Nuovi contributi su Fortini
Sabatino Peluso

A pochi mesi dalla chiusura delle ultime iniziative dedicate al centenario, proponiamo ai lettori alcuni estratti delle ultime pubblicazioni, in volume e in rivista, dedicate a Franco Fortini e uscite nel corso del 2017.

1. DainoLuca Daino,
La gioia di conoscere. I pareri editoriali di Franco Fortini per Mondadori

[in F. Fortini, La gioia di conoscere. I pareri editoriali di Franco Fortini per Mondadori, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2017]

Nulla o quasi è avvenuto per caso nell’attività intellettuale di Fortini: nessuna scelta, sia pure legata all’esigenza di sbarcare il lunario, pare scaturita da un pigro acconsentimento a se stesso. Si sa, a caratterizzare Fortini è, almeno nelle intenzioni, un risoluto autocontrollo, una tenace “verifica dei poteri” riguardante il proprio e l’altrui agire. È dentro questa prospettiva mentale e ideologica che svolge, un po’ per scelta, un po’ per forza di necessità, un’enorme mole di lavoro per l’“odiosamata” industria del libro, con la quale intrattiene relazioni alquanto schiette, a partire dagli accordi contrattuali:

conoscere le regole del gioco vuol dire osservarle. L’ignoranza della legge non è ammessa; anzi [conoscere le regole] dovrebbe comportare conoscenza e rigida difesa del proprio valore di mercato, attitudine a contendere per il soldo con competenza sindacale e avarizia, pretendere anticipi, liquidazioni, rendiconti.

[…] L’insieme dei suoi giudizi di lettura – fatalmente consumati nell’urgenza imprenditoriale e subito affidati agli archivi degli editori, al fine di preservarne l’anonimato, caposaldo del privilegio di libertà che consentono – non andrebbero a costituire, quando venissero raccolti, un libro di Fortini, se non altro nei termini in cui non si tratterebbe di un libro voluto e pensato da lui. Darebbero però un libro fortiniano quanto pochi altri, per certi versi affine ai fulminei ritratti di Breve secondo Novecento, un’opera postuma, ma approvata dall’autore: darebbero una sorta di quintessenza, un distillato di fortinità, a mezza via fra lo specialismo critico-letterario, la sintesi riflessiva di ampio respiro filosofico e perfino psicologico e le arguzie divertite (e divertenti) dell’epigrammista, il tutto amalgamato dal vivacissimo zelo cui ho accennato. Un mix che rappresenta uno dei vertici nella produzione di Fortini, maestro, forse ancor più che nel tessere ampie campate argomentative, nel percorrere spedito il sentiero stretto e paradossale dell’improvvisazione ben ponderata e del cortocircuito sentenzioso, dove la «razionalità discorsiva sia continuamente raggrumata nella folgorazione».

La gran parte delle letture mondadoriane di Fortini non ha per oggetto la poesia italiana, ma la saggistica di lingua francese, inglese (per lo più proveniente dagli Stati Uniti) e in misura minore tedesca. Si concentrano nel periodo 1969-1975, quando Mondadori rilancia il proprio settore non-fiction alimentando due collane create ad hoc: i «Saggi» (1968) e «L’immagine del presente» (1969). Questa attività, rivolta a opere di varia provenienza e attinenti a molteplici campi del sapere, attesta da un lato che la seconda “università” di Fortini, quella, a vocazione internazionale, dell’esilio in Svizzera negli ultimi anni di guerra, ha lasciato tracce a lunghissimo termine nel suo profilo intellettuale; dall’altro lato, abbiamo una conferma di quanto osservato circa l’incarico di direttore della multidisciplinare «PBE» Einaudi, ossia che l’«ampiezza di orizzonte e la varietà, vastità, profondità degli interessi costituiscono una caratteristica specifica di Fortini, in misura significativamente maggiore di quanto avviene con gran parte dei letterati suoi coetanei».

2. CarraiStefano Carrai,
Prefazione

[in F. Fortini, La guerra a Milano. Estate 1943, edizione critica e commento a cura di A. La Monica, prefazione di S. Carrai, Pisa, Pacini, 2017]

