Su Punctum fluens
di Antonio Bisaccia
Osservazioni sull’antinomia tra realtà e astrazione nel film sperimentale
Alessandro Cadoni
Siamo nel 1928. Con queste parole, non senza un filo di retorica, Abel Gance intendeva riassumere la propria idea di cinema, al contempo esponendo una poetica, mettiamola così, operativa e militante. Ed è proprio in tal senso che quel tono retorico si mostra funzionale all’oggetto polemico, ovvero il cinema stesso, col suo linguaggio conteso tra una direzione mercantile e un’altra pura. La nuova arte è d’altronde poco più che neonata, creatura di quel secondo Ottocento capace, col suo senso della téchne, di concepirla, per poi consegnarla, immane infante, al nuovo secolo che, tempestivamente fratturato tra vecchio slancio capitalistico e nuovi umori angosciosi, la lascia sospesa tra interesse economico e possibilità puramente artistiche. Per dire: emessi i primi vagiti, proprio nel momento dello sviluppo del linguaggio, il cinema incrocia immediatamente la strada delle altre arti, laddove, apertasi la voragine modernista, a un’espressione ancora incertamente strutturata è imposta la riflessione sulla rottura con la tradizione. Il secondo e il terzo decennio del Novecento sono segnati dal solco delle sperimentazioni e delle avanguardie. Eppure è innegabile che negli anni di Proust e Joyce, in quelli di Schönberg o Kandinskij, tra espressionismo e cubismo, futurismo e dadaismo, le due tensioni immediate e fondamentali del cinema – quelle che un grande critico, Barthélemy Amengual, ha chiamato il coté Méliès e il coté Lumiére – parrebbero principalmente indirizzate in un senso narrativo e rappresentativo tutto ottocentesco, filo-letterario e teatralizzato. Ci sono tuttavia, in questo fiume apparentemente placido, increspature di non poco conto: con le avanguardie storiche, come si accennava poc’anzi, in soccorso del film; e, più in generale, con l’universo delle sperimentazioni. È questo, relativamente proprio agli anni ’20, il campo di ricerca di Punctum fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema e arte d’avanguardia, il saggio di Antonio Bisaccia di cui l’editore Meltemi ha di recente riproposto una nuova edizione, arricchita da due scritti, rispettivamente in prefazione e postfazione, dell’italianista Patrick Rumble e di R. Bruce Elder, specialista di cinema sperimentale e regista di primissimo piano nel campo del film d’avanguardia nordamericano. Uscito una prima volta nel 2002, questo studio, come nota lo stesso Rumble, ha da subito notevolmente «contribuito alle riflessioni estetiche e al dibattito critico […] a proposito del cinema sperimentale», e in generale sulle arti delle avanguardie storiche: proponendosi come uno studio originale, per di più considerata la provenienza, quella degli studi cinematografici italiani che, storicamente, non hanno troppo battuto questo campo d’indagine. Mio obiettivo è qui restituire la lettura di questo saggio non tanto in senso globale o riepilogativo, ma soffermandomi piuttosto su alcuni spunti, o meglio, si intenderà, puncta: tentando in questo modo di ragionare sul rapporto tra cinema e realtà, su ciò che resta di tale rapporto una volta che i fatti della realtà sian stati fotografati e sia stato loro restituito il movimento (problema che, con gli opportuni passaggi mentali, può valere anche per il film astratto o di animazione, se teniamo il movimento e la luce come comuni denominatori di cinema e realtà).
