«Come feti nelle loro acque»
Sull’inattualità di Fortini
Luca Lenzini

I

Quelli che seguono sono appunti non in senso generico ma in accezione letterale e “tecnica”. Si tratta infatti di riflessioni a margini di una rilettura, parziale e in progress, di Fortini saggista: rilettura molto recente, aggiungo, quindi ancora non sedimentata, i cui riflessi non possono che essere allo stato fluido, ipotesi di lavoro di chi procede a tentoni. Gran parte delle mie affermazioni dovrebbero, a rigore, essere precedute da un “forse” o seguite da un punto interrogativo. (La mia non è attenuazione retorica: rammento a chi non ne avesse nozione adeguata che la produzione saggistica di Fortini non comprende solo gli scritti raccolti in Dieci inverni, Verifica dei poteri, Questioni di frontiera, Saggi italiani ecc., ma anche circa millecinquecento titoli tra articoli, recensioni, interviste disseminati in riviste e quotidiani. Una selva in buona parte da esplorare, che scoraggia qualsiasi velleità di sintesi).

II

Nessun tentativo di sintesi, dunque. In realtà, per quanto riguarda Fortini credo che ad una sintesi non giungerò nemmeno a rilettura conclusa, tanto complessa ed ingovernabile, nella sua ricchezza, mi appare la massa degli scritti saggistici. Ma allora, perché mettere le mie osservazioni sparse sotto l’insegna unificante e provocatoria dell’“inattualità”?

Il titolo che ho scelto per questo intervento – della citazione che espone, dirò poi – non vuole ornarsi di risonanze nicciane: è anch’esso da intendere in modo pragmatico e contingente, di basso profilo, tanto che ne dichiaro subito l’origine autobiografica (scusandomi per il tono tutto soggettivo dello spunto).

Qualche anno fa – Fortini era scomparso da poco – mi trovavo a parlare con un noto giornalista e scrittore, che aveva conosciuto Fortini e ne aveva, e ne ha tuttora, grande stima. Dopo aver ricordato con nostalgia ed affetto i loro incontri, le discussioni, il comune impegno nella Milano degli anni ‘60/’70 , ad un certo punto mi chiese, o meglio affermò, con un velo di intenerita pietà per alcunché di remoto, riferendosi agli scritti di quel tempo: «ma oggi, chi vuoi che rilegga quelle cose di Franco? Non si possono più leggere: non c’è niente da fare».

Confesso che l’osservazione, pur fatta con molto garbo e senza alcuna intenzione di diminuire la statura di Fortini, da uno tutt’altro che rassegnato o pentito delle proprie scelte di un tempo, eppure netta e dal tono indiscutibile, mi lasciò più interdetto che irritato. Avendo seguito per diverso tempo i corsi ed i seminari di Fortini all’università, e poi avendolo frequentato regolarmente, e letto quasi tutto quel che egli era venuto scrivendo per circa vent’anni, l’idea stessa di una “illeggibilità” di Fortini mi sembrava, dirò così, irreale. Il problema dell’invecchiamento, rispetto ai saggi, non me lo ero posto proprio; anzi se mai, per me esisteva, in un certo senso, un problema inverso: essendomi negli anni convinto della grandezza e importanza di Fortini poeta, ogni volta che mi accingevo a scrivere della sua poesia dovevo (e debbo tuttora) sforzarmi di non farmi prevaricare, nell’interpretazione dei versi, dalle proliferanti, molteplici interferenze della scrittura saggistica. Così viva sentivo la forza dei saggi, che dovevo guardarmi dalla tentazione di passare  in modo non sufficientemente mediato dall’uno all’altro polo del discorso fortiniano.

