Non è facile scrivere oggi di Aleksandr Blok, di una nuova traduzione «isometrica», nell’involontario confronto con noti predecessori che ne hanno fissato per la lettura italiana una sorta di intangibile canone, pur nella loro diversità, da Poggioli a Bazzarelli, a Ripellino, fino alla versione in eleganti novenari di Nilo Pucci, nel 2016 (La violetta notturna e altre poesie). Snežnaja maska (La maschera di neve), scritta «d’un fiato» durante le feste natalizie, le svjatki del calendario ortodosso, dal 29 dicembre 1906 al 13 gennaio 1907, segna, nella poetica del corifeo del cosiddetto “secondo Simbolismo” russo, una nuova soglia, uno scarto metrico e ritmico che prelude, dieci anni più tardi, all’aspra musica da častuška del poemetto Dvenadcat’ (I dodici, gennaio 1918).
Con una predilezione per la forma-ciclo – come evidenzia l’introduzione dal bel titolo Diario del vento d’inverno – il poeta raggrupperà la propria opera in tre libri, con i versi scritti dal 1898 al 1916, di cui Snežnaja maska, insieme ad altre sette raccolte, occupa il secondo (Vtoraja kniga). A sua volta questo ciclo è suddiviso in due parti, Le nevi, con 16 liriche e Le maschere, con 14, che sviluppano, con repentini mutamenti di ritmo e metro, il trasmutare di altrettanti stati d’animo, rispecchiati a loro volta nello scenario innevato, trascritti con l’intermittenza, le sospensioni logiche di un diario lirico. Coeva al ciclo Faìna, col quale forma un dittico, Snežnaja maska è dedicato a una superba bellezza, l’attrice Natal’ja Nikolaevna Vòlochova, N.N.V., col suo «fulgore da icona» nelle parole di Ripellino: «alta e snella, i capelli e gli occhi neri, grandi “occhi alati”, il sorriso smagliante». E Blok «se ne invaghì perdutamente» per un anno intero, ribaltando poi il mito candido della Vergine delle nevi nel perverso universo oscuro, nero e rosso-fiamma del ciclo Faìna. Sarà qui che l’ineffabile, irraggiungibile creatura delle altitudini e distanze boreali, anima della Maschera di neve, diverrà maliosa tentazione, donna-serpe, velenosa seduttrice che ormai abita il paesaggio urbano, la città, la sua perversione contagiosa. Di questa passione-delirio, sconvolgente e insaziata, «frenesia di abbracci inconcludenti» ora sentimento anarcoide, La maschera di neve è registrazione quasi quotidiana, con la febbricitante alternanza di stati d’animo, dall’ebrezza allo sconforto, registro ritmico, musicale di tali variazioni.
La traduzione riesce molto spesso a restituire tanto il ritmo che il trascolorare variegato della ricchezza sillabica, inseguendo l’assunto teorico della Nota finale per una resa «isoritmica» e «isometrica». La traduzione di Morabito si colloca nella scia della novità introdotta da Giovanni Giudici nella resa del tetrametro giambico russo per il suo Eugenio Onieghin con un narrativo novenario flessibile, poi ripreso da Giuseppe Ghini in un più recente Onegin, soppresso ormai il tradizionale endecasillabo, quale “stoccafisso” inadatto alla resa del volubile, più rapido tetrametro russo. In questo ciclo, come precisa la traduttrice, prevalgono i trochei, con la loro intonazione allocutoria, ma anch’essi non stabili, variati con l’introduzione di altri metri, fra i quali spicca lo schioccare dei rapidi corei che anticipano il verso martellante di alcuni poemi di Marina Cvetaeva negli anni Venti. Predomina dunque la scelta dell’ottonario trocaico, che evoca all’orecchio italiano la fiaba in filastrocca o la ballata, quanto i metri innovativi di Blok poggiano sulle forme popolari della canzone e della romanza sentimentale, né mancano versi liberi che tengono dietro ai versi «tonici», i dol’niki, di Blok. Risulta ardua la decisione di rendere a volte le rime, mentre la traduttrice scampa il rischio dell’inerzia quando ricorre alla rima imperfetta sancita da Blok nella poesia russa del XX secolo, o all’assonanza, poco apprezzata dalla stessa traduttrice, eppure efficace nella resa del forte gioco fonetico che domina la lirica del «Secolo d’argento».