Torniamo allora al nodo su cui abbiamo esordito, e al periodo storico letto attraverso la lente, del tutto peculiare, si vedrà, di questo saggio. E torniamo dunque al brano iniziale di Abel Gance, richiamato da Bisaccia. Il cinema, nel dialogo con le altri arti, possiede un senso di perenne instabilità perché, pur crescendo (ed essendo nato già bello pasciuto), è rimasto bambino, mortificato, aggiunge Bisaccia, «dall’esercizio dell’enterteinment o imbalsamato nel coagulo del manufatto rassicurante».2 Una simile preoccupazione, che si potrebbe definire pedagogica (il cinema stesso la creatura da educare), muove l’autore di Napoléon: quella non tanto di stabilire un dialogo (che resta innato) con le altre arti, quanto di partecipare con mezzi propri al rinnovamento radicale dei linguaggi che vede le arti protagoniste. C’è dietro un simile intento un’intera truppa di cineasti e teorici, che spesso in una sola persona sono l’una e l’altra cosa, e Punctum fluens traccia con chiarezza quali sono le disposizioni al suo interno. Nulla è tralasciato, dagli esordi del cinema all’esperienza dell’espressionismo tedesco, dalla cosiddetta première vague – con lo stesso Gance, Epstein, Delluc, Dulac – al dadaismo e al surrealismo, passando per futurismo e formalismo russo. Il campo è ben chiaro dall’inizio, quando, dopo un’informata rassegna sulle principali catalogazioni storiografiche del cinema d’avanguardia, l’autore preferisce da subito – nonostante il sottotitolo del saggio – avvalersi di un concetto più aperto come quello di sperimentazione. Secondo una tale ottica, implicitamente, è esposta una delle idee direttive di questo studio, quella che poi muove principalmente le presenti riflessioni: la sperimentazione, in ottemperanza alla propria radice, diciamo così, empirica, rientra nella necessità teorica e pratica di mettere a contatto arte e realtà, anche attraverso l’abbandono, paradossalmente, di forme immediatamente imitative. Vediamo in che modo, con alcuni riferimenti al testo. Constatato, valgono ancora le parole scritte da Jaques Brunius,3 che concetti come avanguardia e sperimentazione non sono facilmente definibili, Bisaccia scrive:
Il verbo sperimentare definisce un indirizzo metodologico per l’attuazione di ricerche fondate sull’esperienza, sull’osservazione di fenomeni iterativi, e sull’attività analitica che li descrive.
Le continue prove nell’uso di una materia calda da forgiare come il cinema, con un linguaggio ancora tutto da consolidare, sono il segno evidente delle frenesie conoscitive di molto artisti che si dedicano alla nuova musa modernista.4
Ecco, è ancora nell’alveo modernista che dobbiamo cercare, seguendo la nuova linfa che, in tale prospettiva, alimenta ora la realtà rappresentata. Sì, perché, tra le tante cose, in Punctum fluens abbiamo anche la riprova – le verifiche non sono in questo caso mai abbastanza – del rapporto inequivocabile tra realtà e rappresentazione: rapporto al quale il cinema non può in alcun modo sfuggire. In tal senso, nella selva di riferimenti su quelle che potremmo chiamare “paleoteorie cinematografiche”, l’occhio mi va a cadere sulla posizione, per certi versi insuperata (non lontana da quella di André Bazin), di Umberto Barbaro: il quale da subito mette opportunamente in guardia dalle manie di purezza del linguaggio cinematografico – gli eterni equivoci sullo specifico filmico –, demistificando al contempo gli eccessi di sovranità della tecnica. A pensarci, parrebbe sorprendente leggere in un saggio sulle avanguardie primonovecentesche la posizione di un critico che, pur non essendo (come sarà Guido Aristarco), un lukácsiano di ferro né un seguace delle teorie del rispecchiamento, da marxista si aggira assai spesso attorno al tema chiave del realismo. E però, a una lettura più profonda, ciò non sorprende affatto, e le idee di Barbaro, qui pure citate a margine di altre, risultano capaci di correggere le posizioni contrarie ma – egualmente al contrario – tutt’altro che laiche, d’un credo fideistico: quelle, appunto, sulla aprogrammaticità assoluta delle forme e sul rifiuto di ogni sudditanza