Ma forse, mi dicevo anche, proprio questa vicinanza o dipendenza, il mio collocarmi entro una continuità rispetto al percorso del saggista m’impediva di cogliere l’invecchiamento delle pagine; peggio ancora, il fascino della scrittura – con il cortocircuito dei rispecchiamenti incrociati a cui accennavo – mi distoglieva dai contenuti, mi allontanava dalla problematica di ordine propriamente politico e sociale che ne costituiva l’oggetto. E certo, il mondo degli anni Novanta era profondamente diverso da quello di due decenni prima, per non parlare dei Dieci inverni.

Così se riprendevo in mano Verifica o Questioni le mie stesse sottolineature, le glosse a margine di quando ero studente invece di rassicurarmi, mi inquietavano; e magari non solo per questo, ma insomma ho rinviato a lungo l’appuntamento con la rilettura dei saggi fortiniani. Quando pensavo all’endecasillabo che sigilla idealmente l’opera di Fortini, «Proteggete le nostre verità», non lo riferivo alle prose ma alla poesia; alle allegorie ed alle parabole di cui è intessuta, all’itinerario mentale che come una sfida essa propone al lettore.

Infatti è della poesia che ho scritto, è lì che ho cercato verità e risposte. Ma per chiudere l’excursus autobiografico: la domanda posta dal giornalista – quella sì, retorica; e condivisa da molti, chi con rimpianto e chi con soddisfazione – me la sono poi portata dietro, mi ha seguito e condizionato al punto che il mio primo interesse, nella rilettura, non è stato quello di storicizzare i riferimenti dei saggi, di inquadrarne lo sfondo, bensì di chiedermi che uso ne sia possibile, oggi, da parte di uno che arrivi a leggerli senza sapere chi sia stato Fortini – uno che ignori non solo i suoi versi ma anche gli stessi oggetti delle polemiche, la lunga battaglia di idee, le controversie, gli schieramenti in cui avevano preso posizione; un lettore immune dai riverberi delle troppe “poetiche” novecentesche e dalle diatribe tra le “scuole”, i “gruppi”, i “cenacoli”.

III

Sembra che nella Firenze degli anni ’30 il numero dei cenacoli letterari non fosse inferiore di tanto a quello delle formazioni dell’extrasinistra della Milano degli anni ’70. Ma, mi domando: è possibile parlare di Fortini senza ricorrere a ismi? Estraneo come poeta all’ermetismo ed alla più vasta koiné simbolista, estraneo come intellettuale alle pratiche ed ai dogmi dello stalinismo e di ogni ortodossia, estraneo come saggista al conformismo accademico; e come pensatore, lontano sia dal progressismo e dalle sue varie versioni che dall’irrazionalismo e le sue derivazioni – eppure, se parliamo di lui ancora non possiamo fare a meno di ricorrere, per contrasto, a queste categorie ed etichette?

Questa mia domanda si collega direttamente all’altra, non mia, che ho riportato in apertura; e non va presa troppo alla leggera. Infatti se le “verità” da proteggere si identificano con le battaglie polemiche di Fortini, diciamo per intendersi con la pars destuens del suo gran lavoro – quindi la polemica contro l’ermetismo prima, lo stalinismo ed il togliattismo poi, le neo-avanguardie e gli strutturalismi e via di seguito – il dubbio che quelle verità siano comunque parziali e soggette ad un invecchiamento affrettato, alla fine, è legittimo.

Ora, che di Fortini si possa parlare senza ricorrere agli ismi lo so per esperienza, avendo fatto dei seminari su di lui e avendo sperimentato che gli studenti, messi davanti ai testi, se la cavano più che bene senza, per fortuna. Ma un’altra cosa che so è che un lettore come quello appena evocato, naturalmente non esiste, è del tutto immaginario. Esistono invece, soltanto e sempre, lettori prevenuti, condizionati – ma non per questo necessariamente schiavi dei pregiudizi… Ho avuto occasione di incontrare studenti universitari spesso molto più preparati di quanto non fossi io alla loro età, e lontanissimi anche per formazione dalle controversie di cui sopra; però ci sono dei ‘luoghi comuni’ che si respirano nell’aria, una nebulosa di cognizioni imprecise ma singolarmente efficaci, veicolate dai media e dagli addetti a questo specifico lavoro (alzare cortine fumogene, rafforzare le rimozioni, predisporre un garrulo oblio), che sembrano come entrati nelle fibre della nostra cultura, tanto che è inutile combatterli in astratto: occorre aspettare che si sciolgano come neve al calore del sole facendo parlare i testi, aprendo con essi ogni volta un nuovo dialogo.

