La poesia,
forma di mente e stupore
Gualtiero De Santi

Seconda metà del 1943: il giovane Fortini si trova nei pressi di un paesino non distante da Zurigo, Adkiswil, località nella quale le autorità della federazione avevano internato centinaia di italiani e stranieri d’ogni nazione fuggiaschi in Svizzera. «Eravamo alloggiati in un edificio in legno e muratura, di quattro o cinque piani – precisa la Prefazione della prima edizione a stampa in cui si riprendevano le pagine uscite nel 1952 in «Botteghe Oscure» –, che intorno aveva un terreno cintato e a nord confinava con un canale. Sul canale si tendevano i rami degli abeti che lungo l’altra sponda davano inizio ad un bosco fittissimo. L’acqua era nera e veloce. Un giorno, un gruppo di internati prese a scagliar sassi oltre il canale verso i rami dov’era comparso uno scoiattolo. Il piccolo animale atterrito tentò un salto troppo lungo, volò giù e la corrente lo trascinò via».1

Quella scena – raccontata come s’è detto nella Prefazione a Sere in Valdossola – doveva aver avuto un forte impatto sul giovane soldato: delineando nel suo modo alcunché di sfuggente e oscuro, un significato latente. Il fatto che Fortini avesse avvertito la necessità di riferirne giusto all’inizio del testo steso nel 1963, da una distanza temporale e memoriale che gli consentiva di vedere e anche capir meglio le cose, infine muovendo da uno scarto semantico, è un dato che deve farsi notare. E in una qualche misura veniva messo un segno di eguaglianza tra l’inattesa crudeltà dell’accadimento e un segnale premonitorio più vasto, per quanto non esplicitato.

Il testo così prosegue: «Dalla fine del 1938, a ventun anni, quando il mio cognome era stato sufficiente a isolarmi nella desolazione e nell’orgoglio, mi era parso di non crescere più».2 Il pericolo era quello delle leggi razziali, quando il giovane Franco Lattes dopo aver vissuto il contrasto con la comunità e la famiglia si era nuovamente sentito trascinare in un vortice: «dal tumulto dell’estate come respinto fuori dalla verità».3

Il richiamo andava alle appartenenze del giovane di famiglia ebraica in conflitto col padre per una propria identità, diciamo alla sua disubbidienza intellettuale ma insieme al ripresentarsi della stessa nel tempo delle persecuzioni razziali. Un conflitto che altri aveva vissuto, da Franz Kafka (a cui l’episodio dello scoiattolo potrebbe rinviare accidentalmente) sino a Giorgio Bassani. E che ovviamente era tornato puntualmente nel caso di Fortini, sin da allora, dagli anni adolescenziali e giovanili, indocile.

Mette conto di riflettere sul valore di disubbidienza attribuibile al nostro. Una attitudine, in lui, che come s’è appena detto ebbe inizio nel periodo dell’adolescenza prima attraverso una polemica rivendicazione della libertà personale, poi siccome rifiuto del disordine e di una violenza che si spingeva a minacciarne la vita. Nel primo caso si ha il diniego di un modello imposto dalla famiglia, presto però riassorbito, dati gli eventi storici della persecuzione razziale, con un riavvicinamento che in fatto ristabiliva le esperienze giovanili vissute in guerra entro un proprio cerchio nativo; nel secondo l’azione era già intellettuale ed era insubordinazione, e ancor più doveva esserlo la partecipazione alla guerra partigiana, anch’essa scelta critica in grado di definire un obiettivo e in prospettiva un metodo.

Rivendicazione dell’umano contro il non umano, essa rispecchiava i bisogni non già di un singolo o di un gruppo sociale limitato e chiuso in sé ma di un collettivo le cui utopie e perdite dovevano venir esaminate in un’ottica di classe che attingesse le proprie strumentazioni in primo luogo a Marx.

Il tutto passava attraverso un esercizio di libertà intellettuale che entrava in un contatto simpatetico con gli sfruttati. Coltivando le dissonanze, ricercando esperienza nella precarietà di un presente che trasformava l’esercizio critico in azione politica da svolgere con le armi classiche di un linguaggio analitico che riuscisse anche nel suo modo a dematerializzare il potere.

Viceversa, una conformità a regole prefissate si poteva leggere nel rigetto di un pensiero alternativo che insorgesse dalle esistenze marginali e conculcate. Sul proscenio del dopoguerra si erano prepotentemente affacciate masse popolari che avevano riempito di sé i nuovi spazi sociali. Schierarsi dalla loro parte era già un aspetto del problema, e questo Fortini fece; ma arretrare nei loro profili materiali e nelle loro voci, in una sorta di umanesimo populista negli anni del neo-realismo, dovette apparirgli impraticabile. Di qui la scelta di non tornare indietro sulle opzioni effettuate già a partire di Foglio di via confermandosi nel tabulario espressivo di una borghesia colta che comunque aveva spezzato i doveri dell’ebraicità a favore di una piena e compiuta adesione alla comunità e che aveva fatto una opzione di classe.

