Ricordo di Gianni Volpi
Sergio Toffetti

Quella tra Gianni e me può essere definita “un’amicizia ironica”. Fatta di punzecchiature, battute, disincantate vanterie delle cose che, di volta in volta, ci trovavamo a fare, talvolta, su “fronti cinefili” se non proprio rivali, almeno paralleli.

Più giovane di una decina d’anni, io l’ho conosciuto prima sulle pagine di «Ombre rosse»: da allievo a maestro. E diventarne amico, un po’ alla volta, anno dopo anno, è stato una sorta di percorso a tappe. Anche se Gianni non era un maestro avaro di sé, ma dimostrava ai più giovani una disponibilità franca e aperta a «dare e perdere del tempo» consigliando e ascoltando.

Pernso di averlo incontrato la prima volta nello studio di Gianfranco Torri, che di «Ombre rosse» era il grafico, e con cui, nel 1970, iniziavo a collaborare al Collettivo Cinema Militante di Torino. O forse, nello stesso anno, a casa di Paolo Hutter, in occasione di un seminario tenuto da Goffredo Fofi in vista della nuova serie “politico-movimentista” di «Ombre rosse»: dove Goffredo parlò, quasi ininterrottamente, per ore ed ore lanciandosi un’ardita sintesi del ruolo dell’intellettuale da Socrate a se stesso. Insieme con i più scapestrati – diciamo i meno “organici” – a una certa ora mi ritrovai a giocare a pallone nel piazzale della Ferrero, e con noi, Gianni, capace di puntualizzare ogni dribbling, ogni passaggio improvvisato o studiato, con trascinante verve autoironica.

Del resto, negli ultimi anni, Gianni era solito vantarsi di un solo complimento: quello con cui l’amico di sempre, Paolo Bertinetti, gli aveva dedicato la sua raccolta di prose di Becket per Einaudi: «A Gianni, talento cristallino». Dove l’esplicito riferimento calcistico agli esordi di Gianni Volpi nelle formazioni giovanili della Juventus: nessuno è perfetto! fu il mio commento, da vecchio granata, quando mi raccontò questo pezzo della sua storia personale.

Ma il talento di Gianni, davvero cristallino lo era anche nella capacità di guardare il cinema, intuendo alla prima visione, cose che io non riuscivo a vedere. Parlando con lui di film appena visti – al di là della “cultura sedimentata” che entrambi ci portavamo dietro, mi pareva ogni volta di capire che cos’è un “critico”, che cosa significa saper penetrare con lo sguardo dietro lo schermo, sotto la superficie del racconto; insomma, parlare di cinema con Gianni – grande narratore orale – mi faceva capire in concreto che cosa voleva dire Serge Daney quando parlava delle “due porte” da cui si può entrare nel cinema: quella da cui passano tutti, e una da cui si entra da soli. Solo che Gianni, in realtà, era capace di entrare al tempo stesso da entrambe, mantenendo un saldo legame con la “comunità spettatoriale”, senza tuttavia rinunciare all’originalità di sguardo.

Poi, in realtà, i nostri gusti erano spesso differenti. Western a parte, ma anche lì, io (sempre un po’ più “positivamente” reazionario di lui) ero fordiano, mentre Gianni inguaribilmente hawksiano. Amavo stuzzicarlo sminuendo alcuni di quei “cineasti del negativo” che difendeva dai tempi di «Ombre rosse», e che a me sono sempre parsi «maestri di capolavori troppo rari» come Losey o Huston; oppure – ancora in uno dei nostri ultimi incontri, collocando il suo Lattuada in un ideale Pantheon del cinema italiano, molto al di sotto di Comencini, Risi e Monicelli. Ma per spiegarne la “cristallinità” dello sguardo, mi basta concentrarmi in un esempio singolarmente adatto a questa sede.

Un paio d’anni fa, per la presentazione a Torino dei documentari di Franco Fortini, sia quelli militanti sia quelli scritti per l’industria, invitai oltre a Luca Lenzini, anche Gianni, per una ragione di affetto personale, poco pertinente con la serata: quando preparavo la tesi in estetica sul Surrealismo, Gianni mi aveva prestato La verifica dei poteri (all’epoca introvabile) per leggere quel che ne scriveva Fortini.

Dopo aver ricordato i suoi vari incontri con Fortini e Goffredo, Gianni focalizzò il suo intervento su un’osservazione sorprendente: «La messa in pagina del commento di Fortini a Scioperi a Torino di Paolo Gobetti, ci fa capire, anche graficamente, che si tratta di un componimento poetico in versi sciolti». Ed è esattamente come suonano tutti i testi di commento ai film scritti da Fortini. È evidente, dopo che Gianni ce lo ha enunciato. È questo il “talento cristallino” che gli ho sempre invidiato.

Noi due, però, l’ultima volta abbiamo parlato d’altro. Dei figli, della mia, Virginia, che cerca la sua strada finita la maturità; dei suoi e di Emanuela: Sandro l’architetto, e Alice che aveva appena tradotto Remorques, il romanzo di partenza di un bel film di Jean Gremillon.

Loro stavano lì con noi, e Gianni se li guardava sorridendo.