Riformisti alla rovescia
Il “neoriformismo”
nell’analisi di Paolo Favilli
Toni Muzzioli
Nella sinistra, un tempo, quando esistevano ancora i partiti socialisti e comunisti, l’Urss e il movimento operaio organizzato, c’erano i riformisti e i rivoluzionari, gli uni e gli altri a loro volta divisi in innumerevoli fazioni, scuole e correnti. Riformisti e rivoluzionari si consideravano, ad ogni modo, due “tribù” diverse, talvolta anche duramente contrapposte. La divisione grosso modo si giocava su modi e forme della auspicata creazione di una futura società socialista: i primi, infatti, pensavano che essa fosse conseguibile senz’altro all’interno delle cornici elettorali e parlamentari, confidando nel progressivo inevitabile scivolamento della società capitalistica verso il suo superamento; i secondi pensavano necessaria la “rottura rivoluzionaria”, la necessità cioè di giungere – presto o tardi e in forme anche assai differenziate secondo le diverse teorie o temperamenti – a un momento di scontro generale e definitivo. Gli uni e gli altri, però, condividevano due cose: il fine, che era il socialismo, e la critica della società vigente, quella capitalistica, dalla quale appunto derivava l’impegno attivo (pur diversamente concepito) per il suo superamento. Le accuse e controaccuse – e i conseguenti comportamenti pratici – potevano spingersi fino ai livelli più atroci, ma resta indiscutibile che l’impegno soggettivo per il socialismo ha sempre accomunato riformisti e rivoluzionari, a tutte le latitudini.
I riformisti, certo, erano abituati a subire le peggiori accuse dai rivoluzionari (tradimento della classe operaia, svendita dei suoi interessi, collusione col nemico, cedimento all’imperialismo ecc.), accuse spesso fondate e altre volte un po’ meno, ma certamente si consideravano impegnati in una battaglia per il miglioramento e il consolidamento delle condizioni economiche e sociali delle classi popolari (anche in questo caso qualche volta era vero, qualche volta un po’ meno…). Le “riforme” questo erano: passi, o mattoni se si preferisce, di un percorso (o di un edificio) che, rafforzando progressivamente le posizioni della classe operaia, l’avrebbe portata in definitiva non solo a un deciso miglioramento economico ma al governo della società. Tanto è vero che, di fronte a leggi che imponessero un deterioramento delle posizioni sociali del proletariato o un restringimento della democrazia, essi erano soliti usare l’espressione “controriforme”!
Così sono andate le cose all’incirca fino alla fine degli anni Ottanta del XX secolo. La parola “riformista” aveva un significato ben incastonato in questo quadro.1
Poi, il crollo dell’Urss e del blocco socialista cambiò tutto. In realtà, all’indomani della dissoluzione del socialismo reale, ci fu fatto credere che il riformismo, per l’appunto, avesse prevalso sull’estremismo bolscevico, sulla “mentalità rivoluzionaria” (per dirla con Michel Vovelle) e sui suoi effetti totalitari: del socialismo avremmo conservato le giuste aspirazioni sociali (e la prassi riformista), mentre avremmo dimenticato le tendenze totalitarie (questo, perlomeno, dicevano le anime belle socialdemocratiche). Ma non è andata esattamente così: il movimento comunista effettivamente si è dissolto, ma si è portato dietro anche il riformismo socialdemocratico! Con un’importante specificazione: è scomparsa la cosa; non il nome. Sì, perché di riformismo si è continuato a parlare. Anzi, per la verità non si parla d’altro.
Oggi, come ognuno può vedere facilmente aprendo qualsiasi giornale o assistendo a qualunque talk show politico, è avvenuto però un totale cambiamento di significati. Mai come oggi, in effetti, si sente parlare di riforme, della loro necessità ecc. Scomparsi i rivoluzionari, si sono moltiplicati a dismisura i “riformisti”, ma le riforme che propugnano non guardano più, ancorché in forma blanda e gradualista, a una prospettiva socialista (o anche puramente “laburista”); bensì all’adeguamento della società nel suo complesso alla globalizzazione capitalistica;2 le loro riforme ora sono pro business, come dicono in America. È rimasto il nome, appunto, ma la cosa è cambiata. Si parla, infatti, di riforme, meglio se strutturali, per “far ripartire il Paese”, per migliorare la competitività, per “rassicurare i mercati” (espressione particolarmente abusata di questi tempi), effettuare ogni possibile privatizzazione, il tutto ovviamente sotto le denominazioni eufemistiche di modernizzazione, efficienza, meritocrazia, globalizzazione ecc. È ormai divenuto senso comune che “riformisti” siano coloro che promuovono e sostengono queste politiche, come si può vedere in un recente libro di Michele Salvati dedicato alla storia d’Italia, in cui la debolezza di fondo del nostro paese è individuata, a partire dagli anni Sessanta, nella «prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ostacolare la formulazione e l’esecuzione di politiche economiche efficaci».3 Si può parlare del PSI e della sinistra DC degli anni Sessanta (glissiamo pure sul PCI) come di culture politiche “non riformistiche”, senza dichiarare guerra a intere biblioteche? Sì, si può, perché la parola riformismo ha cambiato definitivamente segno e… tanto peggio per la storia del pensiero politico!4
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Com’è potuto accadere questo ribaltamento di significati di sapore quasi orwelliano? Cerca ora di spiegarlo, con ampiezza di riferimenti storici, economici e filosofici, e insieme con una forte dose di passione politico-morale, l’importante saggio di Paolo Favilli Il riformismo e il suo rovescio,5 che pone al centro della propria attenzione appunto questo importante fenomeno.
Favilli, forte della sua profonda conoscenza della storia del pensiero economico e del movimento operaio e socialista italiano,6 analizza da storico (ma da storico che sa ricorrere utilmente anche a tante altre “cassette degli attrezzi”) origini e componenti del neoriformismo. E, in primo luogo, fa parlare i documenti, così da mostrare il momento esatto in cui avviene il salto dal vecchio al nuovo riformismo: all’indomani del “crollo del Muro”, in effetti, anche i molti allora giovani intellettuali (uno fra tutti, Michele Salvati) che nel corso degli anni Ottanta si erano cimentati in un’opera di trasformazione riformista (questa volta nel senso classico della parola…) del PCI, senza tuttavia perdere il punto di riferimento degli interessi dei ceti popolari, scivolano impercettibilmente (e in breve) nel “neoriformismo”: non si tratta più, per loro, di sanare i lasciti comunisti o leninisti del partito per traghettarlo verso una concezione socialdemocratica “europea”, quanto piuttosto di abbandonare il “vecchio” in blocco, con una furia cieca, mettendosi su un piano inclinato in cui l’autoriforma del socialismo non sarà mai abbastanza.
Sono gli anni Ottanta, secondo Favilli, il luogo ideale per seguire la trasformazione del tradizionale riformismo socialista (e in Italia comunista) in “neoriformismo”. Sono, quelli, anni in cui, curiosamente, il riformismo diventa egemone, e perfino sovrabbondante, nel discorso pubblico della sinistra nel momento stesso in cui «esce progressivamente dalle cose, dai processi in atto»;7 mentre nel decennio Settanta si era assistito al fenomeno contrario: ci si voleva tutti “rivoluzionari” (anzi “riformista” era poco meno che un insulto) e si facevano le riforme (ma forse Rosa Luxemburg non se ne stupirebbe). Un paradosso che ci può aiutare a capire la realtà del neoriformismo. Sempre negli anni Ottanta furoreggia il “nuovo” PSI, che, reso irriconoscibile dalla svolta craxiana, adotta per la prima volta il termine riformismo per indicare non più la propria differenza dalla tradizione terzinternazionalista rappresentata dal PCI, ma una ormai conclamata (e boriosamente rivendicata) estraneità ai valori e all’ethos del movimento operaio. In tal senso – osserva Favilli – «Bettino Craxi è davvero un innovatore profondo della tradizione socialista ed il vero padre del neoriformismo italiano».8 Craxi e il suo partito sarebbero stati poi spazzati via da “Mani pulite” a inizio anni Novanta; ma l’idea di un “socialismo” ridotto a parola vuota, pura prassi tecnocratica e “modernizzatrice”, avrebbe avuto un grande futuro, e il linguaggio e l’ideologia della (quasi) totalità della sinistra italiana ne sarebbero risultati profondamene modificati.