Si sa quanto importi cautela di fronte all’adozione di una chiave ebraica o comunque religiosa per uno come Franco Fortini, subito e quasi sempre scoraggiata dal suo coraggioso laicismo. Ma questo è il punto che lui stesso sottolinea nel succitato esempio di Sere in Valdossola ma insieme in considerazioni successive su quel lascito oneroso e all’inizio rifiutato, una disagevole eredità in ogni caso da tenere non alla stregua di materiale inerte, «qualcosa di simile a macerie o relitti lasciati in riva all’oceano da inesplicabili bufere»4 (questo non in Sere in Valdossola ma nelle posteriori riflessioni sull’Ecclesiaste occasionate da una lettura o traslazione d’en bas fatta all’inizio degli anni ’80 da Attilio Lolini). All’incontrario, e qui Fortini riprende un’affermazione di G. M. Hopkins, ci si doveva orientare verso il retaggio delle parole o meglio di un «moto della parola nella scrittura».5

L’ambito del discorso era in quel caso l’assuefazione dei traduttori a collocare le loro versioni entro l’orizzonte apocalittico della vanitas vanitatum. Pur riconoscendo in esse una puntualità filologico-storica formale, quelle versioni venivano però inevitabilmente a porsi all’interno di un orizzonte contemporaneo, moderno o post-moderno, e questo in favore di una contraddizione e condizione formale che si riassumevano in una integrazione stilistica e in numerosi e pronunciati sussulti scritturali.

Il fatto è che anche nel tradurre Qohelet e testi di affine profilatura – e nell’atteggiamento assunto di fronte al tradurre – non v’era chi si sottraesse al classico parametro del contemptus mundi. Ma questo avveniva in accordo a un pensiero novecentesco – un pensiero che agiva ovviamente nelle opere e nella elaborazione culturale – che torceva a una radicalità catastrofica le immagini del XX secolo.6

A bersaglio di tale pensiero era stata principalmente la techne ma – fa osservare Franco Fortini, ed è questo per lui il punto – essenzialmente la ragione occidentale, breviter la tradizione che la sorreggeva da sempre.7 Ed era quell’oltranza, soccorsa da un punto di vista contemporaneo, che aveva portato a dimenticare nel caso dell’Ecclesiaste l’origine biblica. Quando invece sarebbe stato opportuno guardare a un libro che pur nelle sue modulazioni manteneva aperte parole di speranza.

Di fronte al dissolversi di tutte le certezze, restava infatti il linguaggio. Cui competeva di reagire convertendo il folto delle cose e se si vuole anche della vita in discorso. «Così il linguaggio raggira chi vuol darci a bere l’assenzio del nulla: più un ‘moderno’ dice di no, più la sua lingua dice di sì»,8 concludeva Fortini sempre al riguardo dell’Ecclesiaste. E tale retaggio era il vero segnale d’origine.

Il fatto sì era che ogni idioma che venisse adottato appariva già pronubo di conseguenze. Qualcosa – come d’altronde sostenevano le filosofie del Novecento – contrassegnante un potere performativo della parola volto a raggiungere le psicologie e i fondamenti del subcosciente. A mente di Fortini, prima che ad es. un Jacques Lacan indicasse come l’inconscio strutturato in forma di lingua mantenesse in piedi numerose possibilità, questo era vero in quel testo biblico letto in chiave ingenua e naturale. Insomma Lolini riscrivendo l’Ecclesiaste da poeta non troppo aggrovigliato in questioni filologiche e men che meno filosofiche lasciava spiragli per il linguaggio. Le conclusioni fortiniane furono dunque: «conosciamo l’inganno verbale che si cela dietro ogni pretesa di negazione assoluta. Detto in fretta, la negazione assoluta stabilisce un’area, quella del locutore, che è silenziosamente esentata dalla negazione. È il caso di tutti i pessimismi aristocratici e di radice gnostica. Mentre invece la negazione relativa, indicando un ordine o un piano o un tempo nel quale essa può essere o sospesa o volta in positività, decreta che quell’ordine o piano o tempo potenzialmente sono o sarebbero abitabili da tutti».9

E in ogni caso, (ove ci si fosse riannodati alle cruciali giornate del settembre 1943), dopo l’avvertimento del pericolo e con la complicità degli avvenimenti storici subentrava un’altra fase stavolta positiva: «Col 25 luglio del Quarantatré era cominciata un’altra attesa, un’altra di quelle necessarie speranze cui sarebbe stato sempre tanto difficile imparare a rinunciare».10 Respinto al di fuori della verità, il ritorno era verso la verità delle cose nella loro dimensione storica.

