Ho pensato più di una volta che Giuliano Scabia era una delle persone alle quali si poteva riferire l’espressione di Leopardi «creature quasi d’altra specie», un’espressione che il poeta usa nel primo dei 111 Pensieri per dire di un’opposizione tra il mondo dominante e pervasivo dei «birbanti», dell’utile, dell’affermazione di sé da una parte e quei pochi davvero estranei a quel mondo, non travolti dagli interessi e dalle azioni che guidano la maggioranza. Il “fanciullesco” di Scabia era attitudine all’incantamento, ma allo stesso tempo assiduo lavoro – di ricerca, d’invenzione, di azione poetica – perché questo incantamento potesse essere condiviso. Il teatro come forma corporea, linguistica, desiderante, di una comunità. In questo la sua esperienza e la sua caldissima «animazione del mondo», come diceva della sua azione teatrale il comune amico Gianni Celati, è stata assidua, insonne, sempre festosa e insieme meditativa. La poesia, la poesia-teatro, e il teatro-poesia, erano il linguaggio nel cui estesissimo spazio Giuliano Scabia si è mosso con risultati ogni volta sorprendenti. Dalla tradizione della Commedia dell’arte prendeva le radici popolari, i travestimenti, la fisicità espressiva e clownesca, ma non la fissità delle figure, e ne mescolava gli effetti con l’altra tradizione italiana, quella dell’epica cavalleresca, come era restituita dai suoi esiti nelle riprese popolari e contadine, e quella della lingua immaginosa e bizzarra come giungeva dal mondo di Ruzante e di Folengo. Accanto a questo, era forte in lui il piacere del favoloso, che contaminava con una reinvenzione tutta contemporanea del mito, della sua energia corporale e fantastica insieme (Orfeo e Dioniso, in particolare). Ma si trattava del mito rivissuto come rito d’incontro tra individui-attori sempre in cammino: comunità vagante in grado, di volta in volta, di annodare conoscenza e gioco, e raccogliere, intorno allo svolgimento creativo di figure, lo stupore e lo svagamento e la meditazione degli spettatori. Dal suo arrivo al Dams di Bologna il teatro, la scrittura poetica, la narrazione sono state vissute nell’azione, cioè nel farsi presenza corporea e collettiva. Dal corso del 1974 e 1975 in cui il Gorilla Quadrumano diede avvio alla peregrinazione di studenti-teatranti per paesi e boschi, ogni volta inventando adattamenti e forme nuove, ai cicli di scrittura affidati a Nane Oca, fino alle tante Operina dell’Anno Nuovo, la poesia è stata vissuta da Giuliano sempre come parola che chiama intorno a sé l’immagine, il disegno, l’oggetto dall’uso reinventato, la cartapesta, insomma passa dalla voce, dal corpo, e agisce nell’ascolto, sollecita rispondenze, si fa a sua volta ospitalità di quel che viene dal paesaggio, dalle tradizioni poetiche e narrative, dalle veglie, dal sapere contadino, dalla festa popolare.
Di Marco Cavallo (il cavallo azzurro costruito nell’ospedale psichiatrico di Trieste, in una coralità fatta da pazienti, medici, infermieri, artisti e nel vivo dell’esperienza rivoluzionaria di Basaglia) Giuliano disse poi che era «una poesia azzurra scritta insieme – un poema epico fatto da tanti umili “omeridi”, tutti incantati». Ma si può dire che tutto il cammino di Giuliano Scabia, tutto il suo teatro politico e poetico, ha avuto questo incantamento che da soggettivo diventava subito corale. Un cammino singolare, alla cui esperienza dovremo far riferimento ogni volta che vorremo intendere qualcosa del legame tra la poesia e l’azione, tra l’immaginazione e la vita, tra l’invenzione e la comunità.