del significato rispetto al significante. Se è vero che tale sudditanza va giustamente contrastata, lo è altrettanto il fatto che liberazione da una siffatta sudditanza non vuol dire affatto remissione di ogni vincolo. Bisaccia ne pare convinto, ad esempio mentre, richiamando le parole di Barbaro, parla proprio di uno specifico che «molti ancora oggi cercano», ma che non è «cha la pelle disidratata di un dogma classificatorio di superficie»;5 oppure altrove, col rimando a un punto di vista apparentemente defilato, invece di assoluto rilievo, come quello di Massimo Bontempelli, il quale era alla ricerca di una mediazione tra il concetto, chiuso ed elitario, di cinema puro e la pesante condizione ancillare rispetto a letteratura e, soprattutto, teatro.6 Su quale sia la complessità del viaggio del film sperimentale e al contempo la difficoltà d’una sua definizione univoca mi pare faccia luce un altro passaggio. «Film sperimentale è allora quel film in cui il messaggio è in qualche modo autoriflessivo, richiamando l’attenzione sulla sua stessa struttura. Ovvero quando è costruito in maniera ambigua». Così scrive l’autore,7 reiterando la visione classica per cui nella modernità la rottura formale arriva anche attraverso la riflessione della forma su sé stessa, attraverso, cioè, la funzione metalinguistica. Ma subito dopo corregge, o quantomeno bilancia, la precedente affermazione: «non tutto il film sperimentale è costruito in maniera ambigua». A dimostrazione del fatto che la categoria di sperimentalità non risieda allora nella sola rottura come neppure nell’esposizione della struttura di pensiero, un suggestivo richiamo al Berretto a sonagli di Pirandello e alla teoria delle tre corde, che come è noto punse a fondo l’attenzione dello Sciascia saggista. Bisaccia traccia un parallelo fra le tre corde e le funzioni linguistiche di Jakobson, facendo corrispondere alla corda civile la funzione fàtica, «con la necessità di mantenere aperto il canale della comunicazione», e a quella seria proprio la funzione metalingusitica, «in quanto in ambedue si cerca di mettere in chiaro, di far luce, di stabilire significati». Resta la corda pazza, per la quale «si tratta di abbattere un modo (una morale) di vivere convenzionale straripando dagli argini consentiti»; a essa corrisponderebbe la funzione poetica, per la quale «si tratta di svellere l’ordine costituito della lingua sgominando l’assetto vincolante del codice». Se è vero che a questo codice «il film sperimentale guarda con sospetto», lo è pure il fatto che ciò che ne consegue, il film stesso, non è qualcosa di staccato dalle idee del mondo, che non restano avvolte in un «sudario delle vanità, e non sono neanche passeggere di una chimera irraggiungibile». La corda pazza funge dunque da correlativo oggettivo del vero e più profondo senso del cinema, nel suo essere dotato di una potenzialità capace di coprire l’intera gamma espressiva, dal senno alla follia, dalla «mimesi dello sguardo» – per dirla col Pasolini del Cinema di poesia – alla mimesi espressionistica del caos interiore. In tal senso, i film e i movimenti che sono oggetto di studio di questo volume si possono leggere come mezzi privilegiati di questa infinita potenzialità espressiva. Poiché scevri di coercizioni narrative o stilistiche, essi sono attraversati da «un’energia cinetica estrema e da una prorompente e non conoscibile libertà permanente», prossimi allo stesso tempo all’errore e alla perfezione. E conclude in tal senso Bisaccia: «Coerenze e incoerenze, nel film sperimentale, sono figlie dello stesso nume: quello che rilascia la licenza di metamorfosare o eludere la realtà».8 Perciò non è facile, né tantomeno lecito farlo a prescindere, stabilire dove si trovi la già menzionata categoria di sperimentalità. Sperimentale è il film che non si contenti di mostrare, ma che voglia anche scoprire, sviluppandosi nel senso di un viaggio di andata e ritorno dai significanti ai significati. E la corda pazza, in tal senso, è lo strumento che, nella realtà fluente e fotografata del film, ci mostra un imprendibile punctum barthesiano. È così