Per una rilettura
delle Canzonette del Golfo
Francesco Diaco

La terza parte di Composita solvantur – ultima raccolta fortiniana, edita da Einaudi nel 1994 – è costituita, come è noto, dalle tanto dibattute Sette canzonette del Golfo.1 Si tratta di una sezione particolarmente controversa, in quanto il riferimento alle crudeltà della Prima Guerra del Golfo – ossia alla grande Storia e agli eventi politico‑militari internazionali – non solo viene giustapposto senza soluzione di continuità a scenette private e banalmente quotidiane, ma soprattutto viene filtrato e straniato attraverso un tono volutamente leggero e ironico.

Il termine “canzonetta”, pertanto, va preso proprio alla lettera, cioè nella sua accezione tecnica, essendo un’allusione all’“ode‑canzonetta”, forma metrica che dal Settecento arcadico (Chiabrera, Rolli, Metastasio) passa, poi, a Parini e a buona parte dell’Ottocento (Foscolo, Manzoni). Il lettore, così, si trova di fronte alla spaesante imitazione di «‘canzoncine’, testi ‘leggeri’, cantabili e fatti per essere cantati»;2 in più, queste poesie fortiniane indossano per l’occasione una veste iperletteraria, facendo sfoggio di un’intertestualità vasta e lussureggiante. Insomma, come velatamente compendiato dal titolo, non si potrebbe immaginare un contrasto più stridente tra lo stile adottato in questi componimenti e le atrocità belliche che essi esplicitamente richiamano. In questo modo, Fortini crea deliberatamente un dispositivo ambivalente, ricercando un effetto di “difficile semplicità” da maneggiare con estrema cautela. Passiamo, dunque, a una lettura più ravvicinata di questi componimenti.

Il primo testo (CS 528), formato da tre strofe pentastiche di ottonari, sciorina subito un bagaglio retorico che consta di rime facili, ecolalie, diminutivi ed esclamative:

Ah letizia del mattino!
Sopra l’erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s’affida al ventolino.

[…]
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l’ora linda che gli piace.

In questi versi, l’autore mette in scena un personaggio tragicomico, un “tipo” teatrale che sostituisce l’io lirico abituale. L’anziano locutore, come le «lucertole»3 immobili «sul muretto», passa le giornate a riscaldarsi al «sole»: la vecchiaia, quindi, pare sinonimo di ripiegamento nel privato. Attraverso una melodiosità che attinge, probabilmente, ad alcuni ipotesti settecenteschi,4 l’autore disegna un idillio casalingo e appartato; ciononostante, è possibile cogliere alcuni piccoli segnali di inquietudine, per quanto attutiti e collocati sullo sfondo («Lontanissime sirene | d’autostrada»; «qualche danno | alle pere già mature»). Il componimento successivo (CS 528), invece, ricorrendo a un montaggio implicitamente giudicante, tematizza lo scarto tra la crudeltà del conflitto iracheno – così distante da sembrare irreale – e l’esistenza (relativamente) tranquilla degli occidentali:

Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.

Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!

Il poeta, che pure vorrebbe in qualche modo prestare aiuto a quelle «genti indifese», è impotente e relegato in una posizione marginale. Tuttavia, il rammarico per la debolezza e la vanità del proprio impegno letterario è espresso dal locutore in doppi senari a rima baciata, creando un effetto di dissonanza e reciproca corrosione tra forma e contenuto. Ad ogni modo, la chiusa del testo, amaramente disforica, svela il volto straziato che si nasconde dietro la patina musicale dei distici (come evidenziato dalla rima inclusiva):

Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.

