Per un canone realista.
Barthélemy Amengual
scrittore di cinema
(dalla parte di André Bazin)

Alessandro Cadoni

Forse il nome di Barthélemy Amengual (1919-2005) non dirà molto, oggi, al lettore o allo spettatore italiano: legato, com’è, a una stagione ormai trascorsa, quella d’una critica militante severa ma insostituibile, e di fatto insostituita, che ha condotto una serie di battaglie culturali importanti, certo non tutte condivisibili, tra il secondo dopoguerra e il tragico limine degli anni ’90. Il riferimento, naturalmente, va a Guido Aristarco e alla rivista Cinema Nuovo, della quale Amengual fu a lungo collaboratore.

A che giova riprendere in mano i suoi saggi? In un tempo avaro, direi avarissimo, di seria riflessione sullo stile, l’opera di questo impareggiabile saggista francese riporta a galla un legame possibile tra teoria e pratica critica, analisi dello stile e costituzione di un canone. C’è, tra le tante, una sua opera in particolare che riporta a questo orizzonte: Du réalisme au cinéma, edito da Nathan nel 1997.1 Parto da una constatazione: si tratta di un libro che corrisponde di per sé a un’operazione in funzione del canone critico. Nelle sue oltre mille pagine sono stati riuniti molti tra i più notevoli saggi brevi di Amengual, che ha saputo portare, nell’ambito degli studi sul cinema, questa forma della scrittura critica a un notevolissimo livello di compiutezza. Si pensi anche a chi ha operato, negli effetti del volume, tale scelta antologica (non d’autore, dunque), Suzanne Liandrat-Guigues, la curatrice, e Michel Marie, direttore di collana e autore di uno scritto introduttivo: si tratta di critici accademici interessati tanto alle teorie quanto al pensiero espresso attraverso il film: penso agli interessi di Liandrat-Guigues per il saggismo cinematografico e per il film-saggio, testimoniati da un’importante raccolta di saggi da lei curata (con Murielle Gagnebin), L’essai et le cinéma.2

Ora: basta questo interesse, diciamo così, autorevole, basta l’uscita di un’antologia come questa a far entrare un critico nel canone? Perché è fuor di dubbio che un Amengual non ha goduto della stessa fortuna di altri classici (pensiamo a Bazin, da lui stesso sentito assai vicino). In un certo senso, un’operazione editoriale del genere è un primo passo, cui deve seguire un riscontro e un approfondimento sul metodo. La figura di Amengual suscita ammirazione condivisa; eppure una seria riflessione è forse frenata dalla difficoltà di sistematizzare il suo pensiero, improntato a un pragmatismo testuale di natura materialista unito a una cultura umanistica di respiro non comune: e in più condito – critico di razza – da una scrittura di fine composizione, lessicale e sintattica, oltre che carica di immaginazione. Per inciso, il valore conoscitivo della scrittura in Amengual è confermato, se mai ce ne fosse bisogno, da una bella intervista della maturità in cui il critico, parlando della sua “giovinezza cinematografica” (era nato e s’era formato ad Algeri, dov’era vissuto sino al 1968, per poi spostarsi in Francia), ammette che, nella primissima «età della ragione», sui vent’anni, aveva tentato la via narrativa, scrivendo un romanzo, poi rimasto inedito.3 Ma è forse necessario fermarsi ancora un poco su questa «felicità della scrittura» (così Liandrat-Guigues nell’introdurre Du realisme au cinéma), ove nulla vi è di bellettristico, o di puramente formale. Lo spiega Hervé Joubert-Laurencin, in un intenso profilo parallelo di Bazin e Amengual:

la sua scrittura, prendendo vita dalla visione dei film, presuppone il cinema come una realtà inseparabilmente sensuale e intellettuale proiettata verso l’uomo. «La funzione del critico non è quella di portare su un piatto d’argento una verità che non esiste affatto, ma piuttosto quella di protrarre il più a lungo possibile in chi legge, sia a livello razionale che emotivo, lo choc dell’opera d’arte». [Questa definizione di Bazin] va al di là della semplice funzione del critico quotidiano o settimanale, o specialistico: dice qualcosa di profondo sul ruolo dello scrittore di cinema.4