Quanto alla ricezione di Fortini ed al percorso della sua “fortuna” nella cultura italiana ha detto bene Romano Luperini, quando ha osservato che in un primo momento Fortini è stato considerato troppo “politico” per essere poeta, poi troppo poeta per esser preso seriamente come politico. Si potrebbe aggiungere che negli ultimi anni il crescente ed innegabile apprezzamento della poesia di Fortini ha avuto luogo a partire da un tacito nonostante, da un malgrado inespresso: poeta, finalmente ed essenzialmente, in quanto irriducibile alla sua ideologia e nonostante quest’ultima, retaggio dell’epoca al modo del fascismo di Ungaretti (anche in ciò vale la par condicio).

Ma tornando ai due assiomi speculari e sintetici proposti da Luperini, che in qualche modo segnano inizio e fine della “carriera” di Fortini, come non riconoscere anche qui la forza specifica, insidiosa e tautologica, lo spessore compatto e sordo dei “luoghi comuni”? Una volta mi è capitato di osservare, essendo per sbaglio capitato in una trasmissione radiofonica, che la cultura italiana non ha mai “metabolizzato” Fortini; ma questa spiegazione, anche se va bene insieme alla notazione di Luperini, non mi convince più di tanto. Ora che ho riletto i saggi di Fortini, mi sembra piuttosto che la cultura italiana abbia intuito, e dunque a modo suo capito, la estraneità di Fortini rispetto ai propri fondamenti. In quei due troppo si condensa non tanto una messa al bando (non si può mettere al bando chi è già fuori dai propri confini) bensì qualcosa che assomiglia ad un esorcismo.

IV

Troppo. Per la cultura del suo tempo Fortini è stato “troppo”. Dove è da notare che la formula esorcistica non vale soltanto per la cultura, diciamo così, “istituzionale”, ma anche per buona parte di quella più viva e meno cristallizzata degli stessi “compagni di strada”, degli intellettuali che pur hanno condiviso gli ideali di Fortini e che gli sono stati amici ed interlocutori privilegiati.

Ci sono due episodi, tra tanti, che ad una rilettura mi sembrano particolarmente significativi, e che riguardano Pier Paolo Pasolini e Alfonso Berardinelli: due autori che hanno avuto entrambe un rapporto complesso con Fortini, specie il primo, e che hanno dato importanti contributi sulla sua opera; e che però, ad un certo punto, hanno rivolto critiche molto aspre a Fortini, staccandosene pubblicamente in un modo che vale la pena esaminare, sia pur brevemente.

C’è un passo di Pier Paolo del maggio ’68, riportato da Bellocchio nella sua introduzione, molto bella, al «Meridiano» dei Saggi sulla politica e la società: qui Pasolini tratteggia, in modo obliquo ed acre, una caricatura di Fortini, facendo pronunciare all’intellettuale-tipo fortiniano questa dichiarazione o autodescrizione: «Il mio comportamento è inappuntabile, perché esso è la mia religione. Gli imperativi a cui obbedisco sono tutti imperativi negativi. Sono un professionista serio, anche quando faccio la rivoluzione» (XXXI).