Una svolta – questa descritta da Fortini già in una costante oscillazione tra ombre e luci – che altri avrebbe definito, nella progressione degli avvenimenti, lo Spirito del ’45. L’attesa collettiva di un futuro anche prossimo che nascesse da un grumo di eventi vissuti in un tragico passaggio epocale, che potessero idealmente riscattarsi nel rinnovamento della società ma che comunque Fortini contrassegna in Sere in Valdossola con i lamenti soffocati delle persone tormentate e battute, con le preghiere di Kippur delle vittime e degli scampati: «Noi non sapevamo bene, allora, a che cosa. Lo sapevano essi, e in quelle ore, oltre le frontiere, accadeva quanto avrebbe accompagnato tutto il resto della nostra vita».11

Lo spirito del ’45, come allora si disse, fu uno stato d’animo diffuso, o piuttosto la condizione psicologica ed esistenziale di chi attendeva un nuovo ordine etico e sociale. The Spirit of ’45 titola ad esempio un bel documentario di Ken Loach nel quale viene ripercorsa la storia della ricostruzione del paese, quando per la prima volta si crearono nel Regno Unito le basi del welfare che sarebbero poi state bellamente smantellate dalle Thatcher e dai Blair.

Nell’orizzonte percettivo del giovane poeta italiano, quello “spirito” venne quasi vissuto in condizione di sogno, di rivalsa e giustizia o, piuttosto, di una tregua alle mille insidie sociali, quasi un momento di sicurezza e equilibrio. E se anche questi sentimenti si fossero a un certo punto offuscati, sarebbe rimasto in parte intatto il Prinzip Hoffnung blochiano (verso cui il nostro si mostrava guardingo preferendogli piuttosto il concetto di Conkrete Utopie formulato da Ernst Bloch in un suo saggio dei primi del Novecento).

Sull’onda anche di queste motivazioni, quello dei secondi anni Quaranta fu un tempo di fervore e dibattiti, di spinte e disillusioni diffuse (e per Fortini il periodo compreso tra il 1943 e il ’63 poteva ancora aprirsi a prospettive positive). V’era chi aderiva incondizionatamente a quello spirito, il movimento comunista nel suo insieme. Una Armanda Guiducci ad es., formatasi alla scuola di Antonio Banfi e responsabile di un saggio sull’estetica di Gramsci nel volume La città dell’uomo, lo avrebbe definito nel titolo di un suo libro del 1961 La domenica della rivoluzione. Ma era pur quella una domenica dai contorni ancora incerti, suscettibile di ripiegamenti sulla solitudine e le miserie interiori, su contraddizioni che Fortini per sua parte aveva saputo ben discernere e ancor meglio interpretare nelle notazioni severe e dolorose di Dieci inverni. Quando sembrava essersi ormai chiuso il possibile gioco di quella attesa:

Diradate le illusioni del primo dopoguerra, aver noi dato ormai quanto era possibile; morti i migliori o avviliti nella lunga agonia poi seguita; scelte, impegni, decisioni ridursi a difesa, o ad oltraggio, della propria giovinezza, la speranza volgersi in rancore; molte nostre forze, spese nello sforzo di comprendere.12

Guiducci e Fortini si conoscevano, comune a entrambi era stata la collaborazione alla rivista «Ragionamenti» ed anche ad altre prestigiose testate, ad es. la prima serie di «Nuovi Argomenti». Ma proprio con «Ragionamenti», tra la primavera e l’estate del 1955 interrottasi l’esperienza di «Discussioni», Fortini ed altri come lui si provarono strenuamente a offrire lo specchio fedele a un ragionare ininterrotto e a una precisa condizione: «una passione esasperata e gelata che si imponeva la grinta modesta di un bollettino, discorsi così virulenti da far groppo e da diventare indecifrabili, un disprezzo per la sua materiale circolazione da toccar la clandestinità, e la precisa coscienza di star facendo qualcosa di “decisivo”, nel senso del taglio e della radice» (Dieci inverni).13

Che per Fortini voleva dire – aiutando il passaggio da quelle speranze verso la conquista di nuove forme di produzione – elaborare una analisi dei miti e degli idoli sovrastrutturali della società e dell’alienazione inferta dal capitale, ma anche esercitare le armi della critica e dell’autocritica.

Ma se (per riprendere l’esempio proposto) Guiducci sembrava conquistata, o almeno interessata, all’inedita totalità produttiva rappresentata da ciò che appariva allora la costruzione del nuovo in Urss, così da tentare di trafiggere la “bianca oscurità” di una serata leningradese e se alla fine sempre di quel libro, La domenica della rivoluzione, mostrava ancora di voler credere all’ultima fiaba della reggia barocca di Peterhof dove gli zar trascorrevano le loro estati e che adesso era frequentata da lavoratori in bluse e camiciotti coi loro bambini,14 uno come Fortini ormai conosceva fin troppo bene come fossero andate le cose. Lo spirito critico non poteva o non voleva ignorare la verità.

