ogni formattazione della parola e del pensiero operata dalla lingua comune» (p. 55).

5 La possente nave dei senza-partito, la nave di Aguascalientes, 3 agosto 1994.

6 M. Abensour, La Démocratie contre l’État, Paris, Éditions du Fèlin 2004, p. 14.

7 Ivi, p. 15.

8 G. Esteva, Appendice, in Elogio dello zapatismo, Lucca, Lucca Libri Edizioni, Quaderni della Fondazione Neno Zanchetta, 2005, p. 32.

9 O. Hidalgo Dominguez, Reflexiones sobre la sociedad civil y el proceso de paz en Chiapas, parte I, in «Bollettino elettronico “Chiapas al Día”», 410, 4 maggio 2004.

10 S. Rodríguez Lascano, Lo nuevo, lo verdaderamente nuevo, in «Rebeldía», 72, agosto 2010.

11 H. Ouviňa, Zapatistas, piqueteros y Sem Terra. Nuevas radicalidades políticas en América Latina, in «Cuadernos del Sur», 37, Buenos Aires 2004.

12 S. Rodríguez Lascano, Lo nuevo, lo verdaderamente nuevo, cit., p. 12.

13 Ivi, p. 13.

14 La tredicesima Stele, parte II, 25 luglio 2003.

15 «Ci siamo anche accorti che l’Ezln, con la sua parte politico-militare si intrometteva nelle decisioni che spettavano alle autorità democratiche, come si dice “civili”. Il problema è che la parte politico-militare dell’Ezln non è democratica, perché è un esercito, ed abbiamo visto che non è un bene che la parte militare stia sopra e la parte democratica sotto […] allora, per risolvere questo problema abbiamo cominciato a separare la parte politico-militare dalle forme di organizzazione autonome e democratiche delle comunità zapatiste. Così, azioni e decisioni che prima faceva e prendeva l’Ezln, a poco a poco sono state passate alle autorità democraticamente elette nelle comunità» (Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, parte II, «Dove siamo adesso»).

16 «La Jornada», 29 agosto 2005).

17 M. Crépon, La démocratie en défaut, cit., p. 48.

18 Ivi, pp. 55-56.

19 «La parola “democrazia” […] nomina mondialmente il sistema detto anche “occidentale”, vale a dire la civiltà di cui l’esercito americano e i mercenari israeliani sono, come è noto, il baluardo». A. Badiou, Circostances, 1. Kosovo, 11 septembre, Chirac/Le Pen, Paris, Éditions Lignes – Léo Scheer, 2003, p. 28.

20 S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi Editore 2002, p. 84.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 85.

23 M. Abensour, La Démocratie contre l’État, cit., p. 9.

24 M. Mentinis, Zapatistas. The Chiapas Revolt and What It Means for Radical Politics, London, Pluto Press, 2006, p. 10. Cit. da R. van de Wiel, Fidelity to the Radically New. Zapatista, Deleuze, Badiou, in Raymondvandewiel.org

25 A. Badiou, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2001, p. 93.

26 Id., Circonstances, cit., pp. 18-19.

27 Ivi, p. 31.

28 «Guardate come vanno le cose: perché ci vedessero, ci siamo coperti il volto, perché ci nominassero ci siamo negati il nome, abbiamo scommesso sul presente per avere un futuro, e per vivere… moriamo» (Subcomandante Marcos, Il fiore perduto, comunicato del 17 marzo 1995).

29 «Il paradosso anacronistico, la dolce pazzia dei senza volto» (Discorso del Subcomandante Marcos alla Convenzione Nazionale Democratica, 8 agosto 1994).