Un esempio delle dichiarate “perdite” inevitabili, che molto dicono della impossibilità di sovrapporre i due sistemi linguistici, può essere la scomparsa delle varianti di posizione per il sostantivo dal’ (lontananza, orizzonte) che nella poesia Ultima via svaria da sostantivo ad avverbio ad aggettivo, conservando molto evidente la sonorità del radicale anche quando non accentato: vdalì, <>v dàli nevozvratnye, ìzdali, na dàl’nem chrame, otdalënnye roga. Altrettanti “guadagni” però compensano, così nella bella soluzione per la quartina finale di Nelle nevi: «E la neve del tramonto / si inabissa, / si inazzurra / nel profondo». Rispettati sono anche i frequenti enjambements che Bazzarelli individuava quale tratto dominante della lirica blokiana, restituiti nella sonorità della quartina: «E da dietro la nube di neve / assopite si sono le navi / capovolte nell’arco del cielo, / una schiera nivale di vele» (E di nuovo le nevi) o ancora «Tu così lesta / sopra di me / arrovesciasti la volta / celeste» (Raggiunto dalla tempesta).
Dai Ricordi teatrali di Vòlochova e dai Taccuini di Blok, apprendiamo il sottotesto biografico del ciclo, l’interminabile girovagare notturno dei due, solitamente dopo teatro, per i Lungo-Nevà e oltre, nei campi innevati, nelle periferie, più spesso in carrozza o in slitta. Di quel cangiante paesaggio, del turbinìo di neve in panorami di ghiaccio, volìo di fiocchi, spruzzi metallici e stellate scintille della slitta, Martina Morabito ha saputo restituire, per la più parte della sua impresa, il vorticare del nevischio, lo sferzare della bufera e insieme il tempo trasognato e sospeso della mascherata simbolista, lo smarrimento emotivo, la subitanea accelerazione del ritmo, a volte offrendo alla persistenza di alcuni lemmi autentiche invenzioni «euristiche», nella definizione di Evgenij Solonovič. Così, mimando le rime audaci e innovative di Blok, la traduttrice fa rispecchiare, il verbo «serpeggia» con la locuzione «a passeggio» (Vino di neve) o ancora «O, strofe invernali di neve mercurio/Vi leggo a memoria» (Arabesco di neve), oppure, con passaggio dal colore all’elemento che denota, per srebrosnežnaja noč’ (notte niveoargentea) crea il neologismo «notte di nevemercurio», aggettivo composto iterato in più posizioni, che mai compare tradotto con «niveo» a favore di un più secco «nevoso» o «di neve».
Ricorrono nel ciclo immagini-segnale che attraversano costanti la poesia di Blok, dai «vascelli» ancorati in nordici fiordi, alla croce, simbolo di crocifissione e araldico rabesco, poi nel titolo del dramma lirico del 1912 La rosa e la croce. Lo spazio si ribalta, la vertigine che lo inverte spalanca abissi insondabili di stelle, mentre il mare si fa cielo e vi salpano i vascelli. All’apertura: l’inno all’ebrezza, con la presenza della Sconosciuta, indefinita creatura femminile con chioma di Gorgone e sulla fronte «la gemma fredda, già ghiacciata» della bufera, cui appartengono venti, spazi, nevi. Le poesie della seconda parte, a partire dalle Maschere, si leggono via via come diagramma della perdizione dell’eroe, «cavaliere oscuro»: L’inevitabile, Sgomento, Condannato, Non c’è uscita.
Più evidenti nei cicli Faìna e Gorod (La città), anche in Snéžnaja maska si possono intravedere la disillusione, le perdute speranze di una generazione in un mondo diverso, altro, ma ancora in allusione inquieta, simbolizzate «nell’abisso d’astri neri», nel presagio di biblici cataclismi siderali: «Cadrà una stella, un astro scuro, / dentro il dirupo del futuro» (Di guardia).