spiegato anche il titolo del saggio. Il punctum di cui l’autore dei Miti d’oggi parla nella Camera chiara, è a prima vista incompatibile con le immagini in movimento, perduta la fissità d’origine della fotografia. Tale incompatibilità è però subito corretta nel momento in cui il punctum del fermo immagine diviene, nel flusso cinetico dei fotogrammi, «momento e attimo ad interim»: fluens, insomma. Lo ripeto: siamo sempre nei dintorni della nascita del cinema e dell’era che lo ha allevato, quella modernista, con la teoria elaborata da Bisaccia avvitata attorno a Barthes (e, in secondo termine, al saggio Forma fluens di Ruggero Pierantoni) e appoggiata, come fa anche notare Elder nel suo saggio di chiusura, alla filosofia bergsoniana (e implicitamente, a quella deleuziana). Senza qui inoltrarsi nella spessa coltre teorica che si materializza di fronte a tali riferimenti, voglio apportare un dato che mi pare venga incontro al presente discorso. Con Bergson, la durata – la concezione e la percezione del tempo – cessa di essere, positivisticamente, mero dato quantitativo, determinato, com’è, dalla coscienza individuale, in senso dunque qualitativo. Ecco dunque che il cinema, se ha la coscienza della soggettività del reale, contribuisce a una sua rappresentazione peculiarissima, antirealistica e veritiera al tempo stesso. Ancora Abel Gance, che con la sua polivisione – la speciale tecnica attraverso la quale, in senso orizzontale, giustapponeva tre differenti bobine, anticipando, in senso frammentato, il cinerama o il cinemascope – non intendeva semplicemente allargare lo specchio del visibile, ma formare una sorta di «sintassi del vedere».9 Per Gance, si diceva, «la realtà è insufficiente», motivo per il quale egli usa tutta una serie di strategie per arrivare a una diversa realtà, una superiore «verità cinegrafica».10 In tal modo si arriva a tradirla, ma non per abbandonarla per altri territori, anzi: l’obbiettivo è scardinarla, rompere il guscio, e tradendo l’involucro, il realismo ingenuo (siamo ancora dalle parti di un rispecchiamento inerte), andare a fondo, verso l’essenza. A proposito di Jean Epstein, altro autore centrale, al pari di Gance, della “prima avanguardia”, si fa riferimento a un metodo che si potrebbe definire “radiologico”: il concetto di cinema mistico elaborato dall’autore francese si avvicinerebbe, secondo Bisaccia, alle «pratiche della radiologia medica»,11 alla ricerca «delle intenzioni liriche nascoste sotto le cose».12 È qui che si manifesta il mondo della lirosofia, dove suggestivamente son fuse due attività dell’intelletto, ove si recupera il senso altrimenti ottuso da un iter percettivo regolare. Radiologia, dunque, dove per arrivare alla rappresentazione è necessario attraversare il tessuto della realtà. Tale la direzione, s’è detto, delle correnti moderniste. Mi pare che si possa in tal senso sconfinare in campo letterario, e chiamare in causa, seppur rapidamente, le teorie critiche di Erich Auerbach. In Mimesis il saggista tedesco traccia una vera e propria storia letteraria indirizzata alla ricerca della realtà attraverso la letteratura, quella che lui chiama con l’espressione che in italiano suona appunto come “realtà rappresentata”. Sostanzialmente, quando tale categoria agisce efficacemente, significa che la scrittura non è passata esteriormente a registrare gli avvenimenti. In essa agiscono, invece, elementi compositi e complessi, dalle mescolanze stilistiche – indice primario di realtà rappresentata – al rovesciamento delle soluzioni narrative classiche tipico del modernismo, con le epifanie, il flusso di coscienza, il logoramento delle trame e in genere del romanzesco, la dilatazione temporale ecc. Ecco, anche il cinema, con le avanguardie storiche e la storia delle sperimentazioni filmiche, si inserisce in questa linea. La realtà non è solo fatto, accadimento. È anche ciò che c’è di sommerso. È pure ritmo, suono, luce che si ricompatta, ottica. In tal modo può restituire un’idea di realtà anche la sovrimpressione, così diffusa nella première vague, magari nella sua corrispondenza, così scrive l’autore, a «una sorta di cassa armonica che amplifica i concetti».13