Ancora meno divertito e svagato appare CS 530, sonetto (a schema abba, abba; cde, ecd) che denuncia gli «empi o rei disegni» orditi dagli «imperatori dei sanguigni regni», truculenti e inarrivabili come divinità pagane a cui tutto sia permesso («guardali come varcano le nubi | cinte di lampi»). Oltre ad adottare una forma chiusa, Fortini attua qui un’efficace congiunzione tra deformazione espressionistica ed esasperazione classicistica: il lessico arcaizzante («orbe», «occidui») e la sintassi intricata da anastrofi e iperbati («irte scagliano schiere di congegni») rafforzano, infatti, la violenza rabbiosa delle allitterazioni e di una fisicità spinta fino a una macabra disarticolazione corporea («vedi femori e cerebri e nei segni | impressi umani arsi rappresi grumi»). Di conseguenza, risulta particolarmente duro il contrasto tra le quartine, incentrate sull’orrore di questa visione infernale, e le terzine, che indugiano sulla «pace» in cui vive il soggetto:

Noi bea, lieti di poco, un breve riso,
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.

Se, anche qui, non mancano affatto le allusioni intertestuali – soprattutto a Foscolo, ma forse pure a Tasso5 –, sono proprio la religione laica dell’arte e la fiducia umanistica nella cultura a essere messe in crisi dal bruciante accostamento appena delineato. Similmente, in CS 531 la memoria stilistico‑lessicale di Pascoli si lega, per antifrasi, a una sotterranea e malinconica demistificazione del «panismo naturale»6 tipico del periodo fin de siècle. Fermandosi a una lettura letterale, si potrebbe tranquillamente sostenere che, in quest’ultimo testo, il ciclo delle stagioni relativizzi il valore del tempo storico: «Le battaglie di popoli estrani | che mai sono in confronto all’eterno, | all’eterno degli ippocastani»? Persino la preghiera affinché il «bene» trionfi sul male – formulata, nella seconda strofa, da una ragazza «graziosa» e «annoiata» – non fa altro che associare i crimini compiuti «sui campi cruenti» del Golfo Persico alla «bruma ostinata» che vela il panorama. Gli ultimi due versi, però, si chiudono su un’interrogativa che lascia un retrogusto acre e angosciato, suggerendo la possibilità di una lettura antifrastica dell’intero componimento: «Ma è domenica, è marzo: non senti | che un altr’anno, e il suo peggio, svanì?». Una volta «passato l’inverno | fra clamori terribili e vani», torna finalmente la primavera, coi suoi nuovi «germogli»; ciononostante, nulla è cambiato nella società e nella politica contemporanee. Tra le righe, allora, si intuisce che è il sempre‑eguale della “preistoria” umana a preoccupare l’io, così come la disarmante superficialità di una compassione e di un interessamento ridotti a un commento assonnato, pronunciato – ancora «in pigiama» – «sul terrazzo» di casa. Non sorprenderà, quindi, che l’ultima delle canzonette – pur non ripudiando la ritmata facilità dei versi parisillabi e la riconoscibilità delle rime – infranga definitivamente la già inattendibile quiete domestico‑bucolica che circolava nella sezione. Questo testo, infatti, propone un’abbastanza evidente similitudine tra l’agonia di «una limaccia», avvelenata dall’anziano locutore dedito al giardinaggio («metaldèide in grigi grani | fai che inghiotta; e a globo stretta | plasma e anima rimetta»,7), e quella, ormai prossima, del soggetto stesso:

Lento a dèi crudeli e ignoti
va il mio bruno ultimo fiele…
Dove volgi, ansia fedele?
A che vomito mi voti,
cara meta che non so?

La serie, quindi, si chiude con due interrogative che – nonostante la cantabilità da filastrocca dello schema metrico – non solo descrivono l’imminente morte con un linguaggio crudamente fisico e timbricamente cupo, ma soprattutto ribadiscono la fedeltà dell’io a uno Streben utopico ancora lancinante, a dispetto dell’incertezza e del disorientamento dominanti.

A questo punto, occorre svolgere alcune riflessioni sul senso complessivo delle Canzonette, considerandole sia nelle loro peculiarità sia nel contesto dell’intera raccolta. Come prima cosa, allora, bisogna ricordare che, all’interno di Composita, esiste una palinodia di questo esperimento (CS 573):

Considero errore aver creduto che degli eventi
(«meglio non nominarli!» mi soffiano i piccoli dèi)
di questo ʼ91 non potessi parlare o tacere
se non per gioco, per ironia lacrimante.