Il diario di guerra di Fortini costituisce il resoconto letterario di una esperienza tanto drammatica quanto fondativa della coscienza civile di un intellettuale che in Italia è stato tra i maggiori e i più rappresentativi della generazione che aveva da poco superato i vent’anni allo scoppio della seconda guerra mondiale, specie per la nuova consapevolezza ingenerata dallo sbandamento subìto come militare dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e per la decisiva parentesi dell’espatrio. L’edizione critica che Alessandro La Monica ne ha approntato si fonda sul dattiloscritto originale conservato presso la Zentralbibliothek di Zurigo, collazionato con le due stampe incluse in Sere in Valdossola nel 1963 (ed. Mondadori) e nel 1985 (ed. Marsilio), con il quaderno manoscritto conservato presso l’Archivio del Centro Franco Fortini dell’Università di Siena, con due altri dattiloscritti parziali che si trovano all’Istituto per la Storia della Resistenza di Firenze e infine con due brevi estratti pubblicati sul quotidiano ticinese «Libera stampa» e sull’«Avanti». Ne emerge un testo assai nuovo perché il dattiloscritto zurighese – preparato quando Fortini era ancora rifugiato in terra elvetica, per un’edizione svizzera che poi non si fece – consente il recupero di varie parti espunte nelle stampe. L’edizione di La Monica ci fa conoscere dunque un testo di La guerra a Milano ancora più interessante e ricco di quello finora noto, specie nella sua prima parte, ambientata a Firenze, con pagine inedite sul controverso rapporto di Fortini nei confronti della sua città (la città nemica di certe poesie) e del gruppo di scrittori e artisti che frequentavano il caffè Le Giubbe Rosse, dai quali si sentiva trattato con sufficienza e con distacco, ma anche sull’ambiente degli studenti universitari fiorentini già orientato verso l’antifascismo (notevole, in questo senso, che compaia ben due volte il riferimento all’allora giovanissima Teresa Mattei). Si spiega che nel 1963 certi passi, con severi giudizi sui letterati fiorentini, avessero ormai perso attualità e dunque senso agli occhi dell’autore, ma per lo studioso si rivelano preziosi in quanto consentono una ricostruzione più precisa del percorso interiore seguito da Fortini alla luce del clima di quegli anni. Nuovi particolari risultano ora acquisiti anche riguardo alla seconda parte, quella più drammatica, relativa alla smobilitazione dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, quando Fortini era di stanza a Milano, e anche riguardo alla terza e ultima, in cui si raccontano i rapporti con l’ambiente degli internati italiani e degli altri rifugiati in Svizzera – fra cui un ruolo importante spetta Ignazio Silone – e l’attività culturale, soprattutto come autore teatrale, svolta da Fortini a Zurigo durante il 1944 e i primi mesi del 1945.

3. LupoGiuseppe Lupo,
Due ebrei una stessa storia
(estratto dalla prefazione)

[in F. Fortini, Capoversi su Kafka, Matelica, Hacca edizioni, 2018]

Potrebbero addirittura commuovere le parole che Franco Fortini rivolge a Kafka in un testo uscito sulla «Lettura» del 17 gennaio del 1946, forse perché pensate da un giovane che all’epoca non aveva ancora compiuto trent’anni e sentiva il peso della Storia attaccata come fango alle suole delle scarpe. «Kafka è morto nel 1924» – scrive –. «Potrebb’esser morto l’anno passato, a Auschwitz, o a Belsen, questo ebreo di Praga». Troppo scontato dedurre che Fortini compia soltanto un’operazione di contemporaneizzazione. Piuttosto convince il tentativo di avvicinare lo scrittore boemo al baratro dell’ultima guerra: quella dove l’Europa vide frantumare il destino di un’umanità rimasta senza Dio, un epilogo ben più grave rispetto al precedente conflitto, da cui lo Stato di Francesco Giuseppe uscì ridimensionato e negli esiti più ottusi e patetici. Kafka appare a Fortini nelle vesti di un individuo abituato a rispettare le regole dell’obbedienza asburgica, a fare di esse quasi un vangelo della trasparenza e della non volontà.

Posticipare di vent’anni la sua morte (nient’altro che un’ipotesi suggestiva, una chiave di lettura a posteriori) è dunque un espediente attraverso cui Fortini intende fissare una propria categoria interpretativa, l’unica a suo giudizio in grado di dare credibilità all’idea di un Kafka che travalica le porte del tempo per farsi “angelo della Storia”, secondo la definizione di Walter Benjamin, per avvalorare l’immagine di un Kafka trattato alla maniera di un profeta o di un legislatore le cui orme provengono dal passato e si rivolgono all’infinito. «Egli ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto»: è sempre Fortini che scrive. Sapere è qualcosa che precede l’azione del vivere, è la lucida epifania di chi ha già visto l’apocalisse e la vuole raccontare a un’umanità incredula.

