Il termine “canzonetta”, pertanto, va preso proprio alla lettera, cioè nella sua accezione tecnica, essendo un’allusione all’“ode‑canzonetta”, forma metrica che dal Settecento arcadico (Chiabrera, Rolli, Metastasio) passa, poi, a Parini e a buona parte dell’Ottocento (Foscolo, Manzoni). Il lettore, così, si trova di fronte alla spaesante imitazione di «‘canzoncine’, testi ‘leggeri’, cantabili e fatti per essere cantati»;2 in più, queste poesie fortiniane indossano per l’occasione una veste iperletteraria, facendo sfoggio di un’intertestualità vasta e lussureggiante. Insomma, come velatamente compendiato dal titolo, non si potrebbe immaginare un contrasto più stridente tra lo stile adottato in questi componimenti e le atrocità belliche che essi esplicitamente richiamano. In questo modo, Fortini crea deliberatamente un dispositivo ambivalente, ricercando un effetto di “difficile semplicità” da maneggiare con estrema cautela. Passiamo, dunque, a una lettura più ravvicinata di questi componimenti.
Il primo testo (CS 528), formato da tre strofe pentastiche di ottonari, sciorina subito un bagaglio retorico che consta di rime facili, ecolalie, diminutivi ed esclamative:
Sopra l’erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s’affida al ventolino.
[…]
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l’ora linda che gli piace.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
posare un mio fitto volume di versi?
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.
va il mio bruno ultimo fiele…
Dove volgi, ansia fedele?
A che vomito mi voti,
cara meta che non so?
A questo punto, occorre svolgere alcune riflessioni sul senso complessivo delle Canzonette, considerandole sia nelle loro peculiarità sia nel contesto dell’intera raccolta. Come prima cosa, allora, bisogna ricordare che, all’interno di Composita, esiste una palinodia di questo esperimento (CS 573):
(«meglio non nominarli!» mi soffiano i piccoli dèi)
di questo ʼ91 non potessi parlare o tacere
se non per gioco, per ironia lacrimante.
I versi comici, i temi comici o ridicoli
mi parvero sola risposta. Come sbagliavo!
Ho guastato quei mesi a limare sonetti,
a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.
Chi mai potrà capire che tempo fu quello? Credevo
scendere in un mio crepuscolo. Ahi gente! Invece
altro era, incomprensibile e senza nome. Guardavo
la luna di aprile sullo Eichhorn, a mezzanotte,
e la stellina d’oro dello Jungfraujoch, Disneyland.
(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare).
In secondo luogo, è opportuno precisare che «anche nelle Canzonette […], come nel Falso vecchio, c’è un filtro, un percettibile diaframma tra io poetico e punto di vista dell’autore»;8 in Composita, però, lo schermo ironico ha decisamente incrementato il proprio spessore rispetto ai tempi di Questo muro (1973). Lungo tutta la sezione, quindi, l’io autoriale indossauna maschera, modulando la propria pronuncia attraverso la voce di un personaggio teatrale e accingendosi ad abbandonare i costumi di scena solo nei versi conclusivi dell’ultima canzonetta. I tratti di questa figura sono quelli di un poeta anziano che si accontenta di piccole soddisfazioni quotidiane; la senilità, cioè, viene ritratta come una «condizione diminuita», come un «restringimento d’orizzonte senza acquisto di saggezza».9 Questi elementi rispondono a due ordini di motivazioni. Da un lato, essi lasciano trasparire la sofferenza – realmente patita da Fortini – per una vecchiaia che è sinonimo di solitudine ed espulsione dall’impegno politico diretto. Sotto il tintinnare delle rime, infatti, il lettore avverte spesso un autentico rammarico per questo esilio e per questa debolezza, cui si associa talvolta qualche accenno di cedimento alla fascinazione di thanatos.10 D’altro canto, però, questa stilizzazione non è che una sofisticata strategia di comunicazione indiretta e en travesti: «fra leggerezza ironica esplicita e tragedia storica implicita si apre uno scarto non ricomponibile».11 In questo modo, ogni «‘Arcadia’ privata» è mostrata in tutta la sua meschina e fragile limitatezza, ogni «‘appagamento’ solipsistico»12 è proposto solo per essere sotterraneamente confutato. Insomma, «il fondamento tragico della poesia fortiniana non può» mai «essere rinnegato»;13 lo dimostra, tra l’altro, un testo inedito risalente anch’esso al 1991, in cui l’adozione delle soluzioni stilistiche tipiche delle Canzonette va di conserva alla confessione del doppio fondo doloroso da cui nasce l’artificio di regressione appena descritto:
mi sono, certe idee, venute in mente:
«Questa nostra vita», dico, «è di giorni oscuri e brevi.
Però è più fitta di quanto credevi.
Nostra vita è di giorni scarsi e pochi.
Meglio passarla in allegrezza e giochi.
Nostra vita è di giorni incerti e corti.
Meglio viverla da vivi che da morti.»
«Perché mai», chiedono, «rimi queste rime senza sale?»
