Un certo appetito
Bellocchio saggista
Luca Lenzini

Piergiorgio Bellocchio, Un seme di umanità. Note di letteratura, Macerata, Quodlibet, 2020.

In Un seme di umanità Piergiorgio Bellocchio ha raccolto saggi scritti tra il 1967 ed il 2005, gran parte dei quali già apparsi in rivista («quaderni piacentini», «Diario» le principali, di cui Bellocchio è stato anche direttore), ma anche interventi pubblicati su quotidiani e prefazioni a edizioni di classici moderni o in miscellanee. Si tratta, perciò, di interventi disseminati lungo una vasta arcata temporale e frutto di una scelta selettiva; e tuttavia il lettore non troverà nel libro un percorso ordinato cronologicamente e storicizzato in base alle date di pubblicazione, né scandito per generi o temi, bensì un arioso e libero palinsesto che rimanda a precise predilezioni, come in un ritratto, e ad altrettanto decisi orientamenti, umori, passioni. Così Un seme di umanità si propone come testimonianza di un modo di leggere (e pensare) che di per sé pone in questione tutta una serie di abiti mentali, luoghi comuni, inerzie e ipocrisie di cui, ormai, non ci rendiamo neanche più conto, forse perché sono parte integrante e cristallizzata della nostra cultura: tanto siamo abituati ad una routine che contempla da una parte lo specialismo accademico, dall’altra la chiacchiera mediatica incessantemente promossa dall’industria culturale, che la mera esistenza di un libro come questo, il suo nitido affiorare da un cinquantennio di rimozioni e connivenze, dovrebbe imporci una pausa di ripensamento, un ascolto più attento delle ragioni di fondo della letteratura che ancora ci parla; e di ciò che, nella letteratura, travalica la letteratura stessa. Sotteso a quest’antologia personale ed “inattuale” (ovvero attualissima) e controcorrente è un invito: a non cedere, a rimettere al centro del discorso – non solo letterario: della civile conversazione, se ancora esiste… – un ethos egualitario e condiviso, qualcosa finalmente di non distorto, rassegnato o strumentale alla violenza della doxa.

È questa un’aspirazione ogni volta respinta dai tempi, ma che permea in profondità lo stile di Bellocchio, e ne rende riconoscibile, d’acchito, la pagina, tanto più asciutta e priva di retorica in quanto irriducibile alle seduzioni del consumo onnivoro, alla distrazione procurata o individualisticamente sovrana. Non per nulla l’espressione «un seme di umanità» del titolo proviene dal saggio su Bouvard et Pécuchet (in Flaubert. Il grottesco diventa realtà, p. 108): nella rivendicazione della onestà dei «due cretini» si riflette non poco della moralità di Bellocchio, un nucleo di pensiero coerente e, anch’esso, «genuino e indistruttibile», da cui pertanto il nostro mondo, non meno di quello descritto da Flaubert, diffida e si difende, e s’intende: «giustamente» (ibidem). Ecco che allora Bouvard e Pécuchet sono due «eroi del no», secondo Bellocchio, quindi in famiglia con Akakij Akakievič e Bartleby, gli indimenticabili personaggi creati da Gogol’ e Melville. Come per altri intellettuali e saggisti amati dall’autore (da Herzen a Kierkegaard e Simone Weil, da Orwell a Fortini), il loro punto di vista è rigorosamente dal basso, non diversamente da quello, esemplare quant’altri mai, dello Švejk di Hašek, e perciò disobbediente al conformismo ed all’ordine sociale dato come insindacabile, naturalizzato e permanente.

