«Verità e tenerezza
non passeranno»
Sorry we missed you di Ken Loach
Maria Vittoria Tirinato
Avevamo già visto l’ottantatreenne regista britannico alle prese con il lavoro interinale e l’illusione autoimprenditoriale in It’s a free world (In questo mondo libero, 2007). Dodici anni dopo, la situazione sembra però totalmente fuori controllo: nessuna rete di solidarietà, nemmeno un legame di amicizia a fare da scudo di fronte a una catastrofe che avanza inesorabile, senza sosta.
Senza sosta sono del resto i ritmi di lavoro imposti da un truce caporale del franchising al protagonista Rick, autonomo di fatto solo nell’indebitarsi per acquistare il furgone col quale consegna pacchi per 14 ore al giorno, sotto il controllo di una macchinetta digitale che traccia ogni secondo e che, con sarcasmo inconsapevole, viene chiamata in gergo gun, pistola.
La chiave di tutto è il tempo: lanciato nel libero mercato, privo di ogni garanzia sociale, l’imprenditore-schiavo subisce uno sfruttamento feroce da parte del suo provider, ma ancora peggiore è lo sfruttamento che inevitabilmente si autoinfligge per far fronte ai debiti. Duplice sfruttamento, duplice alienazione: l’esito è devastante, per il lavoratore e la sua famiglia.
Di nuclei familiari più o meno disgregati Loach ci ha raccontato spesso: da Sweet sixteen a My name is Joe a Il mio amico Eric, fino all’implacabile pellicola di quest’anno, abbiamo visto più volte giovani adulti che gli adulti-adulti, schiacciati dalle crisi, non riescono a tutelare. Non solo le famiglie, ma anche la scuola, che fa appena da comparsa in funzione repressiva, strumento di non si sa più quale riscatto, sono istituzioni svuotate, fondamentalmente incapaci di ascolto, di attenzione vera. Se, come scrive Simone Weil, l’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità, la famiglia diventa qui, malgrado le ottime intenzioni dei genitori, avara e spoglia del bene più importante, perché necessario a crescere. Niente di più rivendica, a modo suo, la figlia minore Mary Jane, solida, geniale ma al tempo stesso fragile, appena sulla soglia dell’adolescenza com’è. Gli schizzi per graffiti scoperti dai genitori nei quaderni del fratello sedicenne Seb (è questa la passione e l’unica forma di espressione, ai limiti della legalità, del ragazzo e dei suoi compagni) sono gigantesche bocche con lingue occhiute e urlanti. Segni che cercano una voce, uno stile, uno sguardo, l’identità di cui sono in cerca le generazioni che dobbiamo saper ascoltare.
In una poesia degli anni dell’esilio, Primavera 1938, Brecht mette in scena se stesso che, sorpreso mentre compone versi dall’arrivo di una bufera di neve, viene accompagnato in giardino dal figlio quattordicenne, per andare a coprire con un sacco un arboscello di albicocco. La metafora è scoperta: la guerra sta arrivando, dobbiamo ricordarci del futuro. Cercando in questo film un segno di speranza, di quelli che spesso Loach, con la discrezione dell’autentico utopista, semina qui e là nelle sue storie, mi è tornato in mente quel gesto brechtiano, e ho pensato a questa insistenza sugli adolescenti e sulle conseguenze che ha, anche su di loro, la guerra sociale (o lotta di classe) che masse di lavoratori combattono oggi ad armi impari, senza coscienza né tutele, più isolati che mai. Forse una debole traccia di speranza, magari una consegna, al di là della denuncia, si trova proprio lì, tutta da interpretare come i graffiti di Seb.
Per il resto la narrazione è spietata: in cento minuti, il regista non concede ai suoi personaggi che pochi secondi di spensieratezza, legata alla sfera familiare, e nemmeno un istante alla comicità lieve, magari di scherzi tra compagni di lavoro che pure ha sempre – o quasi – punteggiato le sue storie: non c’è tempo per queste cose nella realtà della gig economy.
E non ci sono compagni di lavoro, né sindacalisti: si intravede una lotta operaia solo in una foto in bianco e nero che una delle anziane signore curate da Abby, la moglie del protagonista, mostra con emozione, in una delle scene che valgono tutto il film. Altro filo di speranza, o grimaldello di umanità è forse affidato a lei, Abby, badante “a zero ore”, sempre in corsa fra una vita e l’altra, presente per tutti e pronta a sacrificare se stessa ma non la possibilità di trattare come esseri umani le persone di cui si occupa e che si rifiuta, come invece vorrebbe l’agenzia, di considerare “clienti”.
Qualcuno ha parlato, per Sorry we missed you, di neorealismo del XXI secolo. Confesso di aver pensato anch’io, guardando le prime sequenze del film, a Ladri di biciclette, che in effetti riaffiora in trasparenza in molti momenti: quasi identico l’affanno iniziale per procurarsi un mezzo con cui lavorare, risolto grazie a un sacrificio femminile; anche qui un padre e un figlio, un furto, qualche disastro evitato, o rimandato. E ancora, al solito in Loach, gli attori non professionisti, e poi il girato tutto di seguito, senza che gli interpreti conoscessero il destino dei loro personaggi. I moduli neorealisti non mancano, radicalmente diversa è invece la realtà sociale – sebbene non tutelata e disperata fosse, un po’ come oggi, la condizione del lavoro nel nostro dopoguerra.
Ciò che però più di tutto, a pensarci bene, è cambiato rispetto al mondo di Zavattini e De Sica è il senso del futuro: l’allegro sciamare della folla domenicale e il clima da scampato pericolo nel quale padre e figlio si allontanano, nell’ultima scena di Ladri di biciclette, sono l’esatto opposto di quanto osserviamo a occhi sbarrati nel finale di questo film, dove Loach colpisce lo spettatore ancora una volta, senza pietà.
[La citazione contenuta nel titolo è tratta da un poscritto di José Martí ad una lettera alla madre, che Franco Fortini cita in un messaggio a Zavattini per l’ultimo dell’anno 1977: «“la verità e la tenerezza non passeranno”. Verità e tenerezza, contrapposte e unite». Il testo è in F. Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Macerata, Quodlibet, 2006. N.d.a.]