Ricondurre tutto alla ragione. L’idealismo duttile di Ernesto de Martino.
Intervista a Renato Solmi
Maura Franchi
Solmi, si ricorderà, pubblicò nel maggio 1952, sulla rivista «Il Mulino», un saggio dal titolo Ernesto de Martino e il problema delle categorie.1 In esso Solmi si proponeva di chiarire il complesso legame tra l’antropologo napoletano e la tradizione crociana, alla luce di quella interessante transizione che veniva a collocarsi tra le prime indagini sul naturalismo dell’etnologia e le ricerche presentate ne Il mondo magico (1948) – transizione segnata dall’entrata in gioco del marxismo, e ovviamente non priva di fortissime frizioni teoriche («Ma non è possibile richiamarsi a Marx senza fare un falò dei massimi principi del trascendentalismo (idealistico o meno), e delle categorie soprastoriche anzitutto», avvertiva Solmi nel suo saggio), eppure ampiamente significativa perché sintomo di un originale tentativo di elaborazione sintetica e di rifondazione di un’ottica storicistica davvero radicale (ancora Solmi, quasi a incalzare: «Il trascendentalismo è l’ancora segreta che trattiene lo storicismo idealistico nei porti della vecchia metafisica»), nel novero della quale de Martino sembrava stimolare una proficua problematizzazione.
L’intervista che segue ripropone il tema di un’inaggirabile appartenenza di de Martino alla storia dell’idealismo. Nello stesso tempo apre a forme di interrogazione sul legame con altri riferimenti filosofici e contestuali. Il laboratorio culturale della Fine del mondo offre la possibilità di un approfondimento paziente di tali nessi. Da traghettatore del pensiero di Adorno in Italia, Solmi si interroga sulle letture francofortesi dell’antropologo napoletano, in particolare sulla conoscenza di Minima moralia, pubblicato da Einaudi nella sua traduzione nel 1954. A conferma di una lettura che sembra essere sicura, Daniel Fabre, nel suo saggio introduttivo a La fine del mondo,2 riferisce di una lettera di de Martino a Solmi, che quest’ultimo nell’intervista sembra non ricordare, nella quale la conoscenza della raccolta adorniana (e della densa prefazione solmiana) è certificata e datata all’epoca del viaggio in Romania nel 1955, effettuato per documentare i lamenti funebri. La lettera è dell’11 ottobre di quello stesso anno. Vi si legge: «Nel corso di un interminabile viaggio in Transilvania (dove le nevi stentano a sciogliersi) ho letto finalmente Adorno e la tua prefazione: ne riparleremo a voce». Si tratta di una traccia che resta attiva nell’immenso mare dei riferimenti messi in campo dall’esperienza intellettuale di de Martino. Da rilevare, nell’enfasi della parentetica, un richiamo in forma di omaggio al titolo di un testo di Solmi uscito in quello stesso anno su «Nuovi Argomenti», «Diffugere nives»? Sul «Disgelo» di Il´ja Erenburg,3 a sua volta prestato da un verso di Orazio (Hor. Carm. iv, 7, 1: Diffugere nives, redeunt iam gramina campis).
A tal proposito, si impongono come interessanti le annotazioni dell’intervistato sull’“irrazionalismo” di de Martino, che, diversamente da quanto sostenuto da interpreti prossimi a un’interpretazione precettistica del marxismo, pare nella lettura di Solmi più legato a una condizione stessa della modernità (e dell’idealismo come forma speculativa del moderno) che a un influsso dovuto a certune tradizioni filosofiche poco affini al materialismo (poi supposte garanti di un suo allontanamento dalla dimensione storicistica e marxista, che invece permaneva in modi aperti e dialettici, come nel caso di tanti altri esponenti della sinistra culturale del tempo). De Martino resta per Solmi un intellettuale segnato dalla verifica permanente del concetto e degli strumenti teorici, e quindi sempre aperto alla complessità delle sollecitazioni culturali, mai solo e soltanto peninsulari. È forse in questo senso che va letto l’interesse multiforme per talune esperienze di pensiero e, in particolare, per la letteratura dissonante e conflittuale di stampo esistenzialistico (Sartre e La nausea in testa), da Solmi evocato nell’intervista che segue. Nella quale si riconsegna al lettore, se non un ritratto convinto, una domanda su quella particolare congiuntura, feconda di contraddizioni, tra idealismo di marca crociana e storicismo materialista, tra spunti esistenzialistici e domande completamente nuove, da cui ancora emerge il contrassegno di un pensiero in tutto e per tutto moderno, sul quale, come si legge nelle intenzioni dei curatori della Fine del mondo, è da svolgere di continuo un lavoro di storicizzazione e di riattualizzazione (ovviamente, non pacificata).
In un dibattito sul libro incompiuto di de Martino, le note su La fine del mondo, uscito su «Quaderni storici» qualche anno fa, Carlo Ginzburg citava un passo della Dialektik der Aufklärung che presentava analogie impressionanti col modo in cui de Martino impostava il problema della presenza umana nel mondo e della sua storia. Tu, che insieme hai conosciuto da vicino de Martino e sei stato un promotore della conoscenza in Italia dell’opera di Adorno e Horkheimer, sai se de Martino conoscesse il loro lavoro?