I versi comici, i temi comici o ridicoli
mi parvero sola risposta. Come sbagliavo!
Ho guastato quei mesi a limare sonetti,
a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.

Chi mai potrà capire che tempo fu quello? Credevo
scendere in un mio crepuscolo. Ahi gente! Invece
altro era, incomprensibile e senza nome. Guardavo

la luna di aprile sullo Eichhorn, a mezzanotte,
e la stellina d’oro dello Jungfraujoch, Disneyland.
(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare).

Il locutore, qui, spiega il proprio ricorso a un’«ironia lacrimante» con una ragione biografica, ovvero con un’erronea sensazione di «crepuscolo» e declino. Retrospettivamente, però, egli compie una condanna delle proprie scelte precedenti. Non sarà casuale, allora, che lo stile di questa ritrattazione sia radicalmente diverso da quello delle Canzonette: niente versi cantabili e niente rime, solo cadenze prosastiche e movenze saggistiche. Ciononostante, questo appunto metapoetico è comunque espresso in versi, anzi in una forma che – per quanto irregolare – allude graficamente allo schema del sonetto. In più, esso è collocato nell’Appendice di light verses e coesiste con il proprio bersaglio polemico, che non viene affatto espuntodalla silloge in seguito a questo ripensamento.

In secondo luogo, è opportuno precisare che «anche nelle Canzonette […], come nel Falso vecchio, c’è un filtro, un percettibile diaframma tra io poetico e punto di vista dell’autore»;8 in Composita, però, lo schermo ironico ha decisamente incrementato il proprio spessore rispetto ai tempi di Questo muro (1973). Lungo tutta la sezione, quindi, l’io autoriale indossauna maschera, modulando la propria pronuncia attraverso la voce di un personaggio teatrale e accingendosi ad abbandonare i costumi di scena solo nei versi conclusivi dell’ultima canzonetta. I tratti di questa figura sono quelli di un poeta anziano che si accontenta di piccole soddisfazioni quotidiane; la senilità, cioè, viene ritratta come una «condizione diminuita», come un «restringimento d’orizzonte senza acquisto di saggezza».9 Questi elementi rispondono a due ordini di motivazioni. Da un lato, essi lasciano trasparire la sofferenza – realmente patita da Fortini – per una vecchiaia che è sinonimo di solitudine ed espulsione dall’impegno politico diretto. Sotto il tintinnare delle rime, infatti, il lettore avverte spesso un autentico rammarico per questo esilio e per questa debolezza, cui si associa talvolta qualche accenno di cedimento alla fascinazione di thanatos.10 D’altro canto, però, questa stilizzazione non è che una sofisticata strategia di comunicazione indiretta e en travesti: «fra leggerezza ironica esplicita e tragedia storica implicita si apre uno scarto non ricomponibile».11 In questo modo, ogni «‘Arcadia’ privata» è mostrata in tutta la sua meschina e fragile limitatezza, ogni «‘appagamento’ solipsistico»12 è proposto solo per essere sotterraneamente confutato. Insomma, «il fondamento tragico della poesia fortiniana non può» mai «essere rinnegato»;13 lo dimostra, tra l’altro, un testo inedito risalente anch’esso al 1991, in cui l’adozione delle soluzioni stilistiche tipiche delle Canzonette va di conserva alla confessione del doppio fondo doloroso da cui nasce l’artificio di regressione appena descritto:

Camminando per il parco, come faccio, lentamente,
mi sono, certe idee, venute in mente:

«Questa nostra vita», dico, «è di giorni oscuri e brevi.
Però è più fitta di quanto credevi.

Nostra vita è di giorni scarsi e pochi.
Meglio passarla in allegrezza e giochi.