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Il paradigma del neoriformismo è fondato – dice Favilli citando da Giuseppe Vacca9 – sul superamento dell’economia mista, del vecchio modello socialdemocratico, del vecchio compromesso sociale postbellico.
I suoi sostenitori ritengono così, liberati dai lacci dell’“ideologia”, di poter finalmente dedicarsi al compimento di una mitica “rivoluzione liberale” (ma meglio sarebbe dire liberista) vista ormai come panacea capace di permettere la massima crescita economica e allo stesso tempo di promuovere la più ampia uguaglianza delle opportunità (di più, ovviamente, non ci si può arrischiare a chiedere, pena ricadere nelle pericolose derive del totalitarismo comunista).10
Favilli anatomizza il neoriformismo evidenziandone dapprima le componenti essenziali sul piano ideologico.
1) La “fine della storia”, una idea-forza che entra nel dibattito pubblico grazie al libro di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo.11 La tesi del saggio – ricordiamola in breve – è che la fine dei regimi dell’Est segna il raggiungimento di uno “stato normale”, per così dire fisiologico, delle società occidentali, giunte finalmente, dopo la deviazione costituita dal socialismo burocratico, all’assetto fondato su liberismo economico e democrazia rappresentativa multipartitica, uno stato definitivo e stabile corrispondente alla natura umana (laddove le forme di redistribuzione e egualitarismo sociale vigenti nei paesi socialisti ne rappresentavano una “violazione”, poiché erano sì finalizzate a soddisfare alcuni bisogni materiali – alimentazione, casa, lavoro, sicurezza sociale – ma negavano la spinta umana all’affermazione personale).
Anche per chi ignora il saggio di Fukuyama o si colloca ben lungi dall’hegelismo (peraltro non poco semplificato) del filosofo americano, comunque, quella che si afferma a livello di senso comune nel corso degli anni Ottanta è l’idea che con il capitalismo avanzato l’umanità giunge finalmente a unificarsi in un regime politico, sociale ed economico in grado di garantire la massima felicità possibile, dunque ad una sorta di stadio perfetto e “terminale”, nel quale mutamenti strutturali radicali non sono più né possibili né desiderabili. È questa, in definitiva, la posizione di Lyotard, il padre del postmoderno, nel suo influentissimo saggio La condizione postmoderna, che precede di oltre un decennio il libro di Fukuyama.12 Ebbene, osserva Favilli che
3) La parola-chiave del “nuovo” come stella polare della propria azione politico-sociale, inevitabilmente causa di una deriva nichilista (sostenere il nuovo come tale è intrinsecamente nichilistico, perché significa abdicare a un criterio di valore in favore della preferenza per “ciò che viene dopo”). Il capitalismo contemporaneo ha fatto della innovazione perenne la propria bandiera: è questa, di fatto, una caratteristica delle sue industrie di punta, come l’informatica e la microelettronica, ma anche del suo modo di riorganizzare costantemente intorno ai propri imperativi la vita sociale (si pensi a come il consumismo, peraltro non da oggi, consista appunto in una continua proposizione di cose “nuove”, per quanto fasulle). Il neoriformismo si fa portavoce entusiasta di questa ideologia del “nuovo”, che si manifesta, tra l’altro, in quello che è stato definito schema avanti/indietro: un rudimentale apparato interpretativo che colloca nel futuro ciò che è buono e desiderabile (ciò che è “avanti”, “avanzato”) e nel passato ciò che è da rifiutare (ciò che è “sorpassato”, “arretrato”, “indietro”). Secondo questo criterio, un modo infallibile per giudicare un fenomeno, un prodotto, una tecnologia, una legge, una forma di vita consiste nel valutare se è “avanzata” o “arretrata”: nel primo caso andrà accolto con favore, nel secondo respinto. Questa concezione in verità è legata alla cultura del capitalismo contemporaneo in genere e alle sue specifiche forme di legittimazione, ma si trova di norma in stretta alleanza col pensiero neoriformista, il quale se ne serve ampiamente (e con successo):16 così i