Non escludo affatto che siano esistiti tipi così; personalmente, non riesco a riconoscere in questo ritratto-caricatura Franco Fortini, quale ho conosciuto; ma il ritrattino lo trovo comunque esemplare, nel suo proporre una rappresentazione stereotipa dell’intellettuale odioso – oltranzista, ascetico, noioso, prigioniero della Negazione. Ed è una caricatura che, in qualche modo, è passata nell’immaginario collettivo della sinistra, e che a mio parere delinea, in controluce, soprattutto un ritratto capovolto di Pasolini, o forse la messa in scena di un fantasma in cui coagulano mitologie e timori da esorcizzare. Può darsi che nel conflitto Pasolini/Fortini, che senza alcun dubbio ha visto vincente il primo nella cultura italiana, di proiezioni e deformazioni simili ve ne siano state da ambedue le parti; ma quel che importa, alla fine, non è il gioco delle parti, bensì il fatto che la messa in scena impiega alcune parole-chiave molto pertinenti al discorso fortiniano – religione, rivoluzione, obbedienza – rendendole ridicole, dunque impraticabili.

Secondo esempio. Alfonso Berardinelli, che in gioventù ha scritto uno dei migliori libri su Fortini, nel ’93 ha pubblicato un saggio intitolato Stili dell’estremismo che mette insieme Fortini, Roberto Calasso ed Elemire Zolla. Da notare la triade: già l’accostamento implica un’intenzione svalutativa, attuata secondo le tacite regole della par condicio. Nel saggio poi, in cui sembra celebrarsi una specie di Auto da Fé, il critico si dedica ad una frettolosa demolizione di Fortini, a partire da Non solo oggi e dalla prosa intitolata Comunismo (’89), lì riprodotta.

In Berardinelli è il concetto di “gestremismo” l’arma della demolizione: concetto che di nuovo, però, non è più che lo strumento di un esorcismo; un concetto negativo a priori, collegato naturaliter con “comunismo” nell’accezione di regime politico totalitario, quindi con il gulag ecc. Avviene così che invece di aiutare a capire Fortini, la definizione lo faccia sparire, travolgendo insieme a lui non solo Lukàcs ma Bloch e Benjamin: la virulenza di cui sono capaci gli ismi si coglie qui con particolare nitidezza, se mette in scacco anche le indubbie capacità d’interprete di Berardinelli. Tutto il pezzo, alla fine, suona come un atto d’accusa assai ingeneroso nei confronti di un intellettuale che, come en passant deve concedere lo stesso critico, ha passato una parte cospicua della propria esistenza a combattere lo stalinismo, a denunciare le ingiustizie e gli abusi del potere nelle sue variegate versioni novecentesche – ma non è questo il punto.

Il punto è un altro. A me sembra che anche Dante Alighieri, per certi versi, sia stato un estremista; ma credo non spetti a noi lettori di eseguire condanne o invocare assoluzioni, quanto di valutare ed interpretare le opere, determinarne la morfologia e porre questa in rapporto con la costruzione di una proposta, di un senso; e qui il concetto di estremo (Extrema ratio s’intitola per l’appunto un libro di Fortini), sfrondato dei rancori epocali e dell’astratta violenza delle sovrapposizioni ideologiche, avrebbe potuto ben essere prezioso, ma ricade invece interamente e pesantemente nel cono d’ombra delle diatribe, e nel brontolìo di cui sopra.

V

Proviamo, allora, a ragionare, a vedere le cose con meno impazienza. Un modo di leggere questi due episodi è di imbastirvi sopra una contrapposizione di caratteri, di “gusti” e di modi di ragionare, insomma di ricondurre ognuno dei contendenti alla propria personale poetica o psicologia: così facendo, renderemmo omaggio al relativismo nichilistico oggi imperante. Un altro modo – sempre però basato sulla personalizzazione – potrebbe essere quello di vedere in Fortini, il comune obiettivo polemico, una cartina di tornasole che rivela una repressa necessità di conciliazione, l’esigenza (più che legittima) di non sentirsi in guerra con il mondo come è (o con noi stessi come siamo).