Il cinema, nella dialettica tra spazio e movimento, tra continuità e dettaglio, trovando nel montaggio il suo gesto sovrano, è l’arte del frammento. In una visione del mondo fratta come quella novecentista, il frammento è il principio di leggibilità di qualsiasi realtà da rappresentare. Si tratta di un’altra questione, a dir poco cruciale, che innerva le pagine di Punctum fluens. Bisaccia è, lo vediamo nelle pagine su Fernand Léger, per un cinema che sta dalla parte del frammento. Come è ovvio che sia. Il cinema illude di riportare la realtà, ma vive di soli frammenti: e il frammento, nei fotogrammi, insiste anche nell’illusione della continuità. E però, la realtà si ricompone proprio nei frammenti e attraverso di essi, magari dietro l’astratto, magari anche nel «cinema puro e/o astratto».14 Accanto all’astrazione del frammento c’è la ricomposizione della cosa. Materialisticamente, il cinema sperimentale – negli esiti dadaisti e surrealisti, specialmente – diventa il cinema degli oggetti. Ecco, il frammento, vivo, si ricompone in oggetto, gli oggetti, col loro respiro, compongono il reale. Quella che potremmo chiamare biologia delle cose si evince, qua e là, nelle pagine del saggio: «Si assiste durante il periodo delle avanguardie storiche a un brusco, instancabile, dinamico e reiterato risveglio dell’oggetto», che si trova a passare così da «una vita inorganica alla vita organica».15 Si tratta di oggetti che «operano una distinzione netta tra significato e significante», alterando «il senso delle cose, fuori dai luoghi che sono loro pertinenti». Il caos, gli oggetti, diciamo così, decontestualizzati, non sottraggono credibilità al reale, tutt’altro. Dimostrano semplicemente che la realtà funziona secondo leggi caotiche, indistinte, alchemiche, suggerisce Bisaccia. Attraverso la filza di oggetti, l’enumerazione, recupera il rapporto con la stilistica, di cui dicevo poc’anzi. Ripensiamo ad Auerbach, che avrebbe forse sottoscritto (almeno nella parte che evidenzio in corsivo) questa affermazione di Tristan Tzara: «Libertà: Dadà, Dadà, Dadà, urlo di colori contratti, groviglio degli opposti e di tutte le contraddizioni, del grottesco e dell’incongruenza: la vita».16
«Ciò che è reale è il continuo cambiare delle forme: la forma è solo un’istantanea del mutamento», scrive Bergson, nell’Evoluzione creatrice. Ci vuole, per cogliere il punctum in questo mutamento tambureggiante, quello che ancora Barthes, in un folgorante saggio del 1971 su Ivan il terribile di Ėjzenštejn, chiamava il senso ottuso, contrapponendolo all’ovvio. L’area di tale senso, ne scrive Bisaccia, apre il campo all’interpretazione non in modo segnaletico, attraverso la traduzione di un significante in significato e viceversa, ma secondo quello che lo stesso Barthes chiama approccio poetico: ciò che, al di là dell’ovvio “intellegere”, eccede, «come un supplemento che [l’]intellezione non riesce bene ad assorbire, ostinato e nello stesso tempo sfuggente, liscio e inafferrabile».17 L’ottuso sta all’ovvio come il punctum allo studium: il suo strumento di conoscenza è la corda pazza.
In conclusione, Punctum fluens è una strada lunga e tortuosa, che a primo sguardo pare ripercorrere ogni snodo in cui rappresentazione – mettiamo anche linguaggio – e reale si divaricano, si sentono irriducibili l’uno all’altro. Eppure quando i frammenti si ricompongono in opera, sia pure dichiaratamente opera di frammenti – laddove non esiste obbiettivo e tutto si faccia eccentrico –, ecco, proprio lì quell’irriducibilità vacilla. Percorrere una simile strada ha richiesto all’autore uno sforzo di coerenza. Sì, perché il saggio di Bisaccia pendola tra una chiarezza di intenti e tesi e un’oscurità – linguistica, sintattica, affabulativa – che pare prossima al suo stesso oggetto di ricerca. Per cogliere le tracce del senso ottuso occorre forse la corda pazza. Bisaccia tenta la sua strada attraverso uno stile particolare. Non dimentichiamo certo moltissime pagine analitiche e informate, proprie di un saggismo diciamo così accademico, nelle quali