neoriformisti ci informano ogni giorno che liberalizzare l’economia è “avanti”, mentre mantenerla pubblica (o ri-pubblicizzarla) è “indietro”; che la flessibilità del mercato del lavoro è “avanti” mentre tutele e stabilità sono il residuo di un mondo inefficiente e burocratico; che opporsi alla TAV in Val di Susa, oltre che egoistico e nimby, è decisamente conservatore, e così via. Un buon esempio di questo dispositivo retorico si può vedere nella titolazione di un articolo dedicato dal “Corriere della sera” al programma della Linke, il partito della sinistra radicale tedesca: Il futuro della Germania? Indietro e a sinistra.17
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Per illustrare il concetto di neoriformismo, che peraltro nel libro si documenta ampiamente, può essere utile leggere una intervista a Tony Blair apparsa sul «Corriere della sera» nel maggio 2010. Alla domanda perché il Labour Party abbia perso le elezioni, Blair risponde così:
Per una versione particolarmente “calda” del neoriformismo, liberal-laburista come a volte si dice, ecco come il segretario nazionale del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, sintetizza il suo programma, che qui si carica perlomeno di una certa dose di preoccupazioni sociali:
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Resta a questo punto da capire perché larga parte del movimento socialista e operaio si sia così pienamente adattato al nuovo Zeitgeist, con l’adesione unanime, tra l’altro, alla visione neoriformista. Certo, la dissoluzione del comunismo storico è stato uno shock determinante, avvenuto per giunta in un momento in cui l’offensiva ideologica neoliberista era già particolarmente intensa; le trasformazioni che, sempre nell’ultimo quarto del XX secolo, hanno attraversato la sfera della produzione e la stessa organizzazione mondiale del lavoro hanno contribuito nei paesi centrali del sistema-mondo a indebolire oggettivamente la classe operaia diffondendo una forte sfiducia nelle lotte collettive e nell’organizzazione politica; la “narrazione” della globalizzazione felice, ammannitaci per anni e solo di recente incrinatasi, ha fatto da ulteriore volano all’egemonia culturale neoliberale sotto forma di un onnipervasivo “pensiero unico”. Tutto vero, ma forse insufficiente. Evocare il pensiero unico non serve a molto: chiama in gioco un fenomeno che, ancora, va spiegato. Perché c’è il pensiero unico? O meglio, come ha potuto il pensiero neoliberale diventare “pensiero unico”? Perché in esso, e così nel neoriformismo che del pensiero unico è parte costitutiva, buona parte della sinistra è ordinatamente (e talvolta entusiasticamente) confluita?
Per parte mia, mi permetterei di suggerire una ragione (non l’unica, certo), collocata sul terreno propriamente ideologico: l’economicismo e il connesso fatalismo radicati nel pensiero socialista, sia riformista che rivoluzionario, otto-novecentesco, secondo i quali il Fine della Storia è segnato ed è il comunismo perché ad esso conduce fatalmente la contraddizione tra illimitato sviluppo delle forze produttive e ristrettezza dei rapporti sociali di produzione. In essi si manifestava quella convinzione di «nuotare con la corrente» dello sviluppo progressivo del tempo storico che Walter Benjamin aveva nelle sue Tesi di filosofia della storia chiaramente denunciato.24 L’idea dell’alleanza privilegiata col movimento della storia (secolarizzazione, in fondo, di un’idea religiosa) guidò lungamente il movimento operaio e socialista nella sua larghissima maggioranza. Di essa si volle vedere per decenni conferma ora nella crescita dei sindacati operai, ora nelle conquiste dell’URSS e nel suo inarrestabile progresso, ora nelle crisi e nei fallimenti del capitalismo. La Storia è dalla nostra parte! Avanti, compagni! «Avanti!» si chiamò il quotidiano dei socialisti italiani, e non diversamente («Vorwärts») l’“organo centrale della socialdemocrazia tedesca” fondato nel 1876 da Wilhelm Liebknecht; così anche il quotidiano del Partito comunista portoghese: «Avante»… e gli esempi potrebbero continuare.
