I
«Mi si chiedesse: “Sei pro o contro l’America?”, prima di rispondere sposterei con la mano destra la Colt puntata alla mia tempia sinistra».1 La Colt da cui Fortini, come scrive, si sapeva minacciato, si deduce la impugnasse il generale americano Schwarzkopf, che condusse le operazioni militari delle potenze occidentali contro l’Iraq nel 1991. Non so che fine abbia fatto quel generale. L’arma, passata di mano in mano a seconda delle tipologie delle aggressioni susseguitesi nel corso degli inverni in questione, ci ha tenuto costantemente sotto tiro. Con in più la variante da giro di millennio: chi minaccia, ammicca – indicando le macerie del Pentagono e delle Torri.
II
Conobbi personalmente Fortini nel contesto di quell’intervento. La mattina del 16 gennaio ’91, dopo una notte trascorsa in presidio a piazza del Duomo, partecipai ad una grande assemblea all’università Statale di Milano; era formalmente cominciato l’attacco contro Saddam Hussein, a danno della popolazione irachena. Trascrissi sulla grande lavagna dell’aula una poesia di Bertolt Brecht (da cui il titolo del mio intervento), composta dal poeta in esilio nell’imminenza delle invasioni del Reich tedesco. Fortini si trovava in quell’aula, disposto a mettere la sua conoscenza al servizio di chi volesse capire quanto ci stava succedendo.
Una volta, a casa di compagni molto cari, disse che era tempo di imparare a memoria i numeri di telefono degli amici, di disporsi a resistere dalle catacombe – era rivolto a noi più giovani. Capii e non capii; stentavo a figurarmi che le condizioni dello scontro da noi ci avrebbero consegnato al rischio estremo. In parte fatico tutt’ora a immaginarlo; ma interroga la consapevolezza che altri, con cui abbiamo in comune un nemico, a tanto sono.
Non posso non pensare agli iracheni che combattono contro l’occupazione militare anche italiana, che resistono a Najaf dai luoghi scavati in profondità nella roccia – milioni di tombe e cappelle dove stanno sepolti i loro morti.
III
Il frantumarsi degli equilibri del bipolarismo venne spacciato come condizione per l’avvento dell’armonia prestabilita. In realtà si trattava d’altro. Di prestabilito, a fronte di un mutato quadro internazionale, stava la vocazione totalitaria del sistema capitalistico a espandere il proprio dominio per unificare il mercato del lavoro e realizzare il controllo sullo sfruttamento delle risorse a livello mondiale.
Il peggio che Fortini vide arrivare, lo vide in quella guerra e attraverso di essa. Scrisse in proposito:
«Tempesta nel deserto» fu il nome dato allora alle operazioni militari in Iraq. A chi non rendeva la propria coscienza alla pacificazione delle società occidentali quella locuzione suonava promessa di ulteriori desertificazioni.
IV
Mentre a Berlino si montavano le bancarelle per lo smercio di spillette rosse e pezzi del muro, nell’esaurirsi della storia dei Paesi socialisti si volle intendere il venir meno della ragione d’essere della lotta per il socialismo e lasciar credere che nell’unum superstite i tres, mercato democrazia diritto, avrebbero garantito una gestione delle umane sorti nell’interesse di tutti i viventi.
Nel consolidarsi del mercato e nell’esercizio del diritto super partes, a rivelarsi sono proprio le parti. Una è quella che «nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’uguaglianza dei diritti – e la finale identità umana – fra i privilegiati e i “dannati della terra”».3 L’altra è l’altra.
A seguire sono gli anni delle guerre umanitarie e giuste, degli attacchi ai diritti del lavoro e a quelli fondamentali dell’individuo. La sinistra occidentale accetta che non si dia alternativa al sistema capitalistico dei rapporti di produzione; il contributo che essa fornisce al consolidarsi del comando del mercato e alla delegittimazione della politica è contributo politico.
Per chi parla di un superiore ordine dell’umano e tace del privilegio – che i rapporti fra gli uomini ordina – vicende e soggetti divengono irrappresentabili in termini politici. Il carico di violenza pare fatale; i nomi che si danno alle parti credute nemiche sono quelli offerti dal linguaggio razzista e forcaiolo di una civiltà destinata a dividere per regnare.
E’ analfabetismo di ritorno per ampia parte di quella tradizione marxista che aveva altrimenti saputo vedere, con le parole di Fortini, «nei “deboli” […] la forza suprema e negli “oppressi” i capaci di mutarsi da merci in uomini».4
V
Fortini non era l’unico a capire che l’appoggio conferito dai paesi occidentali agli Usa nel 1991 per l’invasione dell’Iraq era precario. Quella aggressione, avvertiva in un intervento a Radio Popolare, era rivelatrice di contraddizioni interne allo stesso schieramento del capitale. Lo sapevano anche gli strateghi del Pentagono.