Ciò detto, resta da chiarire quale sia il posto di Amengual nella storia della critica. L’attenzione, in Francia o in altri paesi francofoni, di critici come lo stesso Joubert-Laurencin o di François Albera aiuta a far luce.5 In più, una serie congiunta di convegni di studio organizzati tra 2010 e 2011 a Lausanne, Perpignan e Montpellier rinsalda la sua sistemazione nel canone critico. In Italia, però, sarà forse per la sua vicinanza con Guido Aristarco, ormai da tempo aprioristicamente relegato in soffitta, la sua opera è dimenticata se non pressoché sconosciuta. Un solo libro, Clefs sur le cinéma (1971), è stato tradotto, per Dedalo, proprio in una collana diretta da Aristarco (1981, Capire il cinema): anche se, come già accennavo, alla forma dello studio sistematico o tematico, comunque monografico, Amengual prediligeva la forma del saggio breve (ma son diverse le eccezioni, tra le quali si annovera ¡Que viva Eisenstein!, un monumentale volume sull’autore dell’Aleksandr Nevskij).6 Tuttavia, come dicevo, molti suoi scritti sono stati tradotti e pubblicati da Cinema nuovo (e prima ancora da Cinema), alcuni altri da Filmcritica, mentre Edoardo Bruno ha incluso un suo intervento nell’antologia da lui curata sulle Teorie del realismo.7

Ma che tipo di critico è Amengual? Nei suoi saggi l’argomentazione si distende su un ritmo analitico che rivendica eticamente l’attaccamento al testo. Si può rinvenire nel suo lavoro – ancora in parallelo ad André Bazin – uno dei primi esempi della moderna analisi del film. A un’erudizione di stampo accademico si uniscono il rifiuto di un a priori teorico e uno spirito militante – già notato da Michel Marie – che fanno di lui un critico aperto, attento com’è alle mutevolezze dell’humaine condition, unico dogma del suo pensiero. Per rispondere alla precedente domanda mi pare utile porsene un’altra: all’operazione di canone della critica sopra descritta – la pubblicazione della scelta antologica di saggi brevi – corrisponde una critica attenta al canone? Mi pare proprio che tale quesito trovi risposta positiva, rivelata implicitamente tra le linee dello stile argomentativo. Bisogna però specificare che Amengual non si pone mai come un’autorità che impartisce dall’alto: il giudizio di valore non è affatto rifiutato, ma è spesso da osservare nella filigrana di una scrittura carica di tensione conoscitiva, tra le righe dell’analisi, nel metodo e nella scelta dei temi di lettura piuttosto che in dichiarazioni esplicite e chiuse. Il suo non è un canone autoritario, ma piuttosto, in senso benjaminiano, una costellazione, dove i testi (i film) sono le stelle, i dati oggettivi, mentre al critico spetta il compito di tracciare i percorsi, secondo argomentazioni «chiare e dichiarate».8 Ciò che ne risulta è una sorta di biblioteca Warburg, una cineteca ideale dove i rapporti di vicinanza tra i film sono attraversati da linee di pensiero che ne mostrano, in un percorso di storia culturale ancora vitale, la loro importanza estetica e storica.

Andiamo allora a vedere queste linee di raccordo del canone amengualiano di testi e autori. La prima, che qui interessa particolarmente, è indicata nel titolo stesso della raccolta di saggi: il realismo, concetto troppo normativo, oppure per sua natura fluido e ambiguo, sacco onnicomprensivo in cui infilare, all’occorrenza, qualsiasi cosa, come ebbe a scrivere Roman Jakobson.9 Ma qual è, per Amengual, lo spazio della ‘realtà’ nella rappresentazione filmica? In che rapporto ci si pongono gli autori da lui presi in considerazione? Per tentare di arrivare a una prima verifica è opportuno, avendo a che fare con una gran mole di testi, selezionare un campione.

Sia un primo esempio l’analisi di Les Amants, il film del 1958 di Louis Malle. Amengual parte diretto, elencando una serie di «difetti» di cui il film è stato accusato: su tutti, la mancanza assoluta di coerenza estetica in una rappresentazione che peccherebbe di «confusione». Eppure il critico si chiede immediatamente se tali difetti non possano tradursi in pregi; se, ancora, una simile confusione non sfoci in mescolanza, affermandosi come tratto distintivo d’una paradossale coerenza rappresentativa. Una volta rilevato l’ibridismo stilistico di Malle – il classicismo della Carte de Tendre; un certo romanticismo dato dalla musica di Brahms; una tipologia narrativa che passa arbitrariamente dal tono minuzioso e memoriale della cronaca a esaltazioni lirico-erotiche – egli giunge infatti a una sintesi: «sorto da una giustapposizione meccanica, un movimento dialettico trasforma un assemblaggio eteroclito in unità eteroclita» (p. 830).10

