Tema del libro di Italo Testa, Autorizzare la speranza, è la centralità dell’utopia, dell’istanza utopica nella poesia, anche quando essa nasca originariamente da un trauma o dalla percezione di una mancanza. C’è nella poesia una tensione al compimento delle cose incompiute, come avrebbe detto Walter Benjamin, in modo che ciò che nella storia è avvenuto (il dolore) non sia, e ciò che non è avvenuto finalmente si compia (la felicità). In questa immagine di sogno vive la speranza di una completa individuazione che ecceda la menomazione e l’oppressione che l’esperienza subisce nell’ordine esistente, il desiderio che essa superi la frammentarietà e giunga alla pienezza che le è stata negata. La poesia vorrebbe rendere perfetta la singolarità delle cose e delle vite e proietta nel futuro l’utopia della loro completa realizzazione.
La felicità è la perfezione, l’acme di una singolarità irripetibile, il suo giungere pienamente a se stessa e palesa nelle cose lo «splendore della loro caducità» (p. 26). Testa definisce questa condizione come «individuazione radicale», seguendo una indicazione di Paul Celan, la facoltà di cogliere il colore unico, l’essenza specifica di un ente. La speranza coesiste con la consapevolezza che questa perfezione non si dà nel presente, non si è data nel passato, perché nel tempo storico ha prevalso il potere e la sua imposizione della servitù e del dolore. La poesia si muove dunque tra la tensione verso la felicità di ogni ente e il riconoscimento della traumaticità dell’esperienza, e sempre l’una insieme con l’altro. Negli interventi che mi hanno preceduto si è parlato di antinomie che sono proprie della poesia: questi due poli sono appunto un’antinomia costitutiva, necessaria. Probabilmente la realizzabilità della perfezione a cui aspira il vivente rimarrà sempre parziale, sempre un’approssimazione infinita, come è proprio di ogni utopia, e come ha sottolineato Rino Genovese in un suo libro recente:1 ma questa tensione resta ineliminabile e reale e indispensabile all’umano in quanto tale.
Nel libro di Testa c’è un costante confronto tra poesia e filosofia, di cui viene rilevata la differenza. Se il pensiero mira all’universalità del giudizio, la scrittura lirica invece alla singolarità dell’esperienza e alla sua esposizione immaginaria. Ma tra di essi non c’è solo opposizione: nella modernità soprattutto l’uno fa attrito sull’altra. Nel libro di Testa, che già in sé alterna pensiero critico e versi, la poesia, che coglie quell’unicum del vivente che è irriducibile al concetto, sporge verso di esso e viceversa la riflessione critica tende come a incorporarsi e concretarsi nell’immagine poetica. Anche perché, come ha detto Testa nella sua introduzione, oggi la filosofia non dispone di categorie interpretative che possano pretendere di descrivere esaustivamente la realtà che abbiamo di fronte, incerti come siamo tra un mondo che scompare e un altro che si annuncia. D’altra parte sentiamo la necessità di un’espressione che prefiguri in qualche modo un’alterità rispetto alla crisi che stiamo vivendo: il pensiero non è più in grado di compiere questa anticipazione, e allora la poesia risponde a questo bisogno di trascendimento dell’esistente, esaltandone come abbiamo detto le singolarità ora incompiute. Il desiderio di felicità che è interno alle cose ma che non può essere espresso in un concetto universale, viene da essa rappresentato in forma singolare, riferendosi alle esperienze e alle vite nella loro specificità irriducibile.
Questa è la giustizia poetica, per come la intende Testa. Essa non si riferisce a un concetto astratto e generico di giustizia, ma è appunto quel che prima abbiamo chiamato individuazione assoluta, compimento della singolarità; che non investe però soltanto ciò che di essa ci appare attualmente in superficie, ma anche il fondo e la matrice dei possibili in essa contenuti e latenti, mai completamente esauribili. La poesia riattiva dunque, intensificando la singolarità, la sua metamorfosi. L’oggetto della poesia viene riconosciuto come fondo potenziale, non come dato statico di fatto. È perciò che Testa insiste sulle somiglianze e sulla metaforicità che caratterizzano l’esperienza poetica, e rinviano in modo incessante da un ente all’altro, scoprendo un movimento dionisiaco di affinità; la quale è l’opposto di una identità, perché pone un rapporto tra due enti che hanno però uno scarto differenziale e una individuazione assoluta specifica. Sono le corrispondenze che, come già diceva Baudelaire, attraversano la rete del mondo.
