
Giancarlo Majorino è uno di quegli autori che sono stati mantenuti in penombra perché non ha receduto da certe posizioni politiche e morali. Alle sue origini una sorta di “realismo” che può anche essere detto lombardo; un senso forte delle condizioni che i conflitti sociali fanno all’intellettuale. Di qui, come sua seconda componente, Brecht. E, come terza, l’assunzione delle fratture psichiche proprie della nuova avanguardia ma senza nemmeno l’ombra dei compiacimenti e delle complicità che sono di tanti poeti dello scorso ventennio. Majorino, nel suo ultimo recentissimo libro, che s’intitola Provvisorio, è squassato da una energia tragica e patetica, come chi si muove in un caos inafferrabile e nel medesimo tempo vuol far sentire che esistono, al di fuori della poesia, armi intellettuali ed etiche che debbono ricostruire e riorganizzare il mondo. Vi senti Zanzotto, ma senza il “sublime” del poeta veneto, sostituito da una mira, una sollecitazione, spazio-temporale.
Le parole si frantumano, limate da aferesi, raddoppiate da effetti d’eco. La poesia si svolge su piani simultanei. Una lirica ha per titolo Attimo nelle mie zone, corso di porta Vittoria:

1 F. Fortini, Breve secondo Novecento, Milano-Lecce, Editori di comunicazione Lupetti-Piero Manni, 1998, pp. 41-42, ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1160-1161.