Una visione semplicistica e ingenuamente “lineare”, questa, sulla quale sarebbe fin troppo facile ironizzare oggi con la sufficienza dei posteri, trascurando quanto ad essa probabilmente si deve in termini di fiducia che seppe infondere in milioni di singoli operai e militanti nelle mille battaglie, nella miseria della condizione di sfruttati, nelle immani repressioni, nell’inferno delle guerre mondiali. Anche un critico durissimo di tale visione, Antonio Gramsci, lo riconosceva, nel momento stesso in cui la contestava radicalmente:
Diventa allora comprensibile l’approdo di milioni di persone che erano state socialiste e comuniste alla nuova vulgata neoliberale. Uno slittamento generalmente letto, da chi vi si è opposto e vi si oppone, come opportunistico allineamento alla ortodossia dei vincitori, dunque secondo uno schema moralistico (il tradimento ecc.). Si tratta però di una chiave di lettura troppo “stretta” per dare conto pienamente di un “movimento” così ampio, e che ha riguardato milioni di uomini e donne in perfetta buona fede (insieme, certo, a schiere di opportunisti e traditori).
Ora, se le cose stanno così, siamo in presenza di un vero e proprio blocco del pensiero sociale critico che, insieme all’azione complessiva dell’egemonia culturale, rende quasi impossibile oggi ricreare uno spazio nel dibattito pubblico alla critica del modo di produrre capitalistico. Prova ne sia – come osserva opportunamente Favilli nel libro, pubblicato un anno dopo l’esplosione della crisi del 2008 – la debolezza della risposta del pensiero economico di fronte alla gravità della crisi, la sua totale incapacità ad autoriformarsi, ad uscire dai rigidissimi “binari” teorici nei quali si è a suo tempo inserito. Rimuovere questo blocco è allora un compito non secondario per chi è impegnato, a vario titolo, nella rifondazione di una prospettiva anticapitalistica. Come? Anche – credo – riscoprendo e promuovendo l’autonomia del pensiero critico contro il conformismo e superando la paura che in modo terroristico la cultura dominante mira a instillare in coloro che osano pensare (o perfino agire) in modo “deviante”, con le già citate accuse prêt-à-porter di conservatorismo, di paura del nuovo ecc.
A Favilli non sfugge il punto: egli afferma con chiarezza che l’opposizione a quel “nuovo” che oggi il capitalismo ci vorrebbe imporre come ricetta salvifica deve diventare una prerogativa della sinistra. Senza dimenticare che non sarebbe neanche la prima volta, dal momento che, alle sue origini, il movimento operaio si costituì proprio grazie alla resistenza a un “nuovo” che comportava l’affermazione dello sfruttamento e la distruzione delle forme di vita tradizionali:
È vecchia la resistenza al nuovo?
Dovremmo riflettere sul fatto che tra quella che finirà per definirsi “classe operaia” la prospettiva di “cambiare il mondo” nasce proprio da una lunga fase di lotta per “conservare il mondo”. Conservare un mondo dove gli artisans erano sostanzialmente padroni dei tempi e dei modi del loro lavoro, e quindi parzialmente padroni del proprio corpo e degli elementi essenziali della propria vita. […]
Resistenza contro il nuovo mondo disumanizzante, opposizione culturale all’insieme teorico che quel mondo rispecchiava e giustificava. Questo e non altro era il contesto da cui necessariamente sarebbe nata l’esigenza di un “mondo diverso”, e dunque l’esigenza di “cambiare il mondo”.28
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Contro l’ideologia del neoriformismo, che esercita come abbiamo visto una forte seduzione fondata sul vuoto risuonare di antiche parole, a noi non resta che richiamare l’attenzione sui contenuti, così delle innovazioni come delle “conservazioni”. Avendo la capacità di essere, secondo i contesti, conservatori (in riferimento alle grandi conquiste del movimento operaio, ma anche all’equilibrio ecologico oggi a rischio),29 riformisti (nel senso che oltre la difesa di quanto resta dello stato sociale, aspiriamo ad una sua estensione e adeguamento), rivoluzionari, perché la prospettiva in cui inseriamo il nostro agire concreto resta la trasformazione radicale del presente modo di vivere e produrre.