Nostra vita è di giorni incerti e corti.
Meglio viverla da vivi che da morti.»

«Perché mai», chiedono, «rimi queste rime senza sale?»
«Perché il resto», rispondo, «fa male».14

Tuttavia, questa «ebetudine procurata»,15 questa posa da «falso‑ingenuo» e da «finto‑tonto»,16 è in verità utilizzata da Fortini per fare il verso – e, così, criticare – al potere imbonitore e all’«onnipervasività dei mezzi di informazione. Impossibile una notizia non mediata dai media; il sole sorge ormai per volontà del bollettino meteorologico».17 Il poeta, quindi, vuole imitare e demistificare «lo stato generale di dimenticanza e l’obnubilamento indotto»18 da televisioni e giornali. Dal momento che la coscienza viene sapientemente assopita e che tutti gli occidentali vivono, ormai, in uno stato di permanente dormiveglia, risulta particolarmente graffiante il ricorso, nelle Canzonette, a «moduli quasi da nursery rhymes».19. In una parola, queste amarissime ninna‑nanne mirano a condannare «la perfezione raggiunta dalla obliterazione del reale» al principio degli anni Novanta:

Non so se i filosofi e gli storici (soprattutto francesi e ameri­cani) che negli scorsi anni hanno teorizzato l’inesistenza dei «fatti» in nome delle «narrazioni» si sono resi conto dello straor­dinario contributo apportato alla loro disciplina dagli uomini del generale Schwarzkopf. L’effetto di de‑realizzazione ha raggiunto un grado così elevato che si potrebbe, fuori di metafora, dire che nel 1991 non c’è stata nessuna guerra ma solo la sua narrazione o invenzione […]. La vita è sogno e i giornalisti sognano per noi.20

Le Canzonette, inoltre, possono essere viste come una mimesi polemica della condizione monadica in cui versa la società contemporanea: al giorno d’oggi, infatti, nessuno sembra davvero interessato alle sorti dei «destini generali» – avvertiti come distanti o incontrollabili –, mentre ognuno riconosce valore esclusivamente alle proprie ambizioni personali e al rapporto con la ristretta cerchia di “altri significativi”. Si è smarrita, cioè, la fiducia nella trascendenza e in quella visione unitaria degli eventi che costituiva la forza dell’interpretazione comunista del reale: «È andato perso il senso della storia: al di là della morte […] individuale non ci importa nulla».21 Non a caso, anche il campo del sapere viene parcellizzato e affidato ai cosiddetti “esperti”, ossia spezzettato in una miriade di micro‑analisi specialistiche che non comunicano tra loro e non pervengono mai a ricomporre delle interpretazioni vaste e sintetiche.22 Viceversa, se si guarda con più attenzione alle Canzonette, si può dire che – per quanto in forma stravolta, rovesciata e paradossale – Fortini adoperi ancora quel “punto di vista della storia universale” e quel principio del montaggio che lo hanno a lungo contraddistinto. In più, quando vuole, l’intellettuale fiorentino sa essere così crudamente sarcastico da non lasciare adito a ulteriori equivoci: «le Canzonette del Golfo sono del 1991. In quell’anno, oggi quasi fatta dimenticare, una operazione di ‘polizia’ tra il Golfo Persico e Bagdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo una nuova era nelle relazioni internazionali».23

Come ultimo punto, si vorrebbe infine ipotizzare una lettura delle Canzonette come percorso di attraversamento e di superamento del Postmodernismo. In questi testi, difatti, l’«elemento decisivo è la mediazione letteraria»,24 nel senso che non si capirebbe nulla se si ignorasse – o se si rimuovesse deliberatamente – il loro carattere, appunto, intertestuale e citazionistico. Questo fenomeno, tra l’altro, si inserisce appieno nell’ambito della tendenza di Composita alla «commistione di stili»,25 forme e registri differenti. Se, per un verso, questo fatto non è che l’ultimo ed estremo affioramento di un’inveterata vocazione al manierismo, la tecnica adottata nelle Canzonette sembra davvero porsi all’altezza dei tempi e guardare al campo letterario coevo, nella misura in cui il «recupero‑riuso dell’eletta tradizione, spesso accompagnato in passato da un tono severo e ‘drammatico’ […], è qui accompagnato da un tono […] parodico».26 In questa sezione, insomma, Fortini si serve largamente di procedimenti tipicamente postmoderni quali il pastiche, «la mescolanza incongrua delle imitazioni e dei modelli»,27 la contaminazione dei generi, il gioco con gli stereotipi e il riutilizzo di una letteratura ripiegata su se stessa.