Le Linee orientative della Difesa per il periodo 1994-1999 esplicitano l’obiettivo degli Stati Uniti,
Gli strateghi del Pentagono sono fra coloro che non cianciano di scontro di civiltà.
VI
«Questo terribile attacco», ho annotato da un ritaglio di giornale «sottolinea la minaccia del terrorismo e mostra perché dobbiamo lavorare tutti assieme sul piano internazionale per proteggere le nostre popolazioni». Parola di Tony Blair, dopo le bombe nei treni a Madrid e una settimana prima di grandi manifestazioni indette in moltissimi paesi contro la guerra.
Ad ogni annuncio di attentati non posso fare a meno di rammentare sul quotidiano del Pci la foto di Valpreda, che venne immediatamente indicato come autore della strage a Piazza Fontana. Valpreda era un anarchico, era il 1969. In un lavoro di grande portata politica alcuni giudici hanno mostrato il disegno della strategia della tensione che venne dispiegato nel nostro paese per la collaborazione di governi, alti comandi militari italiani e della Nato, servizi segreti italiani e Cia.
Sorry, gli americani dissero che c’erano i carri sovietici pronti a invadere la penisola. E non era vero; in nessun altro paese dell’Europa atlantica si rese necessaria quell’età di stragi e terrorismo; nessun altro paese era, come l’Italia, maturo per il socialismo. Bisognava evitare che la penisola si invadesse da sé.
VII
La guerra fredda non c’è più. La Nato, sorta per contrastare le armate del Patto di Varsavia, non c’è più. Ora c’è la Nato. È una alleanza militare sotto comando statunitense, deputata a intervenire ovunque siano nel mondo minacciati gli interessi occidentali; talvolta viene chiamata «corpo di polizia internazionale».
Sarajevo non c’è più.
VIII
Apro a caso Il libro nero degli Stati Uniti,6 settecento fitte pagine che documentano, dei crimini nordamericani commessi ovunque a partire dal 1945, non più di quanto si riesca a documentare.
Rivedo le annate di cubitali sulla causa di tutti i mali – anarco-insurrezionalisti, studenti, precari e operai, sindacalisti di base, immigrati, assassini, criminali. E non è un incubo la faccia di Wòlfowitz, che spiattella a noi dannati e mortali che sì, è stata la Cia, e dove non si dice, che ora – ora c’è solo la guerra, quella che non ha più nome – anzi guardate, ora c’è la pace, persino in Iraq. È stata stipulata la pace.
IX
La pace duratura la duratura guerra e la giustizia infinita. Sembra già di stare nel regno dei cieli, dove non mette conto ragionare di speranza, di dovere di un riscatto.
Ma non tutti si ingannano sulla fine della storia. Il sistema che unifica il pianeta nel reticolo dei rapporti di produzione capitalistici, e riproduce inuguaglianza ed esclusione all’interno delle singole società e fra gli Stati, contiene in sé un conflitto antagonistico fra due parti. Il capitale sa cosa nel suo dominio non può finire. Lontano dall’ordine rozzo e sparso delle minuscole fabbrichette del civile Nord Est – dove può capitare che un imprenditore dia fuoco all’immigrato, se chieda la retribuzione per il lavoro di mesi arretrati – vengono allestite le strategie per fronteggiare l’eventuale ricostituirsi di gruppi che, riconoscendosi parte sfruttata oppressa alienata in un conflitto sociale, cerchino di organizzare la lotta politica per trasformare i rapporti che li opprimono.
X
Al frastuono della retorica umanitaria, al rombo degli aerei che volano a bombardare i Balcani si sommano, preventivi, i colpi sordi dei manganelli con cui a Genova, per avere manifestato contro le politiche liberiste dei G8, centinaia di noi sono stati aggrediti nel sonno dalle forze dell’ordine della democrazia parlamentare.
XI
uno dice che la sola necessaria
è la guerra alla guerra. E la vince. Ma c’è subito
chi confeziona una valigia al tritolo
una morale al plastico
una sintassi flessibile.7
Uno di quelli che parlano ogni cento anni ha lasciato parole definitive sulla pratica del terrorismo, rifiutandola per ragioni eminentemente politiche – in quanto oggettivamente funzionale alle strategie repressive di quel nemico che si illude di combattere.