[Milano, 7 novembre 2011]
1 Questa è una narrazione volutamente iper-semplificata della questione, finalizzata ad evidenziare il passaggio dal vecchio al nuovo riformismo. Se il ventenne di cui sopra volesse approfondire l’argomento, potrebbe cominciare dalla breve ma completa voce (dovuta a Bruno Bongiovanni) Riforme e rivoluzione, democrazia e socialismo, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, diretta da A. Agosti, con la collaborazione di L. Marrocu, C. Natoli, L. Rapone, Roma, Editori Riuniti, 2000, pp. 819-828.
2 Giuseppe Berta ha visto bene come questo programma sia stato il cuore del New Labour in Gran Bretagna, costituendo una frattura netta con la tradizione precedente anche nelle sue versioni più moderate: «Per il New Labour la questione consiste nell’adattare la società al sistema economico, giudicato immodificabile. […] il laburismo abdica nella sostanza al rapporto dialettico con il capitalismo che ha caratterizzato i momenti migliori della sua storia lungo il Novecento. Da un lato, infatti, nel passato esso ha cercato di cogliere i lati fondamentali dell’evoluzione capitalistica, mentre, dall’altro, ha cercato di correggerli, infondendo nelle sue tendenze di fondo elementi ispirati a una logica diversa…» (G. Berta, Eclisse della socialdemocrazia, Bologna, il Mulino, 2009, p. 22-23).
3 M. Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi, Bologna, il Mulino, 2011, p. 74.
4 Salvati del resto sottolinea che si riferisce a «un riformismo coerente, di impianto liberale», a «un moderno riformismo» (ivi, pp. 71 e 72), per l’appunto quello che Favilli denomina neoriformismo.
5 P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio. Saggio di politica e storia, Milano, Franco Angeli, 2009.
6 Di lui ricordo almeno Storia del marxismo italiano (dalle origini alla grande guerra), Milano, Franco Angeli, 1996.
7 P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio, cit., p. 113.
8 Ivi, p. 18.
9 G. Vacca, Il riformismo italiano. Dalla fine della guerra fredda alle sfide future, Roma, Fazi, 2006.
10 P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio, cit., p. 139.
11 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
12 Mi riferisco ovviamente a J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1981. Il nesso tra postmodernismo e “fine della storia”, anche se non immediatamente percettibile, è molto stretto, radicato nella comune apologia del presente capitalistico. Il concetto di postmodernità, del resto, può essere fatto risalire a quello di post-histoire elaborato dall’economista e filosofo positivista francese Antoine-Augustin Cournot (1801-1877) che per primo ipotizzò (ma se ne trova traccia in Saint-Simon, Comte, Tocqueville) l’idea che l’affermarsi della scienza come potenza sociale prospettasse l’avvento di una fase stabile e per così dire “definitiva” della storia, appunto una post-storia (si veda a questo proposito C. Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Milano, Vangelista, 1993). Le concezioni postmoderniste, senza più il trionfalismo progressista ottocentesco ma anzi con forti dosi di ironia e disincanto, si muovono comunque nello stesso alveo ideale, in definitiva positivistico: lo sviluppo grandioso e costante di scienza e tecnologia, sotto specie di “società dell’informazione” e simili, per quanto non privo di rischi, è ritenuto gravido di straordinarie possibilità di crescita e progresso, e soprattutto l’unico mondo possibile. Fuori di lì, solo arretratezza, misoneismo e pericolose “ideologie”.