Attraverso lo stile, dunque, il dispositivo sa dar vita non già a un assemblaggio, vale a dire a un insieme abborracciato di elementi differenti, quanto piuttosto un carattere nuovo e unitario, seppur composito. La mescolanza non causa la convivenza degli stili, ma ne facilita la fusione in uno nuovo, misto appunto. È un movimento orizzontale – di affiancamento dei linguaggi disparati – che si trasforma in verticale, con la fusione che segue alla sovrapposizione. Questo stile misto può rendere conto di quei segreti che infine, secondo Amengual, originano il misterioso eppure inequivocabile rapporto con la realtà che è base della rappresentazione nel film di Malle. Un canone attento al binomio realtà / rappresentazione dovrà inevitabilmente abbandonare, almeno parzialmente o almeno in taluni casi, l’urgenza politica, o, diciamo così, il rispecchiamento lukácsiano. E può invece abbracciare – sconfinando in campo letterario – il sistema estetico fondato da Mimesis di Erich Auerbach: un saggio che corrisponde, in certa misura, a un canone, nella sua ostinata alternanza di acume analitico e spirito militante. Parte dell’attenzione di Auerbach è centrata sull’irruzione della mescolanza degli stili (Stilmischung) rispetto alla separazione (Stilstrennung), posta dall’estetica antica come principio della scrittura. La mescolanza degli stili è, per Auerbach, lo spettro attraverso cui valutare un possibile indice di realtà nella rappresentazione. Ciò che dal critico, nelle sue conclusioni, viene sottolineato come “idea direttiva” dei suoi saggi è l’innesto della tensione tragica nell’ordine quotidiano. È questo, in sostanza, ciò che Auerbach vuole dire quando scrive che «Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana […], infransero la regola classica della separazione dei livelli stilistici».11 Allo stesso modo Malle, per Amengual, inventa nel suo film un mondo che è autorizzato dalla giustapposizione degli stili. E quello che appare come «l’habite d’Arlequin» del film è anche «la condizione della sua verità, del suo realismo, della sua qualità» (p. 829).

Il saggio opportunamente posto in apertura della raccolta, D’une résistance l’autre: notes sur la genèse du style néoréaliste italien (1970), è una sorta di pietra angolare del discorso di Amengual e inaugura il suo interesse privilegiato per il cinema italiano moderno o, meglio, per il cinema moderno tout court. Anche qui la composizione filmica nasce dalla mescolanza di elementi eterogenei. C’è forse una ragione per la quale, in Malle, possono convivere Carte du Tendre e letteratura, diciamo così, nobile, musica romantica e intrusione brutale del reale: e Amengual ne individua il principio nell’effetto stilistico globale inaugurato dalle pratiche realizzative del Neorealismo, in sé intessuto di istanze disparate: in primis le idee importate – in ottica di politica e resistenza culturale – dalla letteratura nordamericana durante il fascismo; in secondo luogo, la fotografia del reale in chiave sociale, ricomposta, però, in funzione del racconto.

Oltre il neorealismo, negli sviluppi del cinema italiano moderno Amengual individua nuove forme di rapporto con la realtà. Fra gli altri casi – Pasolini, Antonioni, il primo Bertolucci – lo sguardo si posa su quello esemplare di Fellini. Nel volume ci sono tre saggi dedicati a Fellini. In particolare, i primi due12 tracciano un percorso netto che va dallo spettacolo come movimento interno alla narrazione (il circo; il varietà; il fumetto; il fotoromanzo) allo spettacolare che informa, prima della trama, la struttura del film (es., la metafora del luna-park in ). Eppure, anche in questo vortice mentale, in questo ripiegamento surreale d’aspetto solipsistico, Amengual individua le tracce della realizzazione d’una rappresentazione della realtà: certo nei suoi aspetti di opposizione, tradotti qui stilisticamente. «Vi sono – secondo Amengual – ineluttabili nozze tra il reale e l’immaginario» (p. 410). Insomma, il cammino di Fellini andrebbe dalla parte di Lumière alla parte di Méliès: ma non è detto che questi siano i due vertici di un’opposizione. Può rivelarsi infatti quel fenomeno che, a proposito di Pasolini, aveva in mente Franco Fortini, quando parlava di «duplicità nell’ubiquità polare».13 Scrive Amengual:

Gli operatori Lumière giravano il mondo per documentarne l’insolito e il quotidiano: l’insolito nel quotidiano. Il nomadismo e l’erranza sono temi del primo Fellini, «vitellone spirituale». Egli viaggia attraverso i diversi strati sociali dello spazio geografico italiano; esplora i diversi ambienti della Città eterna. Si pone al vaglio come su un banco di prova […]. Da ogni parte resta affascinato dall’esotismo di ciò che gli è prossimo; dappertutto la realtà è, per lui, prodiga di sorprese (pp. 409-410).

Esiste dunque in Fellini un rapporto forte con la realtà, pure se osservata nei suoi innumerevoli aspetti di stravaganza. Ed è forse questa insistenza felliniana sul versante irrazionale – vista come deterioramento d’una possibile lente sociale – ad aver causato la messa in discussione del realismo felliniano (a proposito del côté Lumière). Amengual si interroga a fondo su tali critiche. Se la mancanza totale di un’autocondanna inchioderebbe Fellini, secondo Renzo Renzi, nell’immobilità e nel conforto spirituale, per Amengual invece il regista di «esclude ogni autocondanna radicale, che sarebbe di per sé antivitale, ma non bara in alcun modo a proposito dell’esigenza di cambiamento» (p. 412). Secondo Fellini, lui pure attento alle mutevolezze dell’humaine condition, il movimento di cambiamento è il motore del realismo. È inutile, per Amengual, negarlo: Fellini, anche quando passa al côté Méliès, «proviene dal neorealismo»: e in questo itinerario resta sempre visibile la stella d’un suo realismo. Tutto ciò è ravvisato in un passaggio fugace ma, per così dire, epifanico. Dopo aver descritto la sequenza in cui il padre di Marcello, nella Dolce vita, ha un malore che fa precipitare le illusioni d’una notte brava, Amengual si focalizza su un gesto compiuto da quest’uomo, piccolo borghese penitente: «E, prima di uscire – come ripensandoci –, egli torna sui suoi passi per rassettare le pieghe del letto. Un intero mondo è contenuto in quest’azione quasi riflessa» (p. 414). Sono simili dettagli che pongono Amengual su una linea dialettica di fertile contraddizione con un interlocutore d’una vita come Aristarco e con la posizione, se così si può dire, di Cinema nuovo: spesso tutt’altro che tenera nei confronti di Fellini.

Ancora in questo stesso saggio, a margine di alcuni passaggi stralciati dal IV tomo di Qu’est-ce que le cinéma di Bazin, dedicato, com’è noto, a Un’estetica della realtà: il neorealismo:14

«Non trattare mai questa realtà come un mezzo»; non ignorare «che prima di essere condannabile, il mondo, semplicemente, è» e che condannare la realtà «non costringe in alcun modo alla cattiva fede»; accordare il primato «alla rappresentazione della realtà rispetto alle strutture drammatiche»; dar prova che «il meraviglioso non è né soprannaturale né gratuito e neppure per forza poetico», ma che deve piuttosto apparire «come una qualità possibile della natura» e degli uomini (del reale insomma): alcune delle esigenze che un Bazin riconosceva nel neorealismo non mancano nell’arte di Fellini (p. 412-413).15

Si tratta di un passaggio fondamentale in cui si condensano metodo e pensiero di Amengual. Un materialista dialettico che spesso richiama Lukács non esita, al momento di formulare il giudizio di valore, a fare proprie posizioni opposte come quelle di Bazin. Pur essendo vicino, in Italia, agli animatori della grande critica militante di Cinema Nuovo che ha combattuto tante battaglie per il canone, molte perdendole altre vincendole, Amengual, nel suo giudizio su Fellini, ne rovescia la prospettiva. Insomma, la sua posizione sul neorealismo si approccia senz’altro più a quella della Difesa di Rossellini di Bazin che a quella di Aristarco, che con l’autore di Che cosa è il cinema, su questo tema, diede vita a una memorabile polemica. Ma, in definitiva, nella vicinanza tra Amengual e Bazin – e a margine di Guido Aristarco – si evince anche il fondo materialista del pensiero di André Bazin, ottimamente dimostrata, nel saggio sopra citato, da Hervé Joubert-Laurencin.

