
Chi conosce i lavori di Rino Genovese, sia in ambito saggistico che narrativo,1 non stenta a riconoscere nel recente suo Chi scriverà questo romanzo? Il puttaniere nero l’impronta dell’intelligenza acuminata che lo contraddistingue e che anzi lo colloca tra i pochi interpreti del presente capaci di coglierne derive e paradossi, senza mai abdicare al pensiero critico. Forare il tenace tegumento dell’apparenza mettendo allo scoperto i sostrati ideologici dei poteri dominanti, così come le complicità e le inerzie della ex-sinistra non solo italiana è quanto da intellettuale continua a fare, a differenza dei micro-specialisti e dei saltimbanchi dei media. Il modo stesso di trattare la forma-romanzo, in questo caso, è significativo di una ricerca tanto più radicale, quanto più mette in discussione i propri strumenti: qui, appunto quelli della narrativa, esposti ai raggi X della saggistica e messi al vaglio dell’indagine sociologica e della riflessione storica. Un ibrido, inscindibile però nei suoi elementi in quanto essi fanno parte, insieme, della natura autoriflessiva del testo.
La vicenda romanzesca sul piano dello svolgimento è semplice per non dire essenziale: un medico italiano, ritiratosi dalla professione, viene ucciso in circostanze misteriose a Rio de Janeiro; e attorno al “fatto di cronaca” (un delitto che potrebbe essere anche un «suicidio per interposta persona», p. 167), si muove, per piste virtuali e ricostruzione dei retroscena e moventi, tutta la storia. Si legga l’incipit:
Di per sé il contrappunto tra la trivialità del “soggetto” e la componente cerebrale e colta del “metaromanzo” non è, in realtà, un procedimento nuovo né originale, frequente com’è nelle avanguardie e in certo compiaciuto postmoderno (anche filmico); non risiede in questo, tuttavia, il nucleo originale della ricerca di Genovese, la cui perseverante, immersiva e quasi lussureggiante riflessione percorre l’intero organismo testuale. Ne è investito, con il relativismo dei punti di vista, anche il ricorrente andirivieni tra narrazione e saggio, che così viene apertamente tematizzato e diventa oggetto delle speculazioni in progress degli aspiranti detective:
Ma poi davvero dobbiamo prendere alla lettera questa diagnosi? O fa parte del gioco, e possiamo scorgervi ancora un’altra forma della reificazione che invade ogni interstizio del mondo (il pianeta del liberismo globale), ogni piega della storia, di questa storia e della nostra italiana, di nuovo e per sempre consegnata al Nero? Per rispondere forse dovremmo esplorare le zone meno esposte del testo, auscultarlo anche laddove sa sottrarsi allo sguardo di Medusa del nichilismo, nei suoi risvolti incidentali o in apparenza secondari, quasi degli a parte nel “saggio romanzesco” che sa tutto: allorché si fa sentire un ritmo diverso, un allentarsi dell’ordigno infernale che si avvita su sé stesso. Cioè dove, nell’attraversamento del Negativo, del Falso e Inautentico, qualcosa travalica il chiuso orizzonte dei personaggi del romanzo, presidiato dai demoni di un inconscio collettivo dedito al culto di Thanatos; da lì, tocca a noi accettare la sfida della Medusa e rileggere tutto alla luce obliqua e lampeggiante di ciò che, nella dissipazione di un tempo senza futuro e senza progetto, non è mai arreso del tutto, come una promessa dimenticata ma latente. Per esempio, a un certo punto, inaspettatamente ma in chiave con il titolo (che riecheggia Il corsaro nero) nel libro si parla di Salgari e delle sue «storie di avventure esotiche» (p. 162), annotando – e allora si pensa a Baudelaire, a Proust… – che «i luoghi non visti, le ambientazioni mai visitate possono risultare più meravigliosi di qualsiasi cidade meravilhosa in cui uno possa recarsi. È la fantasia che fa la differenza» (ibidem). E ancora, si noti come prosegue l’excursus: «E se non riesco a descrivere neanche la forza di attrazione che ha su di me questa parte di Rio che ha nome Copacabana, ciò dipende dalla circostanza che vi sono arrivato senza averne fantasticato abbastanza, dall’altra parte dell’oceano» (ibidem). Ebbene, lì – nel mancato reame della Fantasia, intravisto una volta e affiorante nella memoria – il Nero (tradurrò così) non ha più potere, né il turismo del Niente: a farsi vivo nella sua potenza, come insegna Bloch, è il fantasticare, che trattiene il sogno dell’utopia e che, da questi spiragli, s’insedia persino in un testo in apparenza ad esso così estraneo. Non è vero del tutto, quindi, che non c’è dialettica nel testo, il metaromanzo ha un midollo vitale e nascosto; e proprio nelle descrizioni di città e di luoghi, che nel libro non mancano di esercitare un fascino durevole, risuona talora questo accento, qualcosa che importa e che solo ai veri scrittori è concesso evocare: la Napoli «giallastra sotto una leggera pioggia che non riesce a dissolvere la sporca cappa della calura estiva», o Rio, una sera a Copacabana come questa, che a suo modo resiste ben oltre il tempo del mondo diviso: