Una raccolta di saggi di Leslie Fiedler, del 1964, s’intitolava Aspettando la fine (Waiting for the End); del 1967 è il giustamente celebre Il senso della fine (The Sense of an Ending) di Frank Kermode. In quei libri si parlava di scrittori che, da Hemingway a Joyce, da Beckett a Musil, costituiscono parte elettiva del canone della modernità, canone per la cui interpretazione quello di Fine è senz’altro un concetto-chiave; si potrebbe persino dire, paradossalmente, fondante (per Kermode ciò valeva, in realtà, per una zona assai ampia della letteratura, sotto l’influsso del modello dell’Apocalisse). Quasi mezzo secolo dopo, non è mancato chi, per avvicinare i contemporanei, è tornato sull’idea di Fine: per esempio, Giulio Ferroni nel suo Dopo la fine: una letteratura possibile, del 2002 (Donzelli), che però, come annuncia il titolo, sposta l’attenzione sul “dopo”; spostamento confermato, se è lecito mantenersi ad un’altezza di sorvolo su un tema così complesso, da due dei migliori lavori recenti sulla poesia italiana del secondo Novecento, che il “dopo” inalberano fin nell’insegna, quasi dando per scontato l’avvento della Fine (siamo insomma al “Day After”): Dopo la poesia: saggi sui contemporanei di Roberto Galaverni (Fazi, 2002) e Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 di Enrico Testa (Einaudi, 2005).
Quest’ultimo, nella densa Introduzione alla sua antologia, riprende alcune riflessioni di Andrea Zanzotto sul cambiamento verificatosi, tanto nella «natura» che nei «comportamenti umani», a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso: un esito ne sarebbe, secondo il poeta, la «cadaverizzazione della nostra storia», per cui si danno ormai, al presente, «subdoli fenomeni che non sappiamo come siano motivati né sappiamo se siano controllabili» (p. XVIII). Da una parte, quindi, indecifrabilità del presente e della sua direzione; dall’altra, frattura irreversibile nel rapporto con il passato e ciò che gli conferiva senso. Che le due cose vadano insieme, è difficile negare. Ma è anche difficile non riconoscere in tutto ciò i lineamenti della Fine: un paesaggio noto che viene meno, non sostituito da uno nuovo, secondo una dinamica che si può leggere alla luce delle indagini di Ernesto De Martino sulla Fine del mondo. Per il campo della narrativa, di recente è apparso uno studio di Bruno Pischedda dal titolo La grande sera del mondo. Romanzi apocalittici nell’Italia del benessere(Aragno, 2004); ma i riflessi della “crisi” sulla poesia, che nel nostro paese è stata sempre il sismografo più sensibile dell’evoluzione e involuzione socio-antropologica (proprio la poesia di Zanzotto lo testimonia), non sono, naturalmente, di ordine immediato, né di ovvia interpretazione. Neanche Testa si avventura in facili diagnosi; è tuttavia interessante quanto egli osserva di passaggio:
II
Oltre il dopo s’intitola una sezione dell’ultima raccolta di Eugenio De Signoribus, Trinità dell’esodo (Garzanti, 2011): libro che sull’argomento ora evocato, riportato ai suoi cardini etici, ha qualcosa di pertinente da dirci. La figura di un viandante-bambino affronta infatti in Oltre il dopo, che nella raccolta occupa una posizione centrale (in senso architettonico e semantico), un percorso di nitido stampo allegorico, il cui fulcro è il tema del rinnovamento (o meglio, della sua difficile conquista), inscindibile da quello dell’onnipresenza del negativo, assunto nei suoi termini più assoluti e deflagranti. Paradigmatica la stanza d’avvio (I):
Produce una cenere che soffoca e induce a morire.
Se una parola di verità concede la grazia di resistere,
essa, allo stesso tempo, è una semina.
Pur restando gli stessi, si è nuovi. Più radicalmente
nuovi tanto più radicale è stato il pensiero del morire.