Un terzo modo, meno personalizzante, sarebbe infine quello di riportare le immagini insieme sfocate ed irrigidite che questi episodi ci danno di Fortini, nel quadro lacerante delle situazioni storiche in cui si sono prodotti: il ’68, l’89, con tutto quel che significano questi due passaggi nella storia non solo italiana. Ma nessuno dei modi appena indicati mi convince; perché in fondo nessuno di essi  ci aiuta a leggere e distinguere, nell’opera fortiniana, il necessario invecchiamento dall’inattualità più vera, vorrei dir meglio: più resistente.

Accennerò allora a qualche ipotesi. In primo luogo, è bene chiedersi da dove viene l’estraneità di Fortini di cui ho parlato prima. Qui secondo me un primo utile suggerimento si può ricavare, procedendo per contrasto, dall’introduzione di Bellocchio ai saggi di Pasolini, che reca il titolo Disperatamente italiano – ecco qualcosa che Fortini non è sicuramente stato, e quel che conta, non lo è stato fin dall’inizio, cioè ben prima di scrivere i libri della maturità. Se infatti guardiamo alle letture capitali della formazione di Fortini, a parte l’incontro con Noventa – che del resto è anch’esso un caso anomalo nella cultura del tempo – troviamo Kierkegaard, Dostoevskij, Michelstaedter, una costellazione di pensatori e scrittori “tragici”, di impostazione essenzialmente etica, che con l’Italia ha pochissimo a che vedere, ma che non è nemmeno l’Europa a cui guarda l’intellighenzia dell’entre deux guerres). È con questo bagaglio, essendo già collocato, cioé, entro un orizzonte che assume in senso radicale la responsabilità etica ed insieme il fondamento tragico dell’esistenza, che Fortini si avvicina al marxismo; ed è un bagaglio decisivo perché naturalmente antidogmatico ma, al tempo stesso, costantemente interrogato dal problema dall’emancipazione dell’uomo, non in astratto ma accanto ed insieme agli altri uomini, nel solco della lezione evangelica. Non stupisce, perciò, la sua presa di distanza sia dal marxismo dottrinario, sia dalla vulgata dell’engagement in cui subito coglie, specie nella traduzione italiana, gli aspetti tipici di un nuovo conformismo in cerca di assoluzione per i compromessi del passato prossimo.

Credo che questa genealogia non abbia importanza soltanto per delineare l’orizzonte di partenza di Fortini, ma che aiuti anche a capire un aspetto non circoscritto, non effimero dell’inattualità di Fortini: con siffatti antenati, il poeta non poteva che rifiutarsi all’idillio e all’elegia, così come il saggista sarebbe sempre rimasto esterno al modello “dominicale”, edonistico ed essenzialmente aristocratico, di più o meno sensibile esteta, del critico-scrittore o saggista “letterato” che dir si voglia. (Donde anche il suo sentirsi perennemente in partibus infidelium, “ospite ingrato” e inascoltato).

Secondo punto. Nel saggio di Berardinelli si legge un’affermazione che ho sentito ripetere da più parti e che merita una riflessione perché costituisce l’altro versante dell’osservazione da cui sono partito. Vi si dice che «quanto c’è di meglio e di più durevole nell’opera di Fortini» (sottolineatura mia) si trova nella critica letteraria e non negli «scritti occasionali, inevitabilmente ripetitivi» (pp. 16-17). A questo proposito, dopo le mie riletture, ho qualche dubbio.

Intendiamoci, non voglio sostenere che Fortini critico letterario sia sovrastimato, non è questo il dubbio. Rinvio anzi chi di dubbi ne avesse al breve ma densissimo capitoletto di recente dedicato a Fortini da Pier Vincenzo Mengaldo nei suoi Profili di critici del Novecento, dov’è una lucida descrizione dei tratti caratterizzanti il critico acutissimo che Fortini è stato, capace di aprire nuove strade non soltanto nell’interpretazione dei singoli autori affrontati – autori che si chiamano non solo Proust, Kafka o Brecht, ma Leopardi, Manzoni, Tasso – ma anche in quella di periodi, istituzioni e fenomeni letterari in senso lato (penso ai lavori sulla traduzione, sulla metrica, alle definizioni di “classico”, di “letteratura”).