4. SantaroneDonatello Santarone,
La poesia ago del mondo: il Novecento di Fortini
(estratto dalla postfazione)

[in F. Fortini, I poeti del Novecento, a cura di D. Santarone, con un saggio introduttivo di P.V. Mengaldo, Roma, Donzelli Editore, 2017]

Per quanto concerne poi l’immagine che il poeta ha di se stesso, Fortini ricorda che essa è assai mutata. Da un senso di vergogna dell’esser poeta (Gozzano) all’ironia sull’atto di scrivere versi (Sereni), oggi «sembra diffondersi – come è accaduto anche in altri tempi e culture – l’idea che la comunicazione letteraria e poetica sia invero una funzione del linguaggio, che chiunque può usare, a fini di conoscenza e di educazione» (p. 8).
La sottolineatura della dimensione educativa della poesia è la spia di un interesse radicato nel Fortini poeta e intellettuale fin dai tempi del «Politecnico» e di Foglio di via, la sua prima raccolta di versi del 1946. Leggiamo qui in filigrana la matrice dell’umanesimo marxista in ordine alla funzione della poesia, considerata non un irresponsabile e narcisistico gioco di «parole in libertà» (è anche questo, se si è coscienti della «libertà condizionata» dei significanti), ma un esercizio estetico, morale, civile, sofferto e gioioso a un tempo pur se talvolta oscuro, sempre volto alla relazione con l’altro, sempre diffidente dei poliformi orfismi delle sette poetiche.

Volevo dire che proprio della parola poetica è rivolgersi a tutto l’uomo, non all’uomo «poetico», di essere una allegoria di totalità che parla a una totalità. […] È assolutamente giusto che il lettore legga certe parole e certi nessi («luna», «pace», «selva oscura», «spoglia immemore»…) con un immediato confronto alle lune, alle paci, alle selve e alle spoglie della propria esperienza, riprendendo l’antico e sacrosanto principio schilleriano per cui l’«educazione estetica» dell’uomo è «educazione mediante l’arte» non «educazione a capire l’arte».

Ma l’idea che «la comunicazione letteraria e poetica sia invero una funzione del linguaggio» riflette anche le discussioni e gli orientamenti culturali e politici prevalenti in Italia negli anni settanta. Da una parte la presenza degli studi linguistici sulla dialettica saussuriana langue-parole e sulle funzioni del linguaggio poetico (citiamo solo Roman Jakobson), dall’altra la diffusione della comunicazione poetica, specie tra i giovani, in anni senza la Rete. Con la messa in discussione di determinati linguaggi, da quello delle assemblee o dei comizi a quello dei massmedia, e a causa della loro sclerotizzazione, la poesia conobbe allora una certa fortuna. Si cercò di ridare spessore alle parole e valore a idee, sentimenti, progetti, che le forme dell’ideologia tradizionale talvolta tagliavano fuori. E, accanto o contro l’industria culturale, fiorirono collettivi, riviste, gruppi di base, singoli giovani che scrivevano e si occupavano di poesia. Uno dei motivi di questa «rinascita» poetica era forse dovuto al carattere artigianale di questa forma di comunicazione e a una sua relativa compromissione con l’industria culturale, a differenza di altre arti quali il cinema, la musica o il teatro. È chiaro però che questa «rinascita» ebbe anche il rovescio della medaglia, poiché in parte diventò un modo per scansare il discorso sociopolitico o identificarlo immediatamente con quello poetico, caricando così di valori salvifici la poesia, in un modo che la storia del nostro Novecento aveva già conosciuto (Montale o l’atteggiamento ermetico, ad esempio). Alcuni autori degli anni settanta, scrive Fortini nell’ultimo paragrafo dell’antologia, Ipotesi sul presente, «hanno ripreso un tipo di “lavoro poetico” relativamente indifferente alla realtà culturale circostante, fino a riprodurre atteggiamenti delle prime generazioni decadenti o del decennio ermetico, oppure a vantarsi di una reale assenza di memoria culturale e di passato» (p. 254).

Inoltre, come quasi sempre accade, l’industria culturale riuscì a trasformare questo bisogno di «comunicazione autentica» in spettacolo: fu in quegli anni, infatti, che iniziarono i festival di poesia – spesso sponsorizzati dagli enti locali – con tutta la mitologia dell’immediatezza che li accompagnava. Potremmo oggi affermare che vale anche per la poesia di quegli anni (e dei nostri) l’insegnamento di Noventa a «çerché più in là», a «cercare più in là», non godendo essa di tutti i diritti e non essendo sostitutiva del discorso morale, sociale, politico, storico. Ciò non toglie che il fenomeno sia stato rilevante e sia in parte ascrivibile a quel mutamento di «immagine che l’autore di versi ha di sé medesimo» (p. 7) di cui parla Fortini, il quale, come spesso avviene in questa che è una vera e propria «antologia d’autore», incastona folgoranti intuizioni all’interno del ragionamento principale, come questa sul narcisismo dei poeti:

Perché il narcisismo dei poeti, di cui spesso si parla, si distingue in amore per il sé visibile e pubblico (e da quello vengono moralismo e vanità) e in amore per un sé sfuggente e nascosto, che è invece la fonte della poesia. (p. 20).