Al riguardo parlano chiaro molti dei “contributi” a un discorso plurale sul socialismo in Dieci inverni. Nei quali veniva a postularsi di necessità l’acquisizione di un “salto qualitativo”, che il movimento democratico avrebbe dovuto fare trasformando ulteriormente la “negazione” russo-sovietica in una più potente “negazione della negazione”. Così, quasi a contrappasso, sin da allora si doveva rimarcare il carattere più visibile, materiale e dunque anche organizzativo di una ricerca comune che non potesse essere soltanto “comunione di spiriti”, ma bensì quella “filologia vivente” cui si rifaceva Gramsci per definire un sistema organizzativo di comunicazione.

Sul dubbio antistaliniano inizia dunque nel nostro una diversa fase analitica. Ma allo Spirito del ’45 si richiama anche un saggio di Gilberto Finzi ove, citando ampiamente Franco Fortini, si rivendica l’esigenza di uscire da un profilo meramente letterario e appunto dal foglio di scrittura nella sua irrilevabile astrattezza. Ora, questo spirito fortiniano, Finzi lo declina collegandolo alla diaspora dei problemi della poesia e della critica in rapporto al nuovo mondo uscito dal quadro bellico.

A serbarsi puri, in un paese cattolico, – tale l’avvio del saggio uscito nel 1967 – con la confessione del sabato a portata di mano, con Croce a destra e la letteratura sottoproletaria a sinistra, non sarà forse difficile. Più difficile parlare un linguaggio da uomini che tengono conto dei nessi storici, di quei pochi almeno che derivano da un passato recente cui dobbiamo questa immatura scena politica e culturale. La costanza con la quale si cerca di disperdere persino i più lontani echi delle esplosioni antinaziste e antifasciste, l’imprescindibile volontà di richiamarsi a più miti momenti, nella pace e nel quietismo da domenicani che hanno abbandonato il pulpito per il fondo della cella, apparirà forse a taluno, più che un mezzo o uno strumento, una méta, un fine ultimo di vita contemplativa, un provvedimento per assicurarsi un aldilà fuori discussione, e con tutta probabilità anche un meno nebuloso aldiquà.15

Quasimodo, Montale, Alfonso Gatto e per la critica Luigi Russo e il tramonto dei letterati, Carlo Salinari, Angelo Romanò con il suo Discorso degli anni ’50 e anche la Guiducci dei Dialoghi immorali, queste le figure che si incontrano nel suo saggio, tra le quali, Franco Fortini, con le sue “penose e necessarie virtù” e le tappe essenziali di Poesia ed errore del ’59 e di Una volta per sempre. Una poesia, quella di Fortini, «dove ogni parola non è segno né simbolo, ma calcolo, rischio del pensiero, pesantezza di passo che avanza su terreno infido e tasta prima, con lodevole prudenza e giustificato dubbio».16

Il richiamo è a una condizione particolare della poesia, a una scrittura lirica che voglia anch’essa mirare a una volontà di conoscenza. Meglio a una conoscenza come critica che è marxianamente critica dei critici dei critici (gli ermetici, il populismo neo-realista). Nondimeno il solo discorso interpretativo non poteva bastare: ché esso chiudeva, sigillava impietosamente le cose. Contro ogni populismo o progressismo quello spirito doveva cercare altre soluzioni: che erano per l’appunto in un tipo di poesia che pur nascendo da specifiche soggettività la vedessero distaccarsi in una propria determinazione. Una poesia con la sua «compresenza di passato depositato e di futuro convenuto come tendenza».17

Era in questo modo che, dopo il senso di pericolo e il ritrovamento di una pur provvisoria appartenenza, il poeta, collettivo e popolare giacché immerso nella propria tradizione, incarnava dilemmaticamente e insieme tragicamente il rapporto tra conoscenza e verità. In un testo di scrittura che fosse punto di convergenza di molteplici identità, la poesia era un elemento di relazione. Per questo già in Foglio di via Fortini parla di sé in terza persona, come l’avrebbe fatto in altre occasioni (ad es. nella laterziana Poesia del ’900 sceglie di ripresentare quella distanza in segno di oggettività).