Fra lo sciopero generale del marzo 2002, convocato dalla CGIL contro l’attacco ai diritti del lavoro, e la manifestazione a Roma, alla quale parteciparono tre milioni di persone, eccola la valigia, eccolo il plastico, l’accusa puntuale al sindacato di essere mandante morale dell’omicidio di un consulente del Ministero del lavoro appena assassinato; eccoli nel coro uniti i vari Cossiga le mai abbastanza implose dirigenze del male imploso Pci i pentiti gli intellettuali democratici, tutti: a declamare la vera falsità – che lotta e violenza terroristica siano la stessa cosa.
XII
«Oggi e subito», cito Fortini «”il nemico”, quello contro cui è necessario non solo conflitto ma guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci».8
Quando meno crediamo di poter distinguere più lo dobbiamo. La maggior parte di coloro che combattono in Iraq contro l’occupazione, la maggior parte della popolazione che sostiene la resistenza, non è inquadrata nella propaganda fondamentalista saudita, non è costituita da suicidi pronti a lanciarsi sulla popolazione civile. Che boccata d’aria, poter sentire ai notiziari di regime le volontarie italiane di Un ponte per ringraziare, dopo essere state liberate, la comunità musulmana internazionale – poco importa se avevano appena stretto la mano alla gentaglia che ci governa. L’impegno politico di quella associazione in Iraq data dai primi anni Novanta, i progetti che attua per sottrarre violenza alla violenza quotidianamente imposta alla popolazione irachena corrono paralleli con la denuncia degli interessi celati dietro le aggressione militari e le sanzioni economiche.
La pratica di rapporti di solidarietà apre la strada per individuare le strutture oppressive che tagliano i confini delle identità costruite su differenze religiose, etniche, culturali; nega nei fatti che siano queste differenze a generare conflitti inconciliabili.
Non dimentico il destino di un popolo cui è negato il diritto all’identità politica e nella cui quasi esausta resistenza pure dobbiamo ostinarci a distinguere. Ci incoraggiano a farlo i compagni israeliani che, dal loro paese e dalle sue carceri – in cui sono rinchiusi quanti si rifiutano di partecipare alla repressione dei palestinesi – di questi ultimi sostengono la causa.
Nessuno è ancora riuscito a spiegarmi perché debba temere di saltare in aria in una sala d’aspetto per i disegni del fondamentalismo islamico più di quanto non debba temere che sia per i disegni di civili dirigenze e cristiane.
XIV
Quotidianamente giungono notizie di tremendi crimini. Qualcuno tenta di ricondurre il macello dei terroristi-suicidi alle condizioni di disperazione e assenza di prospettive politiche in cui versano intere società umane. Giulietto Chiesa elenca le cifre, illustra la potenza organizzativa e militare, indica le coperture necessarie; nomina le oligarchie internazionali, le strettissime relazioni che, nella guerra per il predominio, quelle oligarchie legano assieme.
L’esercito dei mercenari nel mondo ammonta a 300.000 individui, pagati ciascuno 5.000 euro al mese. Chiederò a mia figlia di calcolare, è molto giovane e, credo, innocente.
I bambini falciati nella scuola in Ossezia, i bambini fatti esplodere nello scuolabus a Tel-Aviv non sarebbero sopravvissuti a Baghdad, non nei Territori occupati, dove vengono ammazzati dai regolari soldati dei paesi democratici; non sarebbero sopravvissuti se avessero raccolto una delle mine giocattolo dai soldati dell’impero del bene lasciate nei campi apposta per loro.
XV
A sconforto si somma lo sconforto di trovare nel «il manifesto» articoli del giornalista Riccardo Barenghi, che si compiace di insinuare il dubbio – se non sia da preferire il meno peggio dell’occupante democraticizzato al peggio del barbaro fondamentalista.
Occuparsi di un falso dilemma, lasciando intendere che sia questa la contrapposizione su cui ci si debba schierare fa parte del peggio. Avvelena.
XVI
In un bellissimo film sull’Italia del dopoguerra, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, rivedo lo schermo oscurato sull’orrore. Alla pietà attonita chiede di non aggiungere altro orrore, di tacere ogni parola immediata. Si intitola Dalla nube alla resistenza.
XVII
Con gli elenchi delle rivendicazioni delle attribuzioni delle sigle si susseguono gli appelli all’unità e il richiamo all’ordine atlantico, gli articoli razzisti, il linguaggio delle reazioni emotive – di chi, forte della propria superiorità tecnologica militare, nomina umanitario l’esercizio della propria violenza, civile la propria barbarie.
Supremo, il capolavoro della civiltà della sedia supremamente elettrica: concedere al «tagliatore di teste» imprigionato ad Abu Ghraib di consistere in extremis nella propria natura barbara – conducendolo a tagliarsela, la testa, da sé; sotto tortura.