L’apertura di Oltre il dopo pone il tema della sezione, formata da dodici stanze. I termini del poemetto sono squadernati nella loro amplissima portata, in un recitativo tutto all’indicativo ed entro un nesso apocalisse/utopia che sarà poi declinato, lungo le stanze successive, in una serie di passaggi o «stazioni» dominate dall’incertezza, dalla sofferenza e dal confronto con uno sfondo aspro e desolato: «rovi» e rovine (la «casa diruta», II), un «luogo senza contorni» (II). Il sonno del bambino-viandante a sua volta è come un franare e scivolare in «gole di neve» e «cupole di vetro» (III): tutto al di qua del possibile risveglio. La «neve» – leitmotiv che ricorre in altre parti del libro – è un gelido coperchio che tutto nasconde e immobilizza: una dimensione senza qualità, propria del tempo attuale, estensivo e totalizzante ma senza progetto. Di seguito, ecco «un deserto infinito di templi» che non reca tracce «delle folle che vi confluirono» (IV), finché si giunge al «padiglione “Dopo il tempo”» di una «Esposizione Universale del tempo a venire» (IV-V), in cui incontriamo «barcollanti disorientati», «volti / di sopravvissuti e inermi», «ma anche piccole schiere / di strafottenti guasconi o annoiati studenti» (V). Il viaggio del bambino continua, forzato il portone impenetrabile che accoglie «dispersi» e «rinascenti», diventando discesa e nekuya, odissea archeologica nel tempo (VII):
stratificate e trasparenti. Più impervie dei sette
strati sotto cui fu ritrovato il cimiero di Ettore.
Forse settanta i territori riconoscibili come evi diversi,
eppure eguali le tracce domestiche… A separarli,
densi bordi di polvere nera, dove sono mostrati,
in bacheche inespugnabili, resti umani, piccole ossa
scheggiate, anelli oculari, punte di lance o frecce
in sé ritorte, libri e pergamene con sangue raggrumato, che,
a fissarlo, pare ancora sciogliersi e scolarti incontro…
e specchietti rotti, effigi di sacrifici cruenti o di visi
sorridenti, sempre più sgraniti nel progressivo scendere
sui fronti…
Le cosiddette civiltà si distinguono non per le forme
di vita ma per gli strumenti di morte.
È il seme, incancellabile –
sembianze. Essi hanno ripercorso tutto il male
del genere adulto. E ora lo lasciano come un abito
da smettere per sempre.
Se lo avvolgi a una pietra, questa sanguina.
Come si può fare perché non abbia radici?
Qualcuno ha brividi, qualcuno vomita ancora al solo
pensiero di ciò che è stato. Qualcuno piange
in silenzio: sa che ci furono vite esemplari,
minime e massime, nei mancanti all’appello della propria
coscienza… ma non sono bastate a fermare i crescenti
barbari e la pronta moltitudine degli asserviti, i draghi
delle finanze e i nuovi capi incarniti in quei corpi
numerici, indifferenti vaticini di morte…
(All’improvviso, egli rivede il bianco lenzuolo coprire
il volto di suo padre e pare di colpo un albero scosso
da un’interna bufera: il pianto dirotto fatto persona)
direzione. Sono solidali nel ripartire. Camminano liberati
sulla cresta dei colli e osservano l’intorno, il di là.
Decidono infine di scendere verso una valle a forma
di nave.
Quando la neve sarà sciolta, chiaramente si vedrà ciò
che è rimasto.
Ma nessuna cosa sarà ricostruita com’era.
Nessuna legge sarà più la legge.
Tutto sarà immaginato di nuovo.
Inizio del 22° secolo dopo Cristo.