I rilievi che vorrei fare sono di diverso ordine, più generale. Il primo è niente più che un’impressione, un sospetto: ho idea che se smembrassimo le raccolte dei saggi e degli articoli, letterari e non, e li mettessimo di nuovo insieme ordinati in base esclusivamente ad un criterio cronologico, otterremmo un libro sicuramente con un alto quoziente di ripetizioni e di dislivelli, ma anche qualcosa di straordinario, unico forse. L’ipotesi è che tale sia la tensione e l’attenzione di Fortini verso il presente (e lo slancio verso il futuro) che quella tensione potrebbe tener insieme egualmente ciò che egli ha selezionato, separato e tenuto distinto con una rigorosissima intenzione strutturale (tutti i libri di Fortini, non solo quelli poetici, sono iper-organizzati, di studiatissima composizione).

Mi sbaglierò, ma forse la poesia dispone di strumenti e dispositivi che le consentono una più veloce inattualità (e dunque “resistenza”); mentre la prosa, o almeno un certo tipo di prose, con il suo periglioso e necessario attraversamento delle zone più esposte ai dialetti ed alla “conversazione” sociale, più intrise cioè di dialogia – nel punto “di contatto” con la contemporaneità, direbbe Bachtin – resta più a lungo in lista d’attesa, dopo il “consumo” immediato a cui è destinata. In questo senso lo squadernamento imposto dal ricorso alla semplice sequenza cronologica ed all’indistinzione tra pezzo d’occasione, articolo e saggio vero e proprio può essere legittimo – anche se in apparenza di basso profilo storicizzante – e perché no, salutare, propedeutico per farci uscire dal cono d’ombra dell’invecchiamento, facendo emergere aspetti, zone, continuità e discontinuità impreviste, non pianificate.

VI

Lascio l’ipotesi indimostrata e indimostrabile; e passo al secondo dubbio. Potrebbe anche darsi che proprio la dimensione prevalentemente letteraria – anche se certamente non asettica e tantomeno (figuriamoci…) professionalmente neutrale – degli scritti raccolti in Saggi italiani e Nuovi saggi italiani, pur ponendo in apparenza l’autore al riparo dai temporali ideologici (così sembrano presumere i più) debba però a sua volta pagare, alla lunga, qualche scompenso.

Tocco qui, sapendo di essere approssimativo, un punto che per me è di molta importanza, e che riguarda la natura del saggismo di Fortini. Natura che è difficile definire, io credo, proprio perchè non abbiamo a portata di mano “modelli” analoghi, e che aspetta ancora di essere studiata nella sua struttura interna, nella propria peculiare morfologia.

Fortini, è noto, ha rivendicato al saggismo il diritto fondante di essere il discorso del «diverso dallo specialista», cioè di parlare dei «rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono» (Premessa a Verifica dei poteri, p. 11). Bene, ma come avviene, concretamente, questo “parlare”?

Intanto noterò che una definizione di questo tipo sembra costeggiare quella che del saggio fornisce Lukàcs in L’anima e le forme, salvaguardando il carattere intermedio ed “ironico” del genere; ma se si considera quel che Fortini aggiunge di seguito, e cioè che la società presupposta da quel genere è tenuta in vita per pura finzione (scrive nel ’65), perché di fatto disgregata ed inesistente – mentre non lo era mezzo secolo prima – il carattere “ironico” del saggio è investito di una luce particolare, perché l’elemento soggettivo costitutivo del saggismo e lo sforzo di mediazione sono ormai in contraddizione disperata, di nuovo “tragica”.