Il riferimento alla cultura tedesca era forte in de Martino, per una duplice ragione: in primo luogo per l’ambiente crociano di formazione, in secondo luogo per il campo «specialistico» dei suoi studi. Non credo tuttavia che conoscesse la Dialektik der Aufklärung, non tanto e non solo perché venne tradotta in italiano solo dopo la sua morte (nel 1966), ma perché allora era quasi introvabile anche in tedesco. L’edizione del 1951 era esaurita e venne ripubblicata solo nel ’68-69. Tra parentesi, la traduzione italiana dovette subire la «censura», operata da Horkheimer, di molteplici passi, ad es. quelli sulla chiesa cattolica o quelli troppo palesemente «marxiani»: passi che furono poi ripristinati nella successiva riedizione tedesca, uscita già in clima «sessantottesco».
Certo, nella Dialektik ci sono molteplici passi sul processo di formazione del «sé» (sia nell’analisi dell’Odissea sia negli aforismi della parte conclusiva), che presentano forti analogie con la tematica e il pensiero di de Martino. Avevo già avuto occasione di notarlo nell’introduzione all’edizione italiana dei Minima moralia, uscita nel 1954. («In Dialektik der Aufklärung, e, in forma sparsa e allusiva, anche nei Minima moralia, appaiono spunti di una concezione che presenta molte affinità con quella sostenuta da un nostro studioso di storia delle religioni, Ernesto de Martino, in un libro che avrebbe meritato maggiore notorietà.4 Si tratta, per dirla in breve, dell’origine storica del sé, o della presenza individuale»).
È possibile che de Martino, incuriosito da questo riferimento, abbia poi visto i Minima moralia, anche se non mi pare che li citi. Ma in realtà questi temi – e anche temi ancora più tipicamente «demartiniani» ad essi legati – si trovano già in Hegel: e in opere che de Martino certamente conosceva (se non altro perché la traduzione italiana dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche era stata curata personalmente da Croce) e alle quali fa riferimento esplicito.
Appunto nell’Enciclopedia, e in particolare nelle sezioni dell’«Antropologia» dedicate all’«anima naturale» e all’«anima senziente», Hegel parla della fase di formazione ancora incompiuta del Selbst, di una sorta di fase aurorale della coscienza, in cui i confini del «sé» sono ancora non ben definiti. Su questo possono innestarsi fenomeni «magici» (come il magnetismo), in cui «l’individualità del suo se stesso è un soggetto diverso da lui, che può essere anche come altro individuo». Hegel parla in termini di storia dello spirito, non di fasi storiche specifiche; ma appunto per questo il riferimento che ne deriva è molteplice. Si può cioè vedervi il «mondo magico» di de Martino e il ruolo dello sciamano; così come vi è il riferimento a fasi dello sviluppo naturale dell’uomo («la condizione del bambino nel ventre materno»), ma anche al possibile ricadere dell’uomo pienamente sviluppato e individualizzato in questa condizione «primitiva» del Sé: è il caso della malattia, della follia.
Hegel è molto esplicito sulla realtà di questi fenomeni, ma in un’ottica che non ha nulla in comune con tendenze romantico-irrazionalistiche, che assegnano a tali fenomeni un valore politico, superiore. Per lui corrispondono a una fase iniziale, embrionale, dello sviluppo del Sé o alla ricaduta in essa.
Appunto a questo proposito: aspetti del pensiero di de Martino, come l’insistenza sulla realtà dei poteri magici, hanno spesso dato adito a «sospetti di irrazionalismo»…
Credo che valga per de Martino quello che ho detto per Hegel. L’apparente «irrazionalismo» di de Martino rientra perfettamente nella logica del pensiero idealistico. Da quel punto di vista, non c’è niente di strano che si possa postulare uno stadio storico, ma anche ideale e quindi potenzialmente ricorrente, in cui all’incompetenza dell’Io corrisponde una «illegalità oggettiva» della natura. De Martino dall’inizio alla fine del suo lavoro è rimasto su queste posizioni.
L’«irrazionalismo» di de Martino non è una deviazione dalla matrice idealistica da cui proviene, ma una sua logica conseguenza. Lukács l’avrebbe definito, un pensatore rimasto nell’ambito dell’idealismo borghese, con venature irrazionalistiche. Però non c’è in lui nessuna concessione a forme di irrazionalismo misticheggiante o simili. De Martino anzi si propone di ricondurre tutto alla ragione, e fa bene, l’errore sta nel modo in cui cerca di attuare questo compito.
Quindi de Martino rimarrebbe sostanzialmente tutto interno all’ambito filosofico idealistico (contrariamente alle speranze che tu esprimevi in un lontano articolo del 1952).5 Come si collocano, in questa luce, i suoi rapporti, che sono comunque presenti e significativi, con altre correnti filosofiche come il marxismo e l’esistenzialismo?