i film sono posti al vaglio degli strumenti stilistici, al servizio di una ricostruzione critica e storiografica: e si ricordi qui per inciso un dato che rende doppiamente importante la riproposta di un saggio come questo a distanza di una quindicina di anni: nel momento cioè in cui, rispetto al 2002, al lettore è data la possibilità di accedere immediatamente in rete a moltissimi dei brani audiovisivi di cui sta leggendo, cosa che allora avrebbe comportato le fatiche che normalmente competono al ricercatore, tra richieste e viaggi per archivi e cineteche, o affannosi inseguimenti del mercato home video o di registrazioni televisive. Comunque, a tali pagine si alterna, risultando poi preponderante, una prosa contratta, fratta, con alcuni tratti di sapore espressionistico, altri con venature metalinguistiche: come quando, nel tentare il compito – impossibile, ormai lo sappiamo – di definire coerentemente il film sperimentale, si abbandona al linguaggio avanguardista dei manifesti. Facciamo nostra, per poi integrarla con un’osservazione finale, la suggestiva ipotesi di Bruce Elder, nelle pagine conclusive del volume. Tale stile, inequivocabile protesta del corpo dello scrittore, sarebbe una verticalissima intromissione dello studioso in carne e ossa nella sua opera critica. Così come un cortocircuito crea sempre l’intromissione della realtà nella finzione, del movimento vero nel movimento rappresentato (vuoi pure attraverso l’intuizione di un punctum fluens), allo stesso modo la complessa e informata struttura dello studio teorico viene retta da lacerti di vita che, parassitariamente, penetrano tra i suoi tessuti, creando un misto di teoria e biologia.
Anche in questo senso, allora, funzionerebbe la linea di lettura del saggio che ho voluto inseguire in queste pagine: e che potrei riassumere come l’intromissione della realtà nell’antirealistico. Come ciò possa funzionare, e quale sia la radiografia del saggio, mi pare lo si possa intravvedere tra le citazioni in epigrafe, in apertura del libro, ben quattro. Le riporto, per spiegarmi meglio:
Il mondo è cartaceo e lo sfiora un gran fuoco.
(G. Manganelli, Il rumore sottile della prosa)
Si danno definizioni soltanto per disperazione. […] Le cose che tocchiamo e quelle che concepiamo sono improbabili quanto i nostri sensi e la nostra ragione; noi siamo sicuri soltanto del nostro universo verbale, maneggiabile a piacimento – e inefficace. L’essere è muto e lo spirito è ciarliero. Questo si chiama conoscere.
(E.M. Cioran, Sommario di decomposizione)
L’infinito, mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo esiste solamente sulla carta.
(P. Valéry, Monsieur Teste)
Ma siate esecutori della parola, e non uditori soltanto.
(Lettera di Giacomo I, 22)
I primi tre stralci svelano un mondo apparentemente fatto di sole parole, senza le quali oggetti o concetti non potrebbero esistere. Nell’ultimo si compie invece – o meglio, si auspica – il ritorno della parola all’oggetto, al gesto, nella ricomposizione di linguaggio e reale, nel lungo viaggio di significanti e significati in cui oggetti e parole sono in qualche modo destinati a una nuova approssimazione. A questo punto scopriamo, dietro alle quattro epigrafi, un’altra citazione, in calce, questa volta di Tommaso Landolfi: laddove, nella prosa diaristica di questo grande scrittore di parole, lo strappo tra parola e cosa è riparato proprio nella paradossale affermazione del contrario:
(T. Landolfi, Rien va)
Note
1 A. Bisaccia, Punctum fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema e arte d’avanguardia, Roma, Meltemi, 2017, pp. 108-109.
2 Ivi, p. 109.
3 Discusse alle pp. 29-30.
4 Ivi, p. 30.
5 Ivi, p. 34.
6 Cfr. ivi, p. 115.
7 Ivi, p. 36.
8 Ivi, pp. 37-38 per questa e le precedenti citazioni.
9 Ivi, p. 114.
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 97.
12 Ivi, p. 88.
13 Ivi, p. 116.
14 Ivi, p. 81
15 Ivi, p. 151.
16 Ivi, pp. 171-172.
17 R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici 3, trad. it. di C. Benincasa, G. Bottiroli, G.P. Caprettini, D. De Agostini, L. Lonyi, G. Mariotti, Torino, Einaudi, 1985, p. 45.