«Perché il resto», rispondo, «fa male».14
Le Canzonette, inoltre, possono essere viste come una mimesi polemica della condizione monadica in cui versa la società contemporanea: al giorno d’oggi, infatti, nessuno sembra davvero interessato alle sorti dei «destini generali» – avvertiti come distanti o incontrollabili –, mentre ognuno riconosce valore esclusivamente alle proprie ambizioni personali e al rapporto con la ristretta cerchia di “altri significativi”. Si è smarrita, cioè, la fiducia nella trascendenza e in quella visione unitaria degli eventi che costituiva la forza dell’interpretazione comunista del reale: «È andato perso il senso della storia: al di là della morte […] individuale non ci importa nulla».21 Non a caso, anche il campo del sapere viene parcellizzato e affidato ai cosiddetti “esperti”, ossia spezzettato in una miriade di micro‑analisi specialistiche che non comunicano tra loro e non pervengono mai a ricomporre delle interpretazioni vaste e sintetiche.22 Viceversa, se si guarda con più attenzione alle Canzonette, si può dire che – per quanto in forma stravolta, rovesciata e paradossale – Fortini adoperi ancora quel “punto di vista della storia universale” e quel principio del montaggio che lo hanno a lungo contraddistinto. In più, quando vuole, l’intellettuale fiorentino sa essere così crudamente sarcastico da non lasciare adito a ulteriori equivoci: «le Canzonette del Golfo sono del 1991. In quell’anno, oggi quasi fatta dimenticare, una operazione di ‘polizia’ tra il Golfo Persico e Bagdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo una nuova era nelle relazioni internazionali».23
Come ultimo punto, si vorrebbe infine ipotizzare una lettura delle Canzonette come percorso di attraversamento e di superamento del Postmodernismo. In questi testi, difatti, l’«elemento decisivo è la mediazione letteraria»,24 nel senso che non si capirebbe nulla se si ignorasse – o se si rimuovesse deliberatamente – il loro carattere, appunto, intertestuale e citazionistico. Questo fenomeno, tra l’altro, si inserisce appieno nell’ambito della tendenza di Composita alla «commistione di stili»,25 forme e registri differenti. Se, per un verso, questo fatto non è che l’ultimo ed estremo affioramento di un’inveterata vocazione al manierismo, la tecnica adottata nelle Canzonette sembra davvero porsi all’altezza dei tempi e guardare al campo letterario coevo, nella misura in cui il «recupero‑riuso dell’eletta tradizione, spesso accompagnato in passato da un tono severo e ‘drammatico’ […], è qui accompagnato da un tono […] parodico».26 In questa sezione, insomma, Fortini si serve largamente di procedimenti tipicamente postmoderni quali il pastiche, «la mescolanza incongrua delle imitazioni e dei modelli»,27 la contaminazione dei generi, il gioco con gli stereotipi e il riutilizzo di una letteratura ripiegata su se stessa.
Ciononostante, è quasi scontato rammentare come Fortini sia ferocemente avverso alle teorie che predicano la fine della «storia» e la riduzione del mondo a «testo», ossia l’appiattimento della realtà su «una bidimensionalità indolore»:28 «Non c’è pubblicistica che negli ultimi anni non ci abbia assicurato che i fini sono finiti, che le “grandi narrazioni”, come le chiamano, ovvero fiabe, sono concluse e che gli uomini debbono accettare la “perdita del centro”».29. Parallelamente, egli avversa la tecnica postmoderna secondo la quale «i dati del passato, la tradizione, e non solo, ma soprattutto gli apporti di culture diverse»30 sono ridotti a un immenso «repertorio» a cui attingere non col bruciante «“balzo di tigre” di cui parlò Benjamin» ma con un «soffice salto di micio».31 In questo modo, tutta la cultura viene trasformata in un immenso supermarketglobale dove è possibile «disporre di tutto»32 e acquistare indifferentemente qualsiasi prodotto:
Perché mai, allora, Fortini inserisce tatticamente alcuni stilemi postmoderni nella propria ultima silloge? La ragione è da ricercare nella lettura duplice, anzi propriamente dialettica, che l’autore dà di questa temperie storico‑culturale, pur condannandola così aspramente. In primo luogo, infatti, egli vi scorge una paradossale potenzialità, dovuta al suo carattere instabile e provvisorio, quindi – in un certo senso – propedeutico e preparatorio: se le opere del Postmodernismo «sono dei funghi, che crescono nell’ombra, e sono un po’ repellenti […], tuttavia è chiaro che cercano di predisporre il terreno […], sono concime ad altro».36 È per questo che, in Composita, Fortini si decide a utilizzare il materiale che la contemporaneità gli mette a disposizione, per quanto degradato esso sia:
Riassumendo, con le Canzonette l’autore assorbe sì alcuni principi stilistico‑costruttivi tipici del Postmodernismo, ma lo fa allo scopo di distruggerne l’implicita ideologia, coincidente con quella “logica del tardo capitalismo” accuratamente descritta da Fredric Jameson.40 L’uso fortiniano delle forme chiuse e dell’intertestualità, lungi dall’abdicare a una prospettiva diacronica, è in realtà volto a straniare sarcasticamente il linguaggio dei mass media e a denunciare la dorata inanità della poesia. Persino quando imita Metastasio e indossa la maschera del vecchio inebetito, Fortini non intende né ritirarsi nel privato, né arrendersi al leggero disimpegno cui sembravano invitarlo le circostanze storiche e quelle biografiche.