Il fatto è che già tutto o almeno molto era contenuto in Foglio di via. Diversamente dall’idea che ci si è fatti della prima raccolta di Fortini, nella quale per ovvie ragioni si è stati portati a scorgere un primo inabile avvio a una scrittura poetica centrifugata in diversi stili, ove si guardi con attenzione si arriva a scorgere un inizio se non propiziato almeno illuminato da sviluppi successivi. Sin dalla lirica in avantesto tra titolo interno e prima sezione si incontra una alternanza di luci e ombre: «E questo è il sonno, edera nera, nostra / Corona», recita articolatamente il primo verso con una ponderata scansione di vocaboli-chiave che precipitano in enjambement e tratteggiano senza indugi l’abbandono entro una zona oscura («presto saremo beati / In una madre inesistente, schiuse / Nel buio le labbra sfinite, sepolti»).18 Come in altri casi in Fortini, il corsivo individua un passaggio essenziale, un corso interiore della poesia. La perizia del fraseggio espressivo è nel caso di questa lirica decisamente estrema: evocativa di una immagine di caduto forse mediata da Rimbaud ma, considerando la guerra appena conclusa, determinata da tanta letteratura e poesia d’epoca, i cui stilemi sarebbero stati ripresi subito dopo. La voce poetica pronuncia se stessa al plurale così assecondando la tensione a riconoscersi in un corpo e in uno spirito collettivo. Ma se non fa dubbio che da quel sonno, da quell’abbandono a una sorta di veglia prorompa qualcosa, incertezza e inquietudine investono nondimeno la scrittura nel suo non sortire effetti risolutivi.

Ciò secondo un modulo che va ovviamente a incidersi in profondità. Connaturandosi a qualcosa di essenziale e insieme inestricabile, ma ben assimilato; in asse rispetto alle alterne vicissitudini ricorrenti nei versi, che si stringono in contrazioni del reale senza mai addivenire a una aneddotica descrittiva; anche praticando per seguire un proprio percorso l’arte della dissimulazione retorica.

Di lì poi si entra nella temporalità, dentro i tragitti delle esperienze vissute negli anni del pericolo. E allora soccorrono le determinanti temporali e condizionali: «Quando ripeto le strade / Che mi videro confidente»,19 «Quando il silenzio sarà / Come una viva parola fecondo»,20 «Compagni, se tutto non è finito…».21 E in bellissima sintesi, giusto nella terza lirica della raccolta intitolata Quando: «Quando dalla vergogna e dall’orgoglio / Avremo lavate queste nostre parole. // Quando ci fiorirà nella luce del sole / Quel passo che in sonno si sogna».22

Indi nuovamente il movimento si rivolge verso l’esterno – «Ora si esce»23 – alla volta di un paesaggio espressionisticamente solcato da marchiature sonore e plastiche, schizzante tra macerie e devastazioni. Una ciminiera volita in alto l’allarme che brucia. Da occidente precipita sulle case un raggio giallastro. Tutta questa ardenza provoca una sorta di implosione, un sentimento di condivisione che fa parlare in prima persona e impegna lingua e parole a evocare alternativamente le vittime ma altrettanto le figure del riscatto, quell’operaia milanese che avanza nella città tutta distrutta ma anche tutta nuovamente nata, figura emblematica ancora stretta ed esitante tra «essere e non essere»24 ma già liberata, di per sé portatrice di una sicura giustizia.

Ed essendo già da allora Fortini un poeta a vocazione europea, interviene quasi naturalmente una rapida estensione del quadro geografico verso altri confini, dalla Germania alla Polonia, via via sino alla repubblica autonoma della Valdossola, ai deportati, agli internati nei lager, ai maquisards francesi indirettamente citati in Manifesti, dove Fortini recupera il modulo eluardiano di una lirica che in quanto tale debba anche essere militante.

In quel fervore degli anni post-bellici, sia la poesia che la critica fortiniana si stringono in un sistema di contrasti: tra la perfetta definizione di una attesa e le incerte sue realizzazioni. Così nel sistema di testi di Foglio di via si assiste a un metronomo tra da un lato lo sconforto e il buio, dall’altro la speranza. Quest’ultima confidata a composizioni che sono vere e proprie rinascite di liricità: «Mai una primavera come questa / È venuta sul mondo. Certo è un giorno / Da molto tempo a me promesso questo / Dove tutto il mio sguardo si fa eguale / Ai miei confini, riposando; e quanta / Calma giustizia nel pensiero è in fiore / Quanta limpida luce orna il colore / Delle ombre del mondo».25

E nondimeno, a ricondurre a una sempre incombente condizione di inquietudine, immediatamente altre composizioni riaprono le più estese sequenze d’incertezza. Al corsivo salvifico di vice veris tornano a fare da contrappunto i caratteri tipografici comuni. Così il passaggio alla successiva sezione di Foglio di via, rubricata sotto la dizione residuale e di svincolo di Altri versi si riconduce a una condizione delusiva, marcata fortemente nella lirica eponima dell’intera raccolta. Le cui parole così suonano: «Dunque nulla di nuovo da questa altezza», «Dunque nessun cammino per discendere / Se non questo del nord dove il sole non tocca», «Dunque fra poco senza parole la bocca».26 Le nuove immagini rilevano adesso valli e folle ammutolite e amici che non riconoscono. «La mano ha perduto la mano e la fronte è caduta. / Il cuore ha lasciato il cuore inerte. Passano / Sulla neve, e ripassano le sentinelle» (E guarderemo).27

E tuttavia nella seconda parte di E guarderemo torna un’apertura: «Lasciaci gli occhi, sonno, e il loro male nel buio /Finché non cresca il giorno a riscuotere i visi / E a riconoscere i morti quel giorno non gridi // E fiamma e pianto invada la mano gelata».28 E così a proseguire in un’oscillazione ininterrotta che è interna alla struttura del discorso poetico fortiniano.