Un moto vorticoso, anch’esso simbolo di rivolta, travolge i protagonisti della vaga romanza, non vi sono appigli concreti, solide mura, oggetti che non divengano friabili figurine di bisquit o non affoghino «in un vento d’argento» come la «spada di ferro» del cavaliere (Voci). Solo pochi dati d’interno nella seconda parte, caminetto, libri, finestra, la porta serrata da Lei. Questo labile tessuto, reso da una segmentata scrittura, con singoli quadri che si avvicendano, alogici nello sviluppo di una trama narrativa, viene però tenuto insieme dalla forza coesiva della musica, autentica partitura musicale nelle parole di Ripellino: «Le parole divengono segni musicali, spogliandosi di ogni significazione concreta». Fondamento già intuito da poeti contemporanei come Vjačeslav Ivanov e Zinaida Gippius, dai critici Močul’skij o Evgenija Knipovič che sentì, nella parte finale del ciclo, echeggiare note wagneriane. Se fonte d’ispirazione sono state le fiabe di Andersen o la Sneguročka di Ostrovskij musicata da Rimskij-Korsakov, certo è la cultura musicale del poeta, il percettivo orecchio storico di cui ha scritto Osip Mandel’štam a determinare la ricchezza timbrica e ritmica del ciclo. Aleggia su tutto La nascita della tragedia di Nietzsche, in quegli anni assidua lettura per Blok, che si riverbera nell’attacco dionisiaco delle poesie di apertura Vino di neve, Arabesco di neve.
Esile trama, «tessitura» di «fili stellari e di neve», sottolinea la curatrice, questo ciclo sembra inseguire ritrosie, cedimenti, esaltazioni di una tenzone amorosa. Nella sua parte centrale, disvelamento del gioco dialogico, un LUI e una LEI, come già in Balagančik (La baracchetta dei saltimbanchi) evocano le Fêtes galantes di Verlaine che ispiravano, con maschere e feste e danze, il periodo dell’infatuazione per la Commedia dell’arte del cenacolo e della rivista «Il mondo dell’arte», fulcro culturale degli Argonauti, il gruppo dei giovani simbolisti, cui appartenevano sia Belyj che Blok. Eppure, ci sono sconforto e delusione, tralucono dalla patina mondana, evocando poesie quali Di sotto a fredda, arcana mascherina, Come sovente, cinto da folla variopinta o Un ballo in maschera di Lermontov. E qui Le maschere della seconda parte patiscono il sarcasmo che ne dissolve la sostanza, ormai «sagome d’inganno/ombre di gioco» sul muro (Nell’angolo del divano), mentre già «sulla punta degli stivaletti, /sonnecchiante e quieto c’è un serpente» (Attraverso il cristallo di vino), preludio alla maliarda che in Faìna «il suo strascico attorce come coda di cometa», «serpe bellissima», quasi una eco della fiaba russa della Principessa-serpe.
L’incontro fra il poeta e Vòlochova avvenne a un cotillon, proprio la sera successiva alla prima teatrale di Balagančik, la pièce che nel dicembre del 1906 decreta la rottura fra i sodali simbolisti e Blok, disilluso dai mistici sofismi, le febbrili attese di una Bellissima dama, secondo le predizioni del filosofo Vladimir Solov’ëv. Già in questo dissacratorio scherzo teatrale l’amore e l’arrivo della donna, la bianca fidanzata, sono forieri di morte, e «Morte» sarà il «terzo battesimo» dell’eroe nella Maschera di neve, «cavaliere oscuro» invaghito della donna inaccessibile, e sarà una «morte bianca», colore orientale del lutto, a suggellare la danza dei due amanti. La neve elèva affaldate croci e in ossimoro solleva il falò che nel finale arderà il cavaliere: «Nella maschera di neve, brucia/ tu, mio cavaliere!» esorta la femminea voce della bufera che infuria, mentre le rime serrano il rapporto fra croce (krest’), morte (smert’) e bufera di vento (smerč’). Si compie così il destino dell’io lirico, poeta irresoluto e amante sottomesso, estrema variazione del Pierrot lunare irriso in Balagančik, che qui a sua volta invoca la morte per amore – «Al tuo falò io vengo incontro!». In un sacrificio-espiazione di sapore simbolista la freccia di Cupido, nel Cuore abbandonato alla bufera, trasmuta in un fiabesco «ago di neve»: «Trafiggimi, / alato sguardo, / con l’ago di nevosa fiamma!». Bramata morte per mano di donna che nel 1911, compiendo la parabola di degrado nella raccolta Mondo terribile (Strašnyj mir), assumerà una sarcastica patina mondana: «Configgimi dunque nel cuore, mio angelo d’ieri, / il tuo pungente tacco alla francese!» (Umiliazione).