Roberta Colombi,
La verità della finzione
Gianluca Della Corte

Roberta Colombi, La verità della finzione. Il romanzo e la storia da Manzoni a Nievo, Roma, Carocci, 2022.

Con La verità della finzione Roberta Colombi consegna alla comunità dei lettori e delle lettrici un saggio importante sul romanzo storico, corredato da un’ampia Introduzione che ne mette in luce il solido impianto teorico. La sua funzione, infatti, non si esaurisce nel riassunto dei sette capitoli che compongono il libro, ma comprende anche l’illustrazione delle ragioni alla base della sua stesura e dell’orizzonte teorico cui si è guardato per organizzare il discorso critico. Sin dalla soglia del libro, insomma, Colombi orienta lo sguardo del lettore, permettendogli di accedere con una certa preparazione alle considerazioni che sta per proporre. Di particolare interesse è il paragrafo Letteratura e storiografia: intrecci e confini, che è uno stato dell’arte ragionato della riflessione storiografica sul rapporto tra storia e letteratura. In particolare, la studiosa ripercorre il dibattito sui confini tra i «due tipi di narrazione» (p. 25), la finzionale e la storiografica, che ha avuto luogo tra gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi di quello corrente, coinvolgendo storici (Ginzburg, Banti, ecc.) e critici letterari (Bertoni, Compagnon, ecc.) presso importanti riviste quali «Contemporanea», «L’Homme», «Le Débat», «Annales». La «permeabilità dei confini» (p. 24) tra storia e finzione, che oggi è un dato acquisito in entrambe le regioni disciplinari, talvolta più attente a prescrivere «cautele» nella connessione dei due piani, sarebbe stata in qualche modo anticipata dai romanzieri dell’Ottocento che hanno per primi sperimentato e argomentato l’intreccio di «verità positiva e possibilità» (p. 25). L’idea cardine che accomuna le osservazioni degli studiosi inventariate e riassunte da Colombi, pur divergenti nelle prospettive e negli esiti specifici, è quella del valore conoscitivo della letteratura, del «potenziale di verità nella finzione» (p. 25), del suo incontestabile valore di «testimonianza all’interno di una storia globale che mostra maggiore interesse per la storia della mentalità e dei costumi che per gli eventi storici in sé» (p. 26). Nelle ultime pagine dell’Introduzione, Colombi si pronuncia su quello che pensa debba essere il «compito della critica» (p. 29) nei confronti del componimento misto, che non è tanto «l’individuazione della maggiore o minore distanza dal dato di realtà con cui la scrittura entra in relazione, quanto comprendere il trattamento, la trasformazione che quello subisce e tentare così di cogliere le tracce di quel senso che lo scrittore cerca nell’istituire il suo mondo possibile» (p. 30).

La domanda originaria che ha stimolato la scrittura di questo libro è – dichiara l’autrice – «scaturita dalla prima lettura delle Confessioni» (p. 15): e, in effetti, Nievo riceve un’attenzione notevolmente maggiore rispetto a Manzoni, che costituisce il modello da cui partire per poter riflettere intorno al nucleo originario, per questo più consistente, del saggio. Tuttavia, il sottotitolo (Il romanzo e la storia da Manzoni a Nievo) non è ingannevole, anzi promette meno di quanto il libro offre, essendo questo una ricognizione storico-critica dell’evoluzione del romanzo storico italiano, condotta a partire dalle riflessioni teoriche maturate nel corso degli anni dal genio ossessivo di don Lisander fino al significativo cambio di rotta operato – anche, ma non solo – dallo scrittore friulano, per concludere, infine, con una breve panoramica sulle possibili ragioni e significati della fortuna che ha arriso a tale genere negli ultimi due decenni. Roberta Colombi, così, ragionando intorno al «binomio verità/finzione», costitutivo del romanzo storico, scommette di «ricostruire la storia dell’accettazione nella nostra cultura della dimensione finzionale legata al romanzo» (p. 16). Il fine principale di questo studio evolutivo del sottogenere storico è dunque quello di collocare le Confessioni in un contesto specifico, riconoscendo al loro autore il valore delle proprie scelte estetiche. Ma si vada per ordine.

È incentrato sulla ricostruzione delle tappe del «percorso creativo e teorico» (p. 32) di Manzoni tutto il primo capitolo, dove Colombi interroga molti scritti dell’autore, a partire da quelli che precedono «l’impresa del romanzo», intravedendo in questi ultimi «una specie di laboratorio nel quale si colgono gli obiettivi e i principi che informano anche la sua attività creativa successiva» (p. 33). La studiosa si muove dunque tra testi teorici e finzionali con un fare ispettivo, attribuendo ad essi pari valore documentale e cercando di isolare i punti della lunga e complessa riflessione manzoniana sul rapporto tra verità e finzione, vero storico e vero morale, prova e congettura. Ne viene fuori una dettagliata cronistoria critica, in cui è investita di valore ermeneutico anche tutta la serie di aggiunte e rimozioni che hanno caratterizzato la lunga gestazione dei due romanzi di Manzoni (I promessi sposi e Storia della Colonna Infame).