XVIII
La parte più nobile della nobile Europa dixit. Basta con la violenza degli oppressi, degli oppressori, di tutti, dappertutto e senza distinzione.
È gente che un mattino del 1989 si è sentita liberata dall’incombenza della trasformazione dello stato presente delle cose. Parla come l’Occidente fosse misura dell’universo. Gli accade, quando si tratta degli oppressi, di rigettare come immorale violenza la lotta; e in generale di dover rimuovere la coscienza di una violenza originaria per poter aprire la bocca.
La donna racconta della cooperativa contadina, del raccolto, della strada che ora collega le abitazioni fra loro, delle tubature che dal pozzo convogliano l’acqua, della piccola scuola; e dell’essersi formato di una coscienza collettiva, da cui dice non poter più tornare indietro. Parla del Venezuela. Era occupata da latifondisti e lasciata incolta la terra che il governo le ha dato in concessione, e lei ora coltiva. E ancora rammenta le incursioni dei latifondisti, le loro squadre della morte; «vengono – dice – a distruggere il raccolto e ad ammazzarci».
Il rifiuto della violenza non può essere generico, né la questione porsi astrattamente. È qualcosa di ben chiaro a Fortini, che all’inizio degli anni Novanta scrive:
Fortini scrive di non riuscire a immaginare cosa sia un uomo «quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’uguaglianza».12
Uno dei suoi ultimi versi, indicando una parte, allude a una minaccia. Proteggete le nostre verità.13 Al fondo delle nostre verità, una insegna la storia di una violenza originaria, necessaria a difendere il privilegio, a imporre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, a rendere merce tutto quanto esista nel tempo e nello spazio. Protezione può darsi solo combattendo le cause materiali e politiche che negano uguaglianza, giustizia, libertà; che contraddicono o, con le parole di Fortini, «fa[nno] arretrare tutto quel che riteniamo buono e giusto per noi e per gli altri».14
«Il comunismo», cito ancora «è il combattimento per il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero possibile di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna».15 La lotta è in nome di valori indimostrabili, necessaria, per un bene non garantito – a fronte, questa sì garantita, la barbarie, iscritta nel firmamento dello scudo stellare, nel mare che mese a mese si riempie di cadaveri. Questo cielo e questo mare costituiscono il nostro attuale orizzonte storico.
Il nemico dell’umanità, e di un’idea di civiltà e di società, sta dalla parte di chi ha interesse a disporre, per la raccolta stagionale di pomodori, nei cantieri edìli piemontesi, e nelle scuole e gli ospedali, della forza-lavoro di soggetti di nessun diritto; sta dalla parte di chi rinchiude in centri che chiama «di accoglienza», legati per i polsi a due a due, quanti sbarcano più morti che vivi in cerca di asilo sulle coste dell’Europa meridionale, prima di deportarli nel deserto. Il nemico dell’umanità sta dalla parte di chi scarica migliaia di tonnellate di bombe sulla faccia della terra, allestisce Guantànamo, redige i manuali su cui istruire i torturatori delle proprie carceri pubbliche o private.
[Intervento letto a Siena, ottobre 2004. Pubblicato in Dieci inverni senza Fortini, 1994-2004, Macerata, Quodlibet, 2006, con il titolo La loro pace e la loro guerra]
1 F. Fortini, Disobbedienze, Roma, Manifestolibri, 1996, II, p. 177.
2 Ivi, p. 234.
3 Ivi, p. 169.
4 Ivi, p. 202.
5 Pentagon’s Feb. 18 Draft of the Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, New York Times, 7.3.1992.
6 W. Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, Roma, Fazi Editore, 2003.
7 F. Fortini, Indignarsi è consolarsi. La poesia è parzialmente riprodotta in Id., Disobbedienze, cit., p. 196. Integralmente figura in Antigone delle città, a cura di B. Tognolini, pubblicazione promossa dal Comitato di solidarietà alle vittime delle stragi, Comune di Bologna, 1992.
8 F. Fortini, Disobbedienze, cit., p. 169.
9 Ivi, p. 168.
10 Ivi, pp. 131.132.
11 F. Fortini, Non solo oggi, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 303.
12 F. Fortini, Disobbedienze, cit., p. 38.
13 F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 63.
14 F. Fortini, Disobbedienze, cit., p. 132.
15 F. Fortini, Non solo oggi, cit., p. 41.
16 F. Fortini, Disobbedienze, cit., p. 236.
17 B. Brecht, Poesie e canzoni, trad. it. di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1959, pp. 240-241.