E per la prima volta in Fortini, entra appena profilata nel distico conclusivo de La rosa sepolta la chiamata in causa di coloro che sarebbero venuti dopo: «Dove splendeva la nostra fedele letizia / Altri ritroverà le corone di fiori».29 E ancora, in questo ampliarsi progressivamente del campo di prospezione, rispunta con Lettera una eredità ebraica che si esprime nel ritrovamento di una unità con il proprietario della casa comune.30 Torna infine il seme dell’ascolto degli altri, del compenetrarsi con gli altri.

L’assestarsi di una direzione di possibilità che si aprono nella frastagliata seconda sezione di Foglio di via, appunto irresoluta giacché non implicativa di alcuna ultimatività se non sul piano dell’attesa utopica, si esprime anche attraverso un accorpamento arbitrario dei testi, uniti da una logica che rifiuta qualunque struttura coesa o chiusa. Testi lasciati liberi nel loro supposto giudizio. O pregiudizio, di un non-ordine anti ermetico che conti di per sé.

Comunque ne sia, la formula risolutiva, o l’intuizione potente, è a livello linguistico: l’innervarsi nella scrittura del tratteggio più classico della lingua italiana, di una koinè letteraria che deriva da una tradizione toscana anche popolare depurata da ogni dialettismo. Il che avviene nella sezione intermedia di Elegie dove si traccia per l’appunto anche figurativamente un itinerario che interseca e rimonta la penisola al di qua e al di là dell’Appennino: «Qui mi condusse il lungo / Vaneggiare degli anni» (Di Porto Civitanova),31 «Vento di novembre / Borgo nuvoloso / Questo nostro riposo / Ora lo riconosco» (Di Palestrina);32 «Contento di me stesso… e un’altra volta / Visito i campi, il gioco antico e tristo / Dell’erba nuova, ripeto per nome» (Sulla via di Foligno).33 Una lingua che d’improvviso si riconosce, che è già lì pronta: che si dà in sé pur non prospettando certezze o salvazioni ma in grado di fornire pascolo immaginativo alla poesia.

Se questo è per Fortini l’accessione al proprio tempo vissuto, l’innervatura nelle minime possibilità si gioca su un agire poetico e soprattutto sulle compulsioni e variazioni di una metrica che si muove a un livello polifonico. Sono esse a commisurare la parola con ciò che l’attornia: il tono alto e appunto elegiaco della nostra tradizione ma insieme quelle specifiche batterie formali che ricordano le poesie antiche e insieme le popolari e che comunque evocano la musicalità del verso italiano.

L’andamento iterativo che altri ha lodato nelle sue potenzialità (Raboni)34 e nei suoi esiti (Pagnanelli),35 non possiede o almeno non si conquista titoli che disegnino un insieme che non sia di diversione, di ricerca sospesa. E come da una carica eluardiana esce sì Manifesti ma ne esce replicando le cognizioni formali dell’originale, del pari non è vero che la rifrazione nello specchio surrealista non riprenda altro che degli intendimenti (si rivedano nel confronto certe cascatelle versali di Aragon), rimanendo infine elusa e come dispersa nell’eccesso di determinatezza formale e perizia tecnica.

Ma il punto è che la parola scritta, pur se impoetica in sé e per Fortini non profondata in alcun humus, per essere parola che appartiene a una comunità non si cancella né si lascia definire al di fuori di quella stessa comunità. L’atto della sua comprensione corrisponde infatti a un sentire corale e al senso di sapersi capiti. La precomprensione per così dire del carattere sensato dell’esperienza è quello medesimo del senso generale.

Il poeta risale da uno spazio di realtà che fonda le proprie possibilità e il proprio sviluppo in schemi sociali e antropologici condivisi. Come peraltro rileva quella che parrebbe essere la sua ultima poesia, «Mi hanno spiegato che le bestie e l’erbe, / cieche o modeste o vinte o assopite / o in sé raccolte, dimesse, sfinite, / rapprese nei miei versi, // dono una madre di me stesso, immagini / di sonno e di custodia» (Mi hanno spiegato…).36

Infine l’atto del sentire e altrettanto del capire come non si lascia ricondurre a una concezione determinata così non accetta modelli esteriori, quelli ad es. dello strutturalismo imperante a partire dagli anni ’50-60, inimmaginabile per Fortini, oppure della psicoanalisi, l’idea di un inconscio che prema nel conscio se non in termini generali. Il trauma dell’ebraismo segnalato in Sere in Valdossola, e da Fortini poi ricomposto nella riconciliazione che consente il ritorno, ma al nucleo pieno di una comunità e di una Italia che fosse finalmente patria di tutti, sospinge non verso le origini del simbolico allora che all’opposto i simboli sono creati nelle menti delle persone per far vivere la società nelle nuove regole.