Ciononostante, è quasi scontato rammentare come Fortini sia ferocemente avverso alle teorie che predicano la fine della «storia» e la riduzione del mondo a «testo», ossia l’appiattimento della realtà su «una bidimensionalità indolore»:28 «Non c’è pubblicistica che negli ultimi anni non ci abbia assicurato che i fini sono finiti, che le “grandi narrazioni”, come le chiamano, ovvero fiabe, sono concluse e che gli uomini debbono accettare la “perdita del centro”».29. Parallelamente, egli avversa la tecnica postmoderna secondo la quale «i dati del passato, la tradi­zione, e non solo, ma soprattutto gli apporti di culture diverse»30 sono ridotti a un immenso «repertorio» a cui attingere non col bruciante «“balzo di tigre” di cui parlò Benjamin» ma con un «soffice salto di micio».31 In questo modo, tutta la cultura viene trasformata in un immenso supermarketglobale dove è possibile «disporre di tutto»32 e acquistare indifferentemente qualsiasi prodotto:

oggi esiste tutta un’area della sensibilità artistica […] che ha rimossa o abolita la dimensione storica e quindi […] il valore della citazione, dell’e­co, e, persino […], di ogni cosciente diacronia […]. Inutile rammentare come questo sia venuto innanzi […] nel nostro secolo: due esperienze apparentemente opposte, quella di D’Annunzio e quella di Pound erano state convergenti nella trasformazione del passato […] in un magazzino di trovarobe, dove tutto fosse, nel medesimo tempo, compresente e inautentico. Ma più di mezzo secolo è stato necessario perché tutta la storia, la letteratura, il pensiero, l’arte umana fossero a disposizione, «normalizzati» come in una enciclopedia o memoria elettronica. C’è, naturalmente, qualcosa di terribile in tanta volontà di lobotomia dal passato […]. Quel che vi è di terribile […] è […] l’enorme ingombro della memoria storica ridot­ta, per così dire, a infiniti corpuscoli di eguale peso‑du­rata.33

Se «la immobilità […] distruttiva del tardo capitalismo […] ha re­se possibili e utili al suo sistema le attuali ideologie che […], con­tro ogni pericolosa conflittualità, invocano pluralismo e giustapposizione avalutativa»,34 la scrittura critica fortiniana esercita, viceversa, la pratica della memoria selettiva, ricercando sempre il contenuto di verità delle opere e formulando delle gerarchie in base a un giudizio di valore. In altre parole, l’intellettuale fiorentino respinge il principio falsamente avalutativo del «todos caballeros»,35 così come stigmatizza la diffusione del pensiero debole e del nichilismo morbido, in gran voga negli anni Ottanta‑Novanta.

Perché mai, allora, Fortini inserisce tatticamente alcuni stilemi postmoderni nella propria ultima silloge? La ragione è da ricercare nella lettura duplice, anzi propriamente dialettica, che l’autore dà di questa temperie storico‑culturale, pur condannandola così aspramente. In primo luogo, infatti, egli vi scorge una paradossale potenzialità, dovuta al suo carattere instabile e provvisorio, quindi – in un certo senso – propedeutico e preparatorio: se le opere del Postmodernismo «sono dei funghi, che crescono nell’ombra, e sono un po’ repellenti […], tuttavia è chiaro che cercano di predisporre il terreno […], sono concime ad altro».36 È per questo che, in Composita, Fortini si decide a utilizzare il materiale che la contemporaneità gli mette a disposizione, per quanto degradato esso sia:

Penso alle rovine degli ultimi anni e mi accorgo che […] i nostri orribili mali possono essere sfruttati al meglio. Fino a poco tempo fa l’immagine della nostra civiltà che mi scorreva davanti agli occhi era quella di una città in fiamme o perdutamente distrut­ta: Hiroshima o Troia. Enea che fugge portando con sé solo i beni supremi, il figlioletto e il padre. Poi ho capito che la mia era una visione estremista – extrema, appunto. Oggi io so che tra le rovine si possono cercare pietre, stracci, frammenti e ricomporre un’altra architettura, secondo un altro disegno, che non sarà mai del tutto nuovo, però comunque diverso.37

In secondo luogo, Fortini scorge nella scrittura postmodernista un’ammissione – sottintesa e quasi involontaria – di vanità e d’insufficienza, nel senso che la presa d’atto della marginalità dell’arte comporta anche la definitiva liquidazione delle generose illusioni sul potere contestatore della dimensione estetica. Il mutamento del mondo, se mai avverrà, sarà quindi dovuto alla prassi, all’azione degli uomini, e non certo alla sola, impotente, protesta dei versi:

La poesia non sarebbe più, come pretende da due secoli, l’antagonista del mondo, se cultura e memo­ria non fossero che uno sterminato catalogo poliglotta dei pezzi di ricambio per le metamorfosi e i simboli della libido, un «Lego» combinatorio fondato sulla cer­tezza che l’Impero ha ancora qualche secolo di vita […]. In forme irriconoscibili, si adempireb­be così persino un mio profondo e antico desiderio: che per vincere ilmondo, o esserne vinti, ci dovesse venire in aiuto qualcosa di diverso, o di più, della poesia.38

Di conseguenza, è possibile cogliere nelle Canzonette la ripresa distanziata e polemica – dunque modernista più che postmoderna – di alcuni tra i più celebri autori della letteratura italiana; anzi, questi «modelli esemplari» vengono a tal punto «amplificati e esasperati, quasi stereotipati», che «un’intera tradizione lirica sembra […] implodere per eccesso denunziando la sua congenita falsità e inutilità».39 In altre parole, Fortini recupera, qui, alcuni dei topoi canonici di cui si nutriva la nobile educazione umanistica al solo fine di demistificare ogni orgoglioso culto della parola, svelandone l’intrinseca vacuità.

Riassumendo, con le Canzonette l’autore assorbe sì alcuni principi stilistico‑costruttivi tipici del Postmodernismo, ma lo fa allo scopo di distruggerne l’implicita ideologia, coincidente con quella “logica del tardo capitalismo” accuratamente descritta da Fredric Jameson.40 L’uso fortiniano delle forme chiuse e dell’intertestualità, lungi dall’abdicare a una prospettiva diacronica, è in realtà volto a straniare sarcasticamente il linguaggio dei mass media e a denunciare la dorata inanità della poesia. Persino quando imita Metastasio e indossa la maschera del vecchio inebetito, Fortini non intende né ritirarsi nel privato, né arrendersi al leggero disimpegno cui sembravano invitarlo le circostanze storiche e quelle biografiche.

Note

1 Nel corso dell’articolo sono state adoperate le seguenti sigle per indicare le opere di Franco Fortini: PS = Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, CS = Composita solvantur; queste raccolte vengono citate da Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2014; NSI = Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987; UDI = Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Infine, AFF = Archivio Franco Fortini (Biblioteca di Area umanistica, Università degli Studi di Siena).

2 P.G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 112. Un possibile precedente è rintracciabile in PS 432, dove troviamo settenari, rime vicine e diminutivi («Via, | via di lì, stupidino!»).