5. MosaicoFabrizio Miliucci,
Nel centenario di Franco Fortini

[in «Mosaico italiano», XIII, n. 165, ottobre 2017, Editora Comunità, Rio de Janeiro, Brasile]

L’idea di un numero monografico dedicato alla figura e all’opera di Franco Fortini nell’anno del centenario nasce da un insieme di fattori. Innanzi tutto l’occasione celebrativa, che ha già propiziato convegni, pubblicazioni ed eventi in Italia e all’estero, come esemplificato dalla breve rassegna curata dal prof. Donatello Santarone in coda al suo prezioso ricordo/ritratto. A questo motivo ufficiale, se ne affiancano altri ben più intimi e personali, riassumibili nel desiderio, da tempo coltivato, di dedicarmi a una figura imprescindibile per la comprensione delle dinamiche poetiche e intellettuali del Novecento italiano ed europeo. Come ricordato da Giovanni Raboni, uno dei suoi lettori più consapevoli, Fortini nasce e si muove per tutta la vita su una “terra di confine”, e questa sua collocazione alternativa può rappresentare, a posteriori, un anello di congiunzione per restituire alla tradizione poetica (e intellettuale) italiana del medio e secondo Novecento quella problematica solidità su cui pure si fonda. Superando un cliché critico che prova a definire un primato fra l’attività del poeta e del saggista, credo che l’opera fortiniana esprima il suo valore nell’insieme, nel complesso rapporto delle parti con il tutto.

Ringrazio perciò chi, fra i partecipanti, si sia dedicato a questioni di poetica, come Monica Venturini, Francesco Diaco e Tatiana Pinto, i cui interventi esplorano l’attività di un autore impegnato sul fronte del valore storico-politico della parola e nel dibattito estetico nazionale e internazionale. Ringrazio altresì Michelangela Montepeloso, che ci conduce nei meccanismi di Paesaggio con serpente con la sua analisi degli Otto recitativi, e Damiano Frasca, autore di un articolo che mostra il poeta-intellettuale riflesso nello specchio di una condizione severa e grave, lo svuotamento di senso del proprio ruolo, testimoniato da molti altri poeti degli stessi anni. Il mio grazie va poi a Francesca Tomassini e marco Borrelli, che restituiscono due immagini di Fortini per il contrario del suo rapporto con personalità, tra l’altro, vicine fra loro: Elsa Morante, autrice di romanzi amatissimi, e Pier Paolo Pasolini, compagno di una stagione e interlocutore privilegiato di tutta la vita. Mi aggiungo a questa piccola pattuglia, dedicando uno sguardo alla lettura fortiniana di un poeta – sempre in dubbio se considerarsi allievo o fratello minore – come il già citato Raboni, ricettore esemplare per comprendere il ruolo assunto da Fortini nell’idea delle successive generazioni. Il mio ultimo ringraziamento va infine al prof. Santarone, che apre con un bellissimo ricordo del “suo Franco” risalente alla frequentazione personale ed alla collaborazione per le puntate radiofoniche de Il senso e il suono, alla prof.ssa Patricia Peterle, che ha accolto la mia proposta monografica, e alla rivista che ci ospita così cortesemente. Buona lettura!

Indice

Un ricordo di Fortini
Donatello Santarone (p. 4)

L’ostinato che a notte annera carte. Su un autoritratto di Fortini
Damiano Frasca (p. 7)

Contro un’idea di lirica moderna. Fortini, Friedrich e il Simbolismo
Francesco Diaco (p. 11)

“La casa è nella nostra lingua”. L’Italia nei versi di Fortini
Monica Venturini (p. 16)

Avanguardia e mediazione
Tatiana Pinto (p. 21)

Otto recitativi
Michela Montepeloso (p. 25)

Fortini e Pasolini: l’infaticabile stratega e il mai ‘abiurante’ Narciso
Marco Borrelli (p. 29)

“Puoi non ascoltarla, discuterla non puoi”. Fortini lettore di Morante
Francesca Tomassini (p. 34)

La distanza del maestro. Il Fortini di Giovanni Raboni
Fabrizio Miliucci (p. 37)