Michail Ajzenberg, Poesie scelte (1975-2011), trad. dal russo di Elisa Baglioni, Transeuropa, Massa 2013.
La duplice natura del moscovita Michail Ajzenberg (1948) – tra i maggiori poeti russi viventi e tra i maggiori critici militanti viventi – potrebbe indurre al sospetto: di rado una palese vocazione lirica va a coniugarsi armonicamente con la disposizione chiarificatrice propria all’indagatore di poetiche altrui. È, invece, il caso dell’autore in questione, ma secondo una specie di linea di proporzionalità inversa, che – semplificando e sgrossando – vuole tanto delucidante l’Ajzenberg-critico quanto cifrato l’Ajzenberg-poeta. La stessa, talentuosissima, curatrice del volume, del resto, parla di «creazione di immagini dense, impreviste ed enigmatiche», che sono la croce e la delizia del lettore. I testi ajzenberghiani, infatti, somigliano a perfette traduzioni da un importante originale di cui, persino allo stesso poeta(-traduttore), siano miracolosamente pervenuti soltanto i lacerti. Da quello stesso lettore (e da quello stesso traduttore), però, spira sempre un senso di “cripticità” necessaria, mai un atteggiarsi a poeta oscuro, a manierista del difficile. La via privata, sotterranea o subacquea, percorsa da Ajzenberg è infatti dettata da un bisogno di recuperare la capacità di “poetare” a una lingua sfibrata dall’uso della retorica ufficiale, spesso pomposa e “desemantizzante” (anche in parte negli stessi poeti dell’establishment), quale si dava in epoca tardo-sovietica (anni Settanta, per lo più). Impegnato, quindi, non tanto nella resa dell’indicibile quanto del dicibile, Ajzenberg procede per effrazioni di favella dal vuoto, coordinandole attorno a due poli: una solida impalcatura metrico-rimica e una vigorosa riconoscibilità di tono. Talvolta, addirittura, si ha l’impressione che la musica della poesia ajzenberghiana si regga, appunto, su scheletri di intonazione rivestiti di polpa verbale e che, a ogni brano di “membra” così edificate, corrisponda un altrettale sollievo fisico nel poeta stesso, una avvisaglia di guarigione corporale per vie linguistiche. C’è, insomma, un nesso evidente tra l’emissione di parole e un liberatorio moto di espirazione, come parrebbe testimoniare la seguente lirica-manifesto, dalle esplicite implicazioni metaletterarie:
Per liberarsi d’un fiato.
Non filtrare parole.
Non fasciare d’ovatta.
E non ardere come il fuoco fatuo della pratica intellettuale.
No, non sono di grande valore culturale.
Non sono un uomo di cultura.
Sono un uomo di nostalgia.
Oh, nostalgia.
Mia unica arma.
Eterna vibrazione,
che fa crepa, da lungo attesa,
sul mattone dell’esistenza.