13 Ivi, p. 157. Qui Favilli segnala anche il ruolo del revisionismo storico, giunto in Italia come tutti sappiamo a livelli di volgarità impressionanti, come componente essenziale del neoriformismo. E anche se appare non immediato, il rapporto è invero molto stretto: se la nostra epoca – quella post-1989 – è anche l’epoca dell’incessante “revisione” della lettura (un tempo) condivisa della storia del Novecento, ciò si deve al fatto che quella è storia di lotte di classe vittoriose sfociate in rivoluzioni riuscite e in compromessi molto favorevoli alle classi operaie; è storia di “ordini nuovi” dimostratisi possibili (ancorché fallibili, come tutto è fallibile, e poi effettivamente falliti); di secolari domini coloniali infine crollati. Cioè storia, in definitiva, di colossali lotte di emancipazione. Ebbene, l’ordine successivo al 1989 ha bisogno di presentare quella storia come criminale e violenta, oppressiva e totalitaria, preistoria oscura della normalità liberale finalmente raggiunta.
14 Ivi, p. 66.
15 Ivi, p. 73.
16 Nella sua bella introduzione alla ristampa italiana di L’uomo è antiquato di Günther Anders, Costanzo Preve vede nello «schema avanti/indietro» una componente essenziale dell’ideologia contemporanea, la quale «non è più in alcun modo una ideologia “borghese” nel senso ottocentesco o primonovecentesco del termine. Essa è […] una ideologia a un tempo postborghese e ultracapitalistica, che ha abilmente saputo metabolizzare in modo flessibile gran parte delle spinte culturali di critica alle vecchie forme di etca proto- e medioborghese» (C. Preve, Un filosofo controvoglia, in G. Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 10).
17 Cfr. P. Lepri, Il futuro della Germania? Indietro e a sinistra, in «Corriere della sera», 18 luglio 2011, p. 15.
18 F. Cavalera, Tony Blair: «Sono pronto a tornare», in «Corriere della sera», 10 settembre 2010, p. 6.
19 Non è necessario sottolineare poi che siamo in presenza di una retorica con effetti talvolta grotteschi, come nota, proprio parlando del Labour Party di Blair, Colin Crouch: «ecco una forza nuova, fresca e modernizzatrice, orientata al cambiamento; ma con l’emergere del suo programma sociale ed economico, è diventata sempre più una continuazione dei precedenti 18 anni di governo conservatore e neoliberale» (C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 73).
20 Pier Luigi Bersani, Per una buona ragione, intervista a cura di M. Gotor e C. Sardo, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 195-196.
21 La dichiarazione è ricordata nell’apertura della famigerata “lettera segreta” della Banca centrale europea al governo italiano, resa nota dal «Corriere della sera», il 29 settembre 2011, p. 3.
22 A. Panebianco, La nostalgia dei conservatori di sinistra, in «Corriere della sera», 29 dicembre 2010, p. 1 e 13.
23 Enemies of progress, in Taming Leviathan. A special report on the future of the State, in «The Economist», March 19th 2011, p. 8.
24 «Il conformismo, che è sempre stato di casa nella socialdemocrazia, non riguarda solo la sua tattica politica, ma anche le sue idee economiche. Ed è una delle cause del suo sfacelo successivo. Nulla ha corrotto la classe operaia come l’opinione di nuotare con la corrente» (W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 81).