Detto questo, osservando il modo di procedere di Fortini saggista, a me sembra che non solo negli scritti più impegnati ma a volte anche in quelli più brevi, egli compia un’operazione che riflette appunto la doppia natura accennata ora, ovvero il contrasto tra momento di mediazione e momento “tragico”. Mi spiego: il testo saggistico flette ed articola il suo discorso obbligatamente proteso verso l’oggi, verso i contenuti qui ed ora dei rapporti tra uomini società e storia, non entro lo spazio testuale di una riflessione lineare (dall’analisi alla sintesi, ecc.) ma entro una divaricazione lacerante, che sospinge il lettore verso un luogo sospeso tra presente e futuro.

Il processo si traduce in un duplice movimento: per cui dal dialogo in presenza, con la sua continua, puntigliosa introiezione di voci discordanti e le relative repliche, negazioni e opposizioni, si passa – spesso in chiusa, ma non necessariamente – ad un monologo in assenza, con un allontanamento che retrocede verso il sermone e con un mutamento che investe il tempo stesso del testo. Uso il termine “tempo” in duplice accezione: in senso musicale, in relazione alla “velocità” delle cadenze di un discorso ora enfatico o ironico e folto di provocazioni e allusioni, ora invece rallentato, sedato come dopo una tempesta, teso e lucente, sapienzale; e con riferimento al Tempo o meglio alle stratificazioni temporali da cui, nel testo, ci parla l’io, ora immerso nel continuum delle mediazioni culturali e discorsive, ora distaccato e quasi remoto, situato in un’altra sponda (direbbe Herzen).

C’è qui, in questo paradossale fondarsi nella discontinuità, un punto di contatto della prosa con la poesia, almeno per come ho inteso io quest’ultima. Sulla discontinuità infatti non sono costruite soltanto Una facile allegoria o Questo verso, per fare dei casi di poesie che mi sono care, ma anche un vertice assoluto della prosa di Fortini, I cani del Sinai, che non saprei davvero in che “genere” collocare ma che pure si potrebbe dire un tipo di saggismo estremo nel senso dell’Extrema ratio: tale cioé da procedere in base ad un pensiero che, come è scritto nella Premessa a quest’ultimo libro, assuma al suo interno la dialettica vitale e spiazzante dell’ossimoro, che accolga la contraddizione come suo principio fondante.

Non c’è miglior risposta a chi immagina un Fortini confinato nella Negazione o accecato dal furore dell’ideologia della lettura dei Cani del Sinai, in cui l’interpretazione del presente e quella del passato si confrontano e si osservano a vicenda attraverso frammenti figurali che nel loro freddo nitore sono già affermazioni in itinere, blocchi di tempo congelato in serbo per il futuro. Ma a cosa mira tutto questo?

VII

Anche se ho premesso di non voler tentare sintesi frettolose, concluderò provando a rispondere a questa domanda, e portando qualche esempio.

Ha scritto Romano Luperini, proprio discorrendo del saggista:

egli mira […] a momenti di rottura e di interruzione che costringono il lettore a impuntarsi e a interrogarsi; si direbbe che non ne cerchi l’assenso ma il dissenso; e comunque l’atteggiamento prevalente è di sfida. (Test., p. 76)

Mi sembra una descrizione efficace e convincente, a cui aggiungerei che la “sfida” non va vista come tenzone o provocazione, dirò così, “interna” alla cultura del destinatario (così mi pare avvenga per Pasolini, invece) quanto nel senso di un gesto che sospinge a inoltrarsi al di là di quella, a compiere cioé un salto qualitativo nell’ordine del vissuto, lì dove il lettore si trova di fronte alla storia, al suo proprio qui ed ora percepito come se fosse ogni volta davanti ad un bivio rischioso, come fosse ogni volta… in extremis.

Si pensi alla conclusione di Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo (un passo che anche Edoarda Masi ha estrapolato in un suo importante scritto su Fortini). Dopo aver compiuto una lunga e complessa – quasi vertiginosa – analisi storica e sociologica della funzione dell’intellettuale nella società, e del rapporto tra poesia ed esistenza nel presente, ad un tratto Fortini si chiede:

È possibile che il “proletariato”, la “classe operaia” non esistano o siano mai esistiti o siano solo immagini di altro, cui non sappiamo o vogliamo dare il nome?