Dopo la lettura ravvicinata dell’opera manzoniana, nel capitolo successivo Colombi allarga lo sguardo al primo cinquantennio dell’Ottocento per poter analizzare il contesto in cui il romanzo storico italiano si è affermato ed è evoluto. L’obiettivo di Colombi resta sempre quello di individuare le condizioni che hanno stimolato la nascita del capolavoro nieviano e la nuova fisionomia che con esso ha assunto il romanzo storico, le cui principali tracce d’evoluzione sono colte nello «spostamento verso il presente» e nell’«accettazione della dimensione finzionale della scrittura romanzesca» (p. 59). Per farlo, sceglie di sondare i territori del dibattito teorico, dove spiccano le voci autorevoli di Mazzini e Tenca, due «opinion leaders» (p. 76), e della produzione narrativa pubblicata prima del 1857 – anno di stesura delle Confessioni – resa omogenea da scelte formali («narrazione autobiografica» o «memorialistica») e contenutistiche, quali una nuova attenzione verso la contemporaneità o «un passato molto recente» (p. 67).

I quattro capitoli centrali – dal terzo al sesto – sono dedicati a Nievo. Del terzo, particolarmente interessante è la ricostruzione di una teoria nieviana del romanzo storico a partire dalle recensioni che il poligrafo ha firmato sul finire degli anni Cinquanta. Colombi, infatti, vi scorge delle «dichiarazioni di poetica» in cui «il critico sembra più parlare delle ragioni della sua scrittura che dei romanzi recensiti» (p. 120). Un’intuizione che si avvicina molto a quanto Roberta Turchi aveva scritto a proposito della recensione nel primo Ottocento, quando gli scrittori «colsero in essa la possibilità di sviluppare un discorso teorico che portasse a chiarire la funzione e le forme della letteratura».1

Se in quest’ultimo capitolo la studiosa offre diversi spunti adoperando un metodo tradizionale, le principali acquisizioni del saggio si concentrano nei capitoli che seguono, dove le Confessioni vengono lette da una specola finora non molto frequentata dai nievisti. Col supporto degli strumenti della narratologia, della teoria letteraria e della semantica narrativa, Colombi dedica attenzione a una serie di «risorse tematiche» e «strategie compositive» (p. 130) con cui l’autore, sensibile alle sollecitazioni tenchiane, realizza il progetto di un maggiore coinvolgimento del lettore, prerogativa fondamentale di un romanzo storico così spiccatamente militante. Tra queste, la studiosa individua una «scrittura dai toni allocutivi» (p. 129); l’attento «disegno dei personaggi» (p. 133); la straordinaria finzione del vecchio narratore autobiografo, la cui esemplarità «non è soggettiva, ma storico-sociale» (p. 136); la «prospettiva ironica e autoironica» (p. 142) e l’autocritica a cui l’ottuagenario si sottopone, entrambe consentite dal suo racconto retrospettivo; il ricorso a «una memoria letteraria diffusa e largamente condivisa» (p. 143).

Con la sua nuova lettura, Colombi riesce a giustificare una serie di aspetti che – se potevano apparire smagliature di una trama vasta e quindi non facilmente governabile nei suoi mille fili – assumono un rilievo significativo nella strategia di avvicinamento al lettore progettata dall’autore, capace di elaborare un «disegno forte»2 malgrado l’urgenza politica che ha sollecitato la stesura del romanzo. Si tratta di «meno scoperti espedienti» (p. 144) rispetto a quelli summenzionati. Ad esempio, la «sovrapponibilità delle prospettive ideologico-temporali» di Carlino narrans e Carlino agens è un «rischio» spesso «sfruttato dallo scrittore per ottenere maggiore complicità» (p. 145) col lettore: vale a dire che lo scrittore sacrifica consapevolmente la demarcazione netta dei due livelli pur di non affievolire, attraverso il filtro diegetico, il potenziale emotivo dalla mimesi. O, ancora, «il desiderio di un’onniscienza psichica» (p. 148), che mal si attaglia a un narratore omodiegetico, pure rientra tra le consapevoli infrazioni del regime narrativo che l’autore commette con la stessa finalità e che, come rivela Colombi, sono «indice di una diversa accettazione e uso della dimensione finzionale» (p. 148) rispetto al più fiscale Manzoni teorico.