Infine la riflessione forte – e in particolare quella che si attua col mezzo della poesia – non è ascrivibile in alcun modo a un paradigma che sia individuale (e in questo Fortini mette a frutto la lezione di Brecht e di Benjamin). E se pure le nazioni e le persone e ciò che è stato, «l’Asia immensa e il tuono / dei popoli e i meravigliosi nomi / degli eventi» divengono figure e desideri, lo sono dei popoli «che mutano e si inseguono, / degli uomini che furono e che in noi / sono fin d’ora».37

Nel correre della storia i popoli che appunto furono entrano in noi come dentro qualcosa che appartiene alla mente ed al corpo, come in parte intendeva Rimbaud, ma quel corpo è infine reso sensibile da reti di appartenenza. Entro quelle reti si collocano le attività coscienti degli uomini, poeti inclusi, ed è al suo interno che sola si dà una lettura attualizzata nel proprio destino. Conforme a quelle reversibili congiunzioni che rendono immediatamente contemporanei gli antichi, appunto secondo la lezione brechtiana.

Così, infine, sostiene apodittico ma insieme autocritico un testo estremo, «Le umane relazioni ci fan buoni».38 E quanto alle parole ed alle lingue, esse debbono essere trascritte e poi scritte e inscritte nei partitari delle mille e mille raccolte di versi. Giacché infine conta l’agire non in un vuoto metafisico, ma appunto nella comunanza e nella condivisione. Conta sentire, o meglio sapere che anche i poeti hanno molto o tanto in comune con gli altri.

Nel corto circuito delle parole nulla potrà perdersi e soprattutto è qui, nella poesia, che può configurarsi una qualche salvezza. «Nulla sarà perduto ma anche se fosse / Anche se non esistesse nessuna salvezza / […]» (Che queste parole siano scritte).39 Giusto per questo, è al suo interno che si dà la possibilità di un congedo o almeno di un lascito. Quanto è stato detto dell’eredità fortiniana espressa in Composita solvantur – «Proteggete le nostre verità»40 – era già nella raccolta dell’esordio, nella difesa di ciò che l’ultima lirica di Foglio di via ha significativamente definito La gioia avvenire.

Ebbene, giusto la lirica eponima della raccolta stessa, Foglio di via, ha il carattere di epicità di un testamento e di un lascito, di un passaggio di consegne. L’appello alle nuove generazioni, a chi verrà dopo, è poesia che guarda ai tempi bui della sconfitta con un rinnovato sentimento di attesa appreso dalla vita già negli anni di guerra. E comunque, lo sguardo a ritroso di Composita solvantur è sì quello dell’utopia spezzata, o interdetta, ma esso non si volge al passato ma all’incontrario al futuro. Uno sguardo e uno stato d’animo che contemplino il riscatto come altrettanto la sconfitta, la cui prima più autentica ispirazione è forse in A coloro che verranno che Brecht scrisse nel 1938 subito dopo aver avuto la notizia del suicidio di Walter Benjamin. Testo che Fortini ovviamente conosceva e che avrebbe tradotto per l’edizione ’59 di Poesie e canzoni.

Ma cosa, sin dalle pagine di Foglio di via (e in questo caso chiaramente legandosi alle vicende storiche), la poesia riesce a prospettare a differenza da ogni altro discorso critico, di ogni analisi? La risposta è in una delle liriche tracciate in corsivo: «Potrebbe essere un fiume grandissimo / Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore / Una rabbia strappata uno stelo sbranato / un urlo altissimo. // Ma anche una minuscola erba per i ritorni / Il crollo d’una pigna […] Qualcosa comunque che non possiamo perdere / Anche se ogni altra cosa è perduta / E che perpetuamente celebreremo / Perché ogni cosa nasce da quella soltanto»,41 e infine, «Come le siepi del marzo brillano le verità».42 Cosa dunque protegge la poesia anche nella sua sconfitta? Non il racconto di una fine, ma qualcosa oltre cui si spalanca un altro possibile racconto. E in fondo tutto sta in una storia non eterna di là dalla quale si può dare un risveglio, la vibrazione di una voce. Qualcosa di segreto e intimo, che offra comunque luci. E dove giusto la poesia possa essere rammemorazione e attesa del compimento.43

Note
1 F. Fortini, Sere in Valdossola, Milano, Mondadori, 1963, p. 9.