Per noi questa riattivazione della metamorfosi ha un particolare significato, perché la poesia, dal punto di vista mediatico o dell’industria culturale, ha certo oggi un ruolo decentrato e marginale, e tuttavia insostituibile e prezioso. Essa risponde a una profonda esigenza del nostro tempo in sospeso, che è quella di cercare o almeno di immaginare nuovi possibili. Una vocazione dell’oltre che si esprime bene in un verso di Fortini citato da Testa: «Quanto limpida luce orna il colore/delle ombre del mondo» (p. 38). È un’esigenza non astratta, interna all’esperienza che stiamo vivendo. In effetti la poesia è l’unico linguaggio che in questo momento tenti di dare espressione ai possibili, che, come abbiamo detto, i concetti non riescono ad esprimere compiutamente. La poesia, se non ha importanza mediatica, risponde però a un profondo bisogno morale, psicologico, ontologico, se cerca di inclinare la necessità al possibile.
Testa insiste sull’importanza di una metrica del respiro, un tema che ha una fonte in Paul Celan, che ha spesso parlato del respiro, del suo ritmo e delle sue sospensioni, che si comunicano alla ritmica poetica, e ha scritto in una lettera di una «poesia lirica non musicale»: che segue un ritmo interno, non una sonorità tradizionale, e tuttavia non rinuncia a una scansione metrica, che traduce ed esprime la sostanza corporea della scrittura e non cade in uno sperimentalismo astratto che distruggerebbe l’aspetto ritmico e mimetico. Il “lirico” è la traduzione del proprio respiro fisico nel verso. La scansione metrica rimane dunque fondamentale anche se comporta una inevitabile estetizzazione. La poesia è in bilico tra questi due poli, non può non esserlo. Se vuole tradurre il respiro del corpo, che poi non è solo quello proprio, ma anche quello collettivo, non può evitare la scansione del respiro e del verso, seppure questa in una certa misura estetizzi la sofferenza. È il problema di Adorno, di cui avete tutti parlato prima di me. Testa discute la sua nota affermazione, per cui dopo Auschwitz non sarebbe più giustificabile scrivere poesie. In realtà si dovrebbe piuttosto cercare una nuova forma, un linguaggio in bilico tra l’espressione del dolore e la traccia di una felicità possibile: la poesia come una pausa fra il trauma e l’immagine di sogno. Il che non vuol dire dimenticare la ferita da cui la poesia parte, ogni volta cercando una soluzione singolare, specifica per indicare questa situazione sospesa.
Nella seconda parte del libro, Testa considera l’importanza che ha per la poesia oggi il terzo paesaggio, quei luoghi ibridi in cui l’urbanizzazione, anche nei suoi spazi periferici e desolati, conserva tuttavia uno spazio di sopravvivenza della natura, in forme residuali, esili ma tenaci: forme di resistenza come i fili d’erba che nascono fra le rotaie dei treni, di cui è simbolo l’ailante, che Testa ricorda in una intensa poesia:
ospiti invadenti
delle sterpaglie,
voi dolci, minacciosi
appostati sui greti
tra le ripe in attesa
attorti ai tralicci,
fitti e sinuosi
tramanti nell’aria,
ailanti luminosi. (p. 67)
In paesaggi industriali o postindustriali si aprono questi segni di resistenza della natura, che assumono un valore simbolico, correlativo oggettivo di una tensione utopica, come si vede bene anche in un’altra poesia di Testa, Transit Marghera:
si alzano appena
sui vagoni cisterna
fermi al binario
dietro la fincantieri
si accende il cielo
tra le torri e i silos
di un rosa acido
per noi, stupefatti
oggi come ieri
e assonnati nel transito (p. 87).
L’utopia non si rappresenta per noi in idilli crepuscolari e nemmeno nei grandi centri urbani: Testa la ricerca negli oggetti già quasi desueti del paesaggio industriale fordista di Marghera, e la intende come un risveglio dal sonno in cui stiamo vivendo con scarsa consapevolezza un transito decisivo del nostro tempo. Sono forme estreme di resistenza all’estetizzazione di massa che rischia per altro di invadere pure il terzo paesaggio e che – con un termine di Anders, che Testa prima ha citato – potremmo definire un esserci-ancora-appena: e tuttavia insistono a ricordarci che un’alterità rispetto all’esistente è possibile. Così come Celan usava spesso l’espressione stehen, stare, continuare a essere nonostante tutto, anche nei paesaggi devastati della modernità.
R. Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Macerata, Quodlibet, 2023.