A una tale stirpe, resistente alla pressione che perverte il momento collettivo, fraterno e d’affrancamento, in massa obbediente, sono dedicate molte delle pagine più belle del libro, una popolosa galleria di cui, a pieno titolo, fanno parte i personaggi di Stendhal e Dickens (in David Copperfield, Tempi difficili, Il nostro comune amico), ma anche le umanissime figure che parlano nelle Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi, altro libro disertato dai tutori delle patrie lettere ma con pochi eguali nei suoi anni (e anche dopo). Si legge in chiusa al saggio del ’98, nato come prefazione all’edizione Bompiani dell’opera di Montaldi: «Una vita giusta e degna d’essere vissuta postula la messa in discussione proprio della norma sociale, della legalità borghese, il cambiamento dei rapporti su cui si regge» (p. 235). Sullo sfondo di quest’assunto si fa chiarissimo il senso del no, il rifiuto di ogni falsificazione o ben celata tartuferia, che risuona nel timbro proprio di Un seme di umanità, un no il cui accento si può cogliere anche in tutti quei passaggi del libro in cui Bellocchio decostruisce e ricostruisce, con straordinaria padronanza del contesto e della struttura delle opere, la trama dei romanzi oggetto del suo discorso, svelando le contraddizioni e i frammenti di verità che parlano sì il linguaggio dell’epoca o della classe di appartenenza dell’autore, ma che se a volte lo confermano, non di rado lo sconfessano. In ciò – in questo movimento assieme demistificante e profondamente “ermeneutico” – l’interprete si trova a costeggiare, affrontando i grandi romanzi europei della tradizione otto-novecentesca, tanto la teoria di Lukács del “trionfo del realismo”, quanto la dialettica negativa adorniana; anche qui senza alcun omaggio a schemi preconcetti, ma per istinto critico, in linea con quella «curiosità per il “fattore umano”» e «quell’appetito di realtà» (p. 110) che Bellocchio individua come fonte prima del saggismo di Edmund Wilson, ma che riguarda molto da vicino lui stesso, differenziandone e marcandone un saggismo riportato all’etimo più nobile e durevole.

Del resto, si noterà che nella Premessa Bellocchio non manca di sottolineare la propria propensione «a favore di scritture diaristiche, memorialistiche, storico-politiche» e di «quella narrativa che illumina aspetti della storia sociale, verso i quali mi indirizzavano anche alcuni dei critici dai quali mi è sembrato di imparare di più» (p. 9); sicché dall’insieme di queste inclinazioni si capisce come Un seme di umanità faccia da pendant a quell’altro capo d’opera di Bellocchio (che si spera presto riproposto) intitolato Dalla parte del torto (Einaudi 1989), dove l’impianto è appunto diaristico, nella tradizione del journal e del saggio che può farsi tanto aforisma – ma ce ne sono pure nel Seme – che digressione, arringa à la Kraus oppure tranche de vie illuminante, o disperante (o entrambe…), che sia.

Non è però soltanto di questo stile e di queste radici e genealogie che il lettore del Seme di umanità trattiene, a libro chiuso, la più viva impressione. A colpirlo è l’apertura a tutto campo dello sguardo critico, capace di passare da un tema come La rivoluzione nel romanzo russo dell’Ottocento – pezzo magistrale tra tanti – a Barry Lindon di Kubrick, o da Th.E. Lawrence a Pasolini e da Casanova a Céline. Rivisitazioni e sintesi che propongono prospettive inedite e ricche di spunti, pur volendosi di ordine didascalico e per così dire “di servizio”; e proprio per questo il torto più grande che si può fare al lavoro intellettuale di Bellocchio è fare di lui un altro campione del “gusto”, l’ennesimo piccolo maître da esporre al mercatino delle pulci edoniste e post-ideologiche, non importa se progressiste o reazionarie. Nulla a che vedere, in questo libro, con quel circo funesto: autorevolezza e durata di queste pagine sono strettamente legate al fondamento etico-utopico del no, e se il titolo del libro alza un volta ancora l’insegna dell’«umanità», è perché l’assedio dell’inumano non smette d’inseguire le nostre vite. Così la parabola del seme (Matteo, 13) vale per quel che Bellocchio si augurava in apertura di un suo altro libro (Al di sotto della mischia, Scheiwiller 2007), ovvero «di trovare qualche giovane che legga queste cose per la prima volta e per quello che dicono». Che è lo stesso augurio che facciamo non solo a lui ma a noi stessi e a quanti hanno quella certa curiosità.