2 Ibidem.

3 Ivi, p. 10.

4 F. Fortini, Prefazione a Ecclesiaste. Lettura di Attilio Lolini, Siena, Quaderni di Barbablù, 1984, p. 10.

5 Ibidem.

6 Muovendo dalla riflessione su La petite peur du siècle XX di Emmanuel Mounier, questo rilevava Padre Ernesto Balducci in una qualche sintonia con Fortini: «Il sospetto che l’uomo occidentale sia entrato in una situazione apocalittica è diventato stabile in me nella seconda metà degli anni settanta. Di pari passo, ho dato forma all’ipotesi che la serietà radicale con cui si vive in occidente la prospettiva della fine del mondo sia dovuta al fatto che la crisi non tocca solo le ultime modalità della civiltà d’occidente, tocca le sue stesse fondamenta. Non potrebbe darsi, così argomento, che proprio in questi anni si chiuda la parabola di civiltà apertasi or sono venticinque secoli?» (E. Balducci, Il terzo millennio, Milano, Bompiani, 1981, pp. 8-9).

7 E che aveva fornito le basi a un criticismo che – come ha scritto Giulio Carlo Argan (vedi la sua Prefazione a Guido Aristarco, I sussurri e le grida, Palermo, Sellerio, 1988, p. 9) – è da ritenere la «struttura fondamentale della cultura moderna» rivendicante «origini illuministiche che si sviluppano e seguitano nella cultura socialista del XIX secolo e assumono una struttura scientifica con Carlo Marx». Laddove nel caso di Fortini, che pure non poteva non scorgersi nel solco di questa tradizione, l’analogia era tra l’attesa ebraico-cristiana della liberazione e la speranza nel socialismo.

8 F. Fortini, Prefazione a Ecclesiaste, cit., p. 14.

9 Ivi, p. 9.

10 F. Fortini, Sere In Valdossola, cit., pp. 9-10.

11 Ivi, p. 10.

12 F. Fortini, Dieci inverni, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 11.

13 Ivi, p. 26.

14 Cfr. A. Guiducci, La domenica della rivoluzione, Milano, Lerici editori, 1961, p. 132.

15 G. Finzi, Lo spirito del ’45, Milano, Giordano, 1967, p. 2.

16 Ivi, p. 123.

17 P.V. Mengaldo, Introduzione a F. Fortini, Poesie scelte, Milano, Mondadori, 1974, p. 14.

18 Ibidem.

19 F. Fortini, La città nemica, in Foglio di via e altri versi, Torino, Einaudi, 1967, p. 2.

20 F. Fortini, Se sperando, ivi, p. 20.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 18.

23 F. Fortini, Militari, ivi, p. 21.

24 F. Fortini, A un’operaia milanese, ivi, p. 23.

25 F. Fortini, vice veris, ivi, p. 43.

26 F. Fortini, Foglio di via, ivi, p. 47.

27 Ivi, p. 48.

28 Ibidem.

29 Ivi, p. 49.

30 Ibidem.

31 Ivi, p. 39.

32 Ivi, p. 41.

33 Ivi, p. 42.

34 Cfr. G. Raboni, Poesia degli anni Sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1976.

35 Cfr. R. Pagnanelli, Fortini, Ancona, Transeuropa, 1988. Su questa appassionata fatica di Pagnanelli, rinvio a un mio intervento: G. De Santi, L’arduo saggio su Franco Fortini, in Annuncio e Azione. L’opera di Remo Pagnanelli, in «Istmi», 1997, n. 1 e 2.

36 F. Fortini, Poesie inedite, Torino, Einaudi, 1997, p. 29.

37 F. Fortini, Reversibilità, ivi, p. 27.

38 F. Fortini, Poesie inedite, cit., p. 35.

39 Ivi, p. 9.

40 F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 63.

41 F. Fortini, La gioia avvenire, in Foglio di via e altri versi, cit., p. 65.

42 Ibidem.

43 È nell’orizzonte della poesia che qualche cosa dell’epoca sopravvive giusto perché ne è stata divelta. «Ma è in definitiva la Jetztzeit, questo perturbante di ogni pretesa omogeneità del tempo storico, il perno di tutto il discorso. Dove compare, essa significa l’attualità, la validità per-l’oggi anche del più remoto passato, di cui rende possibile la vera comprensione (storia) e al tempo stesso il recupero e la collocazione in una posizione di simultaneità con il presente (rivoluzione). Ma, ci pare di capire, la Jetztzeit può essere colta solo là dove qualcosa esorbita dal proprio tempo e chiede di valere anche oltre, perché esige di poter continuare la propria vita troncata, pretende che gli sia resa giustizia, aspira al dispiegamento delle proprie potenzialità conculcate» (G. Bonola, Redenzione del passato, in Nel tempo dell’adesso. Walter Benjamin tra storia, natura e artificio, a cura di G. Perretta, Quaderni di Millepiani, Milano, Mimesis Eterotopia, 2002, p. 38).