È possibile. E sebbene questo non tolga necessariamente valore alla proposta omologia fra formalizzazione poetica e tendenziale formalizzazione della realtà umana nella storia, che si può supporre perseguibile per altre vie, ecco che toglierebbe valore a noi, fino a lasciarci spogli e muti e, peggio che morti, non nati. […]

È un rischio che deve essere corso; un’antica scommessa, e dev’essere accettata. Se “questa storia”, quella che ci sta intorno, non ha alcun fine, l’inesistenza è già tutta curva a ricevere ed annientare la forma che diamo al verso, appena meno imperfetta di quella che senza alcuna illusione tentiamo con alcuni compagni di conferire alla zona illuminata della nostra vita. Allora l’onore sarà stato nulla, senza la verità. Ma può essere anche il contrario: che l’onore costringa a sé, e tenga, la verità.

Mi pare che nella chiusa siamo vicinissimi a cadenze e lessico della poesia fortiniana, e si noti la forte, rilevata struttura retorica del brano, con il triplice «È» iniziale, ed il «Ma» conclusivo. Quel che è da sottolineare, però, è il movimento complessivo della prosa: dopo aver compiuto la sua azione demistificante – secondo l’itinerario proprio di ogni emancipazione – negli ultimi periodi l’autore si spinge fino ad un territorio davvero estremo: la prospettiva non solo di chi è muto, o morto, ma addirittura non nato. Da quel punto, non prima, ha luogo uno spiraglio, si apre una possibilità di futuro diverso. Ma quale sia l’antica scommessa, l’autore non lo dice: è al lettore che tocca ritrovarla.

Se devo quindi immaginare una metafora per definire questo “salto” richiesto al lettore, e dire con una parola l’elemento utopico strettamente connesso a tale prospettiva, ricorrerò di nuovo al lessico della poesia; chiamerò questo processo “risveglio” – e qui tocco forse il punto più estremo e più attuale, oggi, dell’inattualità di Fortini.

Se esiste una cultura ostile al risveglio, è infatti quella in cui siamo immersi; e non solo quella del consumo, anche quella che con un moto autistico torna sempre ad agitare conflitti privi ormai di presa sul nostro presente: fascismo/comunismo, progresso/reazione, e via di seguito. La volontà di intrattenere e di assopire fanno tutt’uno, livellando ogni opinione, passato e presente, e facendo convivere catastrofe e sempre-uguale, vita e morte l’una accanto all’altra, adiacenti e in definitiva intercambiabili.

In Più velenoso di quanto pensiate (’71) si trova l’indicazione di due compiti che, allora, mi sembra opportuno rammentare. Il primo, scrive Fortini,

è quello di far passare i nostri vicini e noi stessi dalla passività quotidiana (attraversata da sussulti di piacere e di angoscia, come i feti nelle loro acque), alla capacità di mutamento come costituzione di un progetto di se stessi; di passare dal senso di un tempo non qualificato, che si contorce nell’attimo, a quello di un tempo sostenuto dalla solidarietà e quindi volto a rendere, come diceva Merleau-Ponty, “meno fatale il disordine e meno insensata la morte”. […] L’altro impone di combattere l’ipnosi indotta dall’azione come droga, la “distrazione” che viene dal falso ottimismo; ci comanda di dispiegare e di aver sempre presente la irriducibilità, la insaziabilità dei desideri e dei timori, le radici corporee della individualità, la passione per il valore del presente, la necessità di chiamare per nome i vizi e le virtù e praticarli nella loro contraddizione. (p. 23)

Mi sembra un buon viatico per ricominciare.

[intervento letto a Napoli, Istituto Orientale, 2001]