Altre acquisizioni importanti del saggio sono condensate nel quinto capitolo, dove Colombi risponde a un insieme nutrito di interrogativi intorno alla Storia nelle Confessioni. In primo luogo, la questione del «rapporto disinvolto» (p. 163) di Nievo con le fonti storiografiche che, pur essendo già ampiamente affrontata dalla critica, riceve una rapida rilettura non senza interessanti spunti critici. L’apporto della studiosa, infatti, consiste nell’identificazione di «ragioni culturali e personali» alla base della spregiudicata riscrittura nieviana della storia: oltre alla collocazione dell’atteggiamento nieviano entro una «temperie» (p.165) generata da una crociata di scrittori infedeli al vero storico e capitanata da Carlo Tenca, tra le ragioni sono annoverati anche il desiderio politico di narrare «un’altra storia che si cela sotto la storia ufficiale» (p. 165) e quello, più privato, di «elaborare traumi e dolori presenti nello specchio del passato» (p. 168), come pare suggerire, ad esempio, l’allusione ai martiri di Belfiore ravvisabile nella raffigurazione della morte sul patibolo dei fautori della Repubblica Partenopea. In secondo luogo, l’analisi si sposta sulla visione nieviana della storia e sulle modalità rappresentative con cui essa è introdotta nel romanzo. Colombi si avvale della lezione di Peter Brooks sulla trama del romanzo dell’Ottocento e, attraverso i concetti di «intenzionalità» e «desiderio», dà una lettura davvero interessante delle Confessioni: dopo aver abitato il «disordine della storia» – molto spesso tematizzato nel romanzo – l’ottuagenario, dall’altezza dei suoi anni, cerca «una direzione di sviluppo, un qualche principio ordinatore» (p. 177) avendo già in mente un finale, la cui contemplazione è fondamentale per l’elaborazione di una trama: ma se «l’approdo» e «il senso delle vicende private» dell’individuo Carlino «sembrano colti e dichiarati […], il senso delle vicende storiche è solo presagito» (p. 178), configurando così quello che la studiosa chiama «doppio approdo finale».

Con il sesto capitolo, Colombi ricostruisce il sostrato filosofico-religioso del capolavoro nieviano, dove la progressiva acquisizione di una «spiritualità laica» non radica Carlo Altoviti in un’immanenza ingenua, ma lo dota di una fede per cui «Credere significa scegliere di credere anche ciò che non si vede» (p. 194) o, meglio, «significa non fermarsi al reale ma attingere al vero integrandolo con l’ideale» (p. 196). Una religiosità di tal sorta è, in effetti, presupposto essenziale per un romanzo in cui è connaturata una «capacità di visione» che trascende il dato positivo; un romanzo che si fonda su «un’ottica non individuale e storica, ma collettiva e metastorica» (p. 201).

Il saggio si chiude con un capitolo-cerniera che da un lato arricchisce di ulteriori considerazioni l’interpretazione dell’opera nieviana, dall’altro apre una riflessione sulla ricezione del modello delle Confessioni con lo sguardo rivolto al presente. Nello specifico, il primo paragrafo è imperniato sul carattere peculiare dell’idealismo – non «ingenuo» ma «critico» (p. 217) – di uno scrittore che, a dispetto delle sue incessanti oscillazioni tra «fede e scetticismo» e malgrado lo scarto tra la realtà deludente e gli accendimenti dei progressisti, «non rinuncia al suo tentativo soggettivo di mettere ordine al mondo, e di cogliere una qualche logica del moto storico che consenta di non rinunciare alla speranza» (p. 220) adoperando quest’ultima come principio di militanza attiva e non come stanco residuo di una volontà astratta e inefficiente. Negli altri due paragrafi, invece, Colombi indaga le ragioni della sfortuna del modello etico e di quello narrativo incarnati dalle Confessioni, rilevando la congenita «interdipendenza» di questi due livelli – «la prospettiva di carattere etico-civile» e «la formula narrativa della storia testimoniata» (p. 227) – intrinsechi al «romanzo storico testimoniale-memoriale» a cui il capolavoro nieviano va ascritto. Tuttavia, stando al suo ridotto numero di lettori, non si può «investire il romanzo di Nievo della gloria spettante ai capostipiti» (p. 233): ad esso spetta una funzione «inaugurale» (p. 227), piuttosto che «modellizzante» (p. 225), rispetto alla vitalissima tradizione del romanzo storico contemporaneo che è approdato, per altre vie, sulla strada spianata da Nievo.

Il saggio presenta una scrittura generosa, la cui attenzione nei confronti del lettore – dietro cui si avverte talvolta la sagoma degli studenti dedicatari («di ieri e di domani») – si evince nella ripresa e nella riformulazione dei nuclei concettuali del saggio: accorgimenti e scelte stilistiche che obbediscono a una volontà di chiarezza e a un desiderio di essere intesa dell’autrice che la imparentano con il suo scrittore.

Note

1 R. Turchi, Introduzione, in P. Zajotti, Polemiche letterarie, a cura di R. Turchi, Padova, Liviana, 1982, pp. IX-X.

2 G. Maffei, Nievo, Roma, Salerno, 2012, p. 283.