25 A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1387-1388.
26 Le idee che uno professa possono ovviamente cambiare: solo gli imbecilli escludono la possibilità di cambiarle. Ma è bene notare che nel fenomeno di cui parliamo non siamo in presenza (se non in una minoranza di casi) del travagliato processo che porta ad abbandonare e/o a condannare una precedente convinzione; bensì di una mutazione ideologica di massa motivata da parte dei protagonisti, più che sulla base dell’ammissione di un errore, sulla base di un supposto passaggio epocale che renderebbe le precedenti convinzioni “superate”. In altre parole, per la gran parte dei militanti già comunisti il marxismo e il socialismo non appaiono retrospettivamente ideologie criminali o anche soltanto sbagliate (o qualcosa del genere), ma piuttosto anacronistiche, cioè appunto “superate” dalla Storia (significativo, in questo senso, il trattamento oggi riservato alle residue forze politiche e culturali di orientamento comunista: vengono liquidate, oltre che attraverso il silenzio e la censura de facto, con il discredito e lo scherno). Si noti anche come questa forma di autocoscienza consente, come effetto secondario, una rassicurante legittimazione al militante postcomunista medio, il quale, senza eccessivo travaglio interiore, può dichiarare di essere sempre stato nel giusto (cioè in sintonia con il corso storico): prima, quando era “attuale” essere comunisti; oggi, quando è “attuale” aderire al liberalismo postmoderno. All’estremo opposto di questo atteggiamento si collocano coloro che non confondono validità dei principi e loro vicissitudini storiche. È il caso del critico letterario e saggista marxista Terry Eagleton che, in un suo brillante saggio degli anni Novanta sul postmoderno, scriveva: «Sarebbe intellettualmente disonesto sostenere che il marxismo sia ancora una realtà politica viva, o che le prospettive di un cambiamento in senso socialista non siano, almeno per il momento, assai remote. Il punto è che sarebbe molto peggio che disonesto abbandonare, in queste circostanze, la visione di una società giusta, e rassegnarsi al pauroso bailamme che è il mondo contemporaneo» (T. Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 9).
27 Favilli da parte sua osserva che «oggi sono proprio i neoriformisti a sostenere con forza il carattere deterministico della storia ed anche quello teleologico […]. La loro è una storia privata di tutti i potenziali della possibilità» (P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio, cit., pp. 170-171).
28 Ivi, p. 172.
29 A questo proposito – senza aprire una discussione per la quale non vi è qui lo spazio – riporto le lucide parole di un bell’articolo dell’economista James O’Connor, padre dell’“ecomarxismo”: «Il problema della natura – del mantenimento della biodiversità, dell’aria buona, delle acque pulite ed abbondanti, dei fiumi, dei laghi e degli oceani non inquinati, dell’integrità dei “sistemi ecologici” e delle bellezze ambientali – è all’ordine del giorno come mai in passato. […] “Preservare, innanzitutto” significa impiegare il lavoro, le materie prime, i macchinari e le altre risorse per restaurare, innovare, riparare, mantenere quel che esiste. Questo è quanto chiedono ormai esplicitamente Earth First!, Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste. Questo è quel che chiedono le femministe, i movimenti urbani e della salute, le lotte contadine, quelle per il lavoro, quelle per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro e sul territorio» (J. O’ Connor, Preservation first!, in «CNS», settembre 2002. Per quanto riguarda il “riposizionamento” di concetti come “progresso” e “conservazione” nel quadro di un approccio ecologico, infine, restano valide le osservazioni fatte vent’anni fa dall’allora giovanissimo filosofo Vittorio Hösle nella sua Filosofia della crisi ecologica: di fronte a un cambio di paradigma della politica, reso necessario dall’emergere della questione ambientale, «il senso delle definizioni politiche classiche si modifica […]. Pensate per esempio ai termini “reazionario”, “conservatore”, “progressista”. Queste parole hanno un significato concreto solo se si dispone di una filosofia della storia che consenta di evidenziare una determinata evoluzione. “Progressista” è colui che si propone di perseguire il telos cui attribuisce un valore normativo; “reazionario” è chi intende ritornare a una condizione ancora più distante dal telos di quanto non lo sia la condizione presente; “conservatore” è chi vorrebbe conservare lo status quo. Ma per decidere quale definizione si addica a una persona, a un movimento, ecc. in un caso concreto, è necessario avere le idee chiare sul telos della storia, o quanto meno sulla direzione in cui questa procede. Ora, variando il concetto di questo telos, come avviene col cambiamento di un paradigma, l’uso delle definizioni non è più univoco. Dal punto di vista del paradigma del pensiero economico, progressista è colui che vorrebbe incrementare i consumi del maggior numero possibile di persone; al contrario, dal punto di vista del paradigma dell’ecologia, in determinate circostanze un simile atteggiamento può apparire reazionario, in quanto costituisce un ulteriore allontanamento da uno stato di salute ambientale» (V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Torino, Einaudi, 1992, p. 33-34).