È vero che de Martino è rimasto sempre sostanzialmente un idealista. Il suo modo di trattare i problemi dell’epoca magica prescinde da un’analisi materialista del processo di formazione dell’uomo, quale si può trovare – in senso lato – non solo in Marx o Engels, ma ad esempio nel Dewey di Experience and Nature. Per de Martino, l’uomo non diviene tale in quanto homo faber, ma perché la coscienza diventa unitaria, ecc.
Quando egli introduce fattori di ordine economico-sociale, questi sono solo la miseria che porta situazioni di precarietà esistenziale tali da mettere in rischio la presenza: l’elemento economico-sociale compare dunque solo come «fattore di rischio» e non come elemento costitutivo, fondante nella presenza. La «pre-istoria» di de Martino è tutta idealistica. Forse anche in Hegel troviamo maggior ricchezza di spunti «materialistici» in proposito: comunque l’impianto è lo stesso, anche se de Martino non si riferisce esplicitamente a Hegel, e se Hegel non fa la storia dell’uomo primitivo e delle sue forme di società ma la storia di una fase, di un momento dello spirito.
Tutto ciò non significa negare l’estrema importanza del riferimento di de Martino al marxismo: che però non è tanto un riferimento teorico (su questo piano, i riferimenti e le utilizzazioni sono limitati, anche alle opere che più direttamente riguarderebbero la sua materia), quanto di impostazione della ricerca, di modo di rapportarsi all’oggetto della ricerca. In questo senso, il marxismo conta per lui più come «teoria della liberazione» e come analisi delle classi subalterne, che come impianto filosofico generale. E segna una svolta profonda nel suo lavoro. Esso gli ha permesso una verifica diretta di quelle che prima erano considerazioni puramente filosofiche, elaborate a contatto con Croce da un lato e con gli altri antropologi dall’altro. L’esperienza di impegno nel movimento operaio e socialista del primo dopoguerra è stata probabilmente decisiva. A partire da tutto questo, il rapporto con i «primitivi» era stabilito di persona in forma non più puramente scientifico-filosofica, in cui il soggetto resta separato dall’oggetto, ma in una forma almeno teoricamente esistente di possibilità di collaborazione su un progetto comune. E questo è stato decisivo nello sviluppo del suo pensiero. È un salto nettamente avvertibile dal livello puramente teorico al contatto più diretto con la realtà.
Più difficile per me cogliere fino in fondo la portata del riferimento all’esistenzialismo. È possibile che nell’ultima sua opera, che non conosco a sufficienza, tale riferimento emerga in modo più significativo. Prescindendo da questa, però, esso mi sembra per così dire «strumentale» in un duplice senso. Un primo significato è molto immediato, di politica culturale: rientra nello spiccato «senso pratico» di de Martino, per cui egli utilizzava interessi, aperture, disponibilità di certi ambienti culturali, che in questo caso erano ambienti culturali del nord, quali quelli legati alla scuola di Banfi, Paci o di Abbagnano, o l’ambiente culturale di «Comunità», ecc., mentre l’ambiente culturale meridionale-crociano da cui proveniva era per certi versi più chiuso ai suoi interessi di ricerca. Non a caso, egli pubblica da Laterza solo la sua prima opera, poi si rivolge «al nord». Egli rimaneva sostanzialmente crociano, ma capiva che la sua ricerca poteva trovare un’eco maggiore in altri ambienti, sia pure a prezzo di un sostanziale equivoco, da lui in qualche modo riconosciuto e quasi favorito, anche se senza nessuna concessione di fondo sul piano teorico.
Ciò vale, in particolare, per il rapporto con l’esistenzialismo e la fenomenologia «italiani», nelle loro varie forme. Ma vi è un senso più generale in cui si può definire «strumentale» il suo rapporto con l’esistenzialismo: e cioè il fatto che vi ritrova un linguaggio adatto, efficace, per esprimere una parte della sua problematica, e lo utilizzava spregiudicatamente.
Riassumendo, a me pare che per de Martino il crocianesimo resti la matrice filosofica mai rinnegata, il marxismo sia una esperienza storica decisiva (in cui egli, come altri intellettuali, è riuscito almeno teoricamente a porsi «dal punto di vista di un’altra classe») e l’esistenzialismo sia un linguaggio, un campo problematico che egli usa, però traducendolo e «riparametrandolo» continuamente nel suo impianto filosofico idealistico.
[«il manifesto», XV, 115, 23 maggio 1985, inserto «la talpa giovedì» dedicato a Ernesto de Martino vent’anni dopo, p. 3 non numerata]
1 R. Solmi, Ernesto de Martino e il problema delle categorie, in «Il Mulino», maggio 1952, ora ristampato alle pp. 51-61 dell’imponente Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata, Quodlibet, 2007.
2 E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2019, p. 56, n. 24.
3 R. Solmi, «Diffugere nives»? Sul «Disgelo» di Il´ja Erenburg, in «Nuovi Argomenti», 14, maggio-giugno, 1955, pp. 64-85, ora incluso in Id., Autobiografia documentaria, cit., pp. 143-159.
4 E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino, Einaudi, 1948.
5 R. Solmi, Ernesto de Martino e il problema delle categorie, cit.