In Trinità dell’esodo c’è tutto questo, a dare sostanza ad una parola, esodo, di per sé inflazionata e ambivalente, la cui radice biblica torna ora a essere vitale, a sollecitare domande ultimative, esigenti. Così il significato trova la sua forma e la forma accoglie la sfida di una denotazione che mostra, che sospende la parabola in un futuro ulteriore ma, chissà, già in cammino (non per noi: per chi verrà, risvegliato e nuovo come non sappiamo essere). Nel finale verso e periodo tornano a coincidere: l’istanza affermativa è lasciata libera di dire la mutazione, l’utopia dimenticata che chiama dagli strati del tempo. Essa è nominata nell’ultimo testo del libro, come in epigrafe:
il tuo volto nell’oltre mi traduce
in quel corso ogni vero ritraluce
prima del chiaro o prima che sia spento
Non c’è contraddizione tra le stanze allegoriche di Oltre il dopo e le loro sobrie cadenze, e il lavoro sulla lingua che, da sempre, caratterizza i versi di De Signoribus, e su cui la critica ha molto insistito. Tra le torsioni linguistiche e le modulazioni metriche catturate e insieme straniate, per via di ellissi e di mimesi, dalla tradizione, e le parti più discorsive, oggettivanti e prosastiche (ma di lega nobile e non senza interne tangenze) di Trinità dell’esodo il tratto di continuità, a livello superiore (quale organizza il senso, nell’articolazione del libro), è da ravvisare nell’idea-immagine della «controvoce», il sostrato impastato di suoni informi, invocazione e silenzio di chi è esposto al male ed è cancellato dall’ordine del giorno stilato dai vincitori di sempre, grido inespresso di cui la poesia si fa carico. Qui individuale e plurale, esistenziale e sociale, infanzia e maturità s’incontrano. Il male patito riecheggia con un accento collettivo, penetra la musica franta dei testi, dettando la pronuncia dei distici e delle altre brevi sequenze che s’impuntano sulle rime e sono pronti a vibrare al primo passaggio, a inquietare il lettore perché s’arresti sulla pagina, provi ad essere altro. Ogni litania è una intimazione a vigilare, un appello a non farsi catturare: da chi? Da legioni in marcia a ritmo incalzante, di armata notturna, giù lungo i secoli, inneggianti “così è”? Dai fantasmi di noi stessi, o dai simulacri che ci occupano la mente? Comunque sia, Oltre il dopo interviene a designare un orizzonte comune, una direzione. C’è bisogno di un futuro diverso, tocca a quei bambini ricordarlo.
Qualcosa di analogo – quanto a compresenza e interazione poesia/prosa nella compagine di un medesimo libro – avveniva Nel passaggio del millennio di Ronda dei conversi, e altrove. Anche l’immaginario che presiede al viaggio del bambino – figura intrinseca alla poesia di De Signoribus – riprende movenze e scenari, o meglio “topoi”, propri dell’autore. Qui però non importa la ricognizione dei precedenti. Chi vuole ripercorrere l’itinerario di De Signoribus può farlo leggendo l’“Elefante” di Garzanti che raccoglie la sua produzione fino al 2008 (Eugenio De Signoribus, Poesie 1976-2007), dov’è anche una accurata Antologia della critica: utile per ricordarci, tra l’altro, come sin dall’esordio la sua poesia abbia trovato accoglienza presso lettori d’eccezione come Giovanni Giudici e Fernando Bandini. Già quell’inaugurale riconoscimento, da parte di poeti che appartengono alla tradizione più prestigiosa del secondo Novecento, basterebbe a collocarlo in linea di continuità con la ricca storia che l’ha preceduto, la cui vitalità è per fortuna assai superiore alla cadaverizzazione compiutane dalla critica. Vero che in quell’“Elefante” non è compresa la plaquette del 2002 Memoria del chiuso mondo (Quodlibet), che rappresenta un punto importante della produzione dell’autore: la Nota della raccolta garzantiana infatti avverte che «i libri, non altro» entrano nelle Poesie, mentre ne sono esclusi «i versi d’occasione o d’adesione, magari compiuti ma non entrati nel respiro dell’opera» (p. 7).
Quel che andrebbe indagato e sottolineato, però, è il significato politico dell’aperta svolta allegorica inserita nel cuore di Trinità dell’esodo, che non s’intende appieno senza Ronda dei conversi, certo, ma anche senza Memoria del chiuso mondo. La nuova belligeranza globale e lo sprofondamento nel sanguinoso impasto del tempo sono due versanti di una esperienza che tocca il rimosso dell’ideologia corrente. Questa prevede che la diseguaglianza e la sopraffazione, la mistificazione e l’umiliazione siano considerati un dato di natura, che la morte celebra trionfalmente ogni giorno: homo homini lupus. Ed è per questo, infine, che allegoria e utopia tornano a parlare, l’una strumento e voce dell’altra. All’uscita di Ronda dei conversi, Emanuele Zinato ha spiegato bene il motivo dell’importanza del lavoro di De Signoribus:
1 E. Zinato, Ronda dei conversi, in «Poesia», XIX, 203, marzo 2006.