3 Cfr., circolarmente, la «lucertola» di CS 533.

4 In particolare, la critica ha rimandato a La primavera di Metastasio (M. Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e “grande politica” fino a «Composita solvantur», «allegoria», VIII, 21-22, 1996, p. 53). Non è impossibile, però, che Fortini abbia tenuto presente anche Le nozze di Parini, come suggerito da varie somiglianze metriche, rimiche e lessicali.

5 Cfr. L. Carosso, La «salita» senza «paradiso» di un poeta civile, «allegoria», VIII, 21-22, 1996, p. 65 e M. Polacco, Fortini e i destini generali, cit., pp. 56‑57.

6 Ivi, p. 58. La studiosa propone numerosi e acuti riferimenti al poeta di Barga, però non cita due probabili ipotesti, cioè Pervinca, da cui Fortini riprende la rima inclusiva «pervinca»:«vinca», e L’assiuolo, da cui potrebbe derivare la rima tronca in -ù.

7 Cfr. CS 505. È plausibile, tra l’altro, che Fortini intendesse riecheggiare e desublimare la «traccia madreperlacea di lumaca» del Piccolo testamento montaliano: «lenta bava perse lenta | che di lunga e liscia traccia | porri o sedani segnò» (cfr. E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 275).

8 L. Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata, Quodlibet, 2008, p. 236.

9 Ivi, p. 234.

10 Cfr. CS 532, «Sì, d’aprile il dormire è cosa bella», risemantizzazione disforica del proverbio popolare «aprile, dolce dormire».

11 E. Zinato, Il dente della storia. Figure animali nella poesia di Fortini, «Hortus», VIII, 16, 1994, p. 25.

12 L. Carosso, La «salita» senza «paradiso», cit., p. 66.

13 L. Lenzini, Stile tardo, cit., p. 236.

14 AFF, scatola XXX, cart. 10, c. 224. Il componimento è organizzato secondo uno schema di distici a rima baciata; i versi, però, presentano irregolarità sillabica, molto probabilmente a causa dello stato di elaborazione del testo.

15 L. Carosso, La «salita» senza «paradiso», cit., p. 63.

16 Ivi, p. 62.

17 F. Fortini, L’ospite ingrato. Primo e secondo, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1056.

18 L. Lenzini, Stile tardo, cit., p. 235.

19 Ivi.

20 F. Fortini, Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma, manifestolibri, 1998, pp. 230‑31.

21 F. Fortini, Il dolore della verità. Maggiani incontra Fortini, a cura di E. Risso, Lecce, Manni, 2000, p. 58.

22 Cfr. F. Fortini, Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1985, pp. 184-92.

23 CS 581, N.d.A.

24 M. Polacco, Fortini e i destini generali cit., p. 56.

25 L. Lenzini, Stile tardo cit., p. 236.

26 L. Carosso, La «salita» senza «paradiso» cit., p. 63.

27 M. Polacco, L’intertestualità, Roma‑Bari, Laterza, 1998, p. 23.

28 NSI 354.

29 F. Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 234.

30 UDI 494.

31 NSI 252.

32 UDI 494.

33 NSI 361-62.

34 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p. 60.

35 F. Fortini, Breve secondo Novecento, in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1786.

36 UDI 494.

37 Ivi, p. 603.

38 NSI 253. Cfr. anche F. Fortini, Lettere a Mengaldo, AFF, scatola XVII, cart. 66, c. 14, p. 2: «Influenzato dai decostruzionisti, un giovane […] mi spiegava […] che ogni conflitto è verbale e che tutta la realtà è parola o segno ossia sogno […]. So che non è vero però il mondo che ci circonda si comporta come lo fosse. Non sono dunque tanto “colpevolmente” […] omesso dalla opinione corrente anzi con qualche ragione. Posso essere letto […] solo se la vita non è sogno. Però […] bisogna che la vita cessi di poter essere creduta sogno, non basta né dirlo né volerlo, bisogna farlo».

39 M. Polacco, Fortini e i destini generali, cit., p. 59.

40 Cfr. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi Editore, 2007.