Note
1 Nel corso dell’articolo sono state adoperate le seguenti sigle per indicare le opere di Franco Fortini: PS = Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, CS = Composita solvantur; queste raccolte vengono citate da Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2014; NSI = Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987; UDI = Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Infine, AFF = Archivio Franco Fortini (Biblioteca di Area umanistica, Università degli Studi di Siena).
2 P.G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 112. Un possibile precedente è rintracciabile in PS 432, dove troviamo settenari, rime vicine e diminutivi («Via, | via di lì, stupidino!»).
3 Cfr., circolarmente, la «lucertola» di CS 533.
4 In particolare, la critica ha rimandato a La primavera di Metastasio (M. Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e “grande politica” fino a «Composita solvantur», «allegoria», VIII, 21-22, 1996, p. 53). Non è impossibile, però, che Fortini abbia tenuto presente anche Le nozze di Parini, come suggerito da varie somiglianze metriche, rimiche e lessicali.
5 Cfr. L. Carosso, La «salita» senza «paradiso» di un poeta civile, «allegoria», VIII, 21-22, 1996, p. 65 e M. Polacco, Fortini e i destini generali, cit., pp. 56‑57.
6 Ivi, p. 58. La studiosa propone numerosi e acuti riferimenti al poeta di Barga, però non cita due probabili ipotesti, cioè Pervinca, da cui Fortini riprende la rima inclusiva «pervinca»:«vinca», e L’assiuolo, da cui potrebbe derivare la rima tronca in -ù.
7 Cfr. CS 505. È plausibile, tra l’altro, che Fortini intendesse riecheggiare e desublimare la «traccia madreperlacea di lumaca» del Piccolo testamento montaliano: «lenta bava perse lenta | che di lunga e liscia traccia | porri o sedani segnò» (cfr. E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 275).
8 L. Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata, Quodlibet, 2008, p. 236.
9 Ivi, p. 234.
10 Cfr. CS 532, «Sì, d’aprile il dormire è cosa bella», risemantizzazione disforica del proverbio popolare «aprile, dolce dormire».
11 E. Zinato, Il dente della storia. Figure animali nella poesia di Fortini, «Hortus», VIII, 16, 1994, p. 25.
12 L. Carosso, La «salita» senza «paradiso», cit., p. 66.
13 L. Lenzini, Stile tardo, cit., p. 236.
14 AFF, scatola XXX, cart. 10, c. 224. Il componimento è organizzato secondo uno schema di distici a rima baciata; i versi, però, presentano irregolarità sillabica, molto probabilmente a causa dello stato di elaborazione del testo.
15 L. Carosso, La «salita» senza «paradiso», cit., p. 63.
16 Ivi, p. 62.
17 F. Fortini, L’ospite ingrato. Primo e secondo, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1056.
18 L. Lenzini, Stile tardo, cit., p. 235.
19 Ivi.
20 F. Fortini, Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma, manifestolibri, 1998, pp. 230‑31.
21 F. Fortini, Il dolore della verità. Maggiani incontra Fortini, a cura di E. Risso, Lecce, Manni, 2000, p. 58.
22 Cfr. F. Fortini, Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1985, pp. 184-92.
23 CS 581, N.d.A.
24 M. Polacco, Fortini e i destini generali cit., p. 56.
25 L. Lenzini, Stile tardo cit., p. 236.
26 L. Carosso, La «salita» senza «paradiso» cit., p. 63.
27 M. Polacco, L’intertestualità, Roma‑Bari, Laterza, 1998, p. 23.
28 NSI 354.
29 F. Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 234.
30 UDI 494.
31 NSI 252.
32 UDI 494.
33 NSI 361-62.
34 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p. 60.
35 F. Fortini, Breve secondo Novecento, in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1786.
36 UDI 494.
37 Ivi, p. 603.
38 NSI 253. Cfr. anche F. Fortini, Lettere a Mengaldo, AFF, scatola XVII, cart. 66, c. 14, p. 2: «Influenzato dai decostruzionisti, un giovane […] mi spiegava […] che ogni conflitto è verbale e che tutta la realtà è parola o segno ossia sogno […]. So che non è vero però il mondo che ci circonda si comporta come lo fosse. Non sono dunque tanto “colpevolmente” […] omesso dalla opinione corrente anzi con qualche ragione. Posso essere letto […] solo se la vita non è sogno. Però […] bisogna che la vita cessi di poter essere creduta sogno, non basta né dirlo né volerlo, bisogna farlo».
39 M. Polacco, Fortini e i destini generali, cit., p. 59.
40 Cfr. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi Editore, 2007.