Si potrebbe parlare di «realismo ontologico», la nota categoria di Bazin, come neorealismo trascendentale, al di là della pura etichetta: su una simile linea Amengual si avvicina anche a Pasolini, prendendo in esame Edipo re e Il fiore delle mille e una notte. Tra i due film egli propone un rapporto di valore tutt’altro che scontato a favore del secondo: il primo, analizzato sotto la lente psicanalitica, è visto come un deterioramento individualistico del mito, laddove nel secondo viene individuato un mirabile esempio di dialogo critico fra due culture mediterranee, quella araba e quella latina. Al di là delle motivazioni alla base di questa scelta, anche qui è presente un’attenzione ai tratti di mescolanza (contaminazioni diremmo, con Pasolini stesso): mescolanza stilistica, certamente, ma anche tematico-culturale. Ciò è evidente da quanto Amengual nota nella traduzione pasoliniana delle novelle orientali: fin dalla scelta degli interpreti e dei décors si intuisce quella «confusione culturale» che pure a Pasolini – come Amengual ricorda – è stata spesso rimproverata (proprio come accadeva a Malle). In realtà questa confusione dà luogo a una «fusione»: un racconto e uno stile nuovo. La figura di Ninetto Davoli ne è la dimostrazione: «Crespo, d’un olivastro assai bruno, rapido e lento, pesante e leggero, questo attore-mascotte del poeta traccia un legame tra l’Italia meridionale e quell’Oriente di cui essa fu parte» (p. 464).

Del resto, il riferimento a Pasolini è più che occasionale. Il poeta e regista, e prima ancora il saggista, non è per Amengual solo uno degli oggetti d’analisi d’uno sguardo critico fondato sul realismo, ma ne è anche un fondamento teorico. È proprio in Pasolini, infatti, che Amengual riconosce l’origine del suo concetto di realismo: e lo fa in un saggio del 2000, alla fine della sua infaticabile riflessione sul film. Guardando indietro al proprio percorso critico, egli inizia con un’ammissione:

Curiosamente, avevo dimenticato che, se pure la mia nozione di realismo al cinema proviene, incontestabilmente, da Bazin – il sentimento del realismo, quello lo possedevo già dal “mio” primo film –, tale nozione si è seriamente rinforzata attraverso la riflessione ‘eretica’ di Pasolini quando, tra gli anni ’60 e ’70, regnava l’imperialismo della semiologia. Con Pasolini ho pensato, allora, che tentare di comprendere il modo in cui comprendiamo un film non è né più né meno complicato che tentare di comprendere la realtà.16

Torniamo ad Auerbach, che per Pasolini è un riferimento tra i più nitidi: se dunque noi, per capire la realtà, dobbiamo smontarne i meccanismi e vederne le diverse forze in gioco, allo stesso modo, nel leggere un film, dobbiamo essere in grado di comprendere l’interazione conciliante o conflittuale dei diversi livelli della rappresentazione. Per Pasolini il discorso libero indiretto, in letteratura, fa sì che l’autore si immerga nel personaggio, dando origine a una contaminazione linguistica e psicologica. Tornando al cinema, nota ancora Amengual, «Pasolini constata che il discorso indiretto libero, col suo carico di materialità e di sintesi di oggettivo e soggettivo, si trasforma in ciò che egli chiama la ‘soggettiva libera indiretta’».17 Si tratta di una sintesi di sguardi che è all’origine d’una sintesi dei livelli della rappresentazione. Pasolini credeva che ciò potesse rendere possibile una «lingua tecnica della poesia», attraverso una regressione del livello culturale-tematico dell’autore «in una sorta di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria».18 Lo aveva bene in mente anche Deleuze, quando, a proposito delle teorie di Pasolini, scriveva: «È questa permutazione del triviale e del nobile, questa comunicazione dell’escrementizio e del bello, questa proiezione del mito, che Pasolini diagnosticava già nel discorso libero indiretto come forma essenziale della letteratura. E giunge sino a farne una forma cinematografica, capace tanto di grazia che di orrore».19

Alla luce, dunque, dell’ammissione secondo cui il discorso sul realismo si rinforza grazie al cinema di poesia di Pasolini, possiamo meglio capire l’attenzione di Amengual per i tratti di mescolanza stilistica e per la continua dialettica tra piano della rappresentazione e piano della realtà. Non si può qui aggirare un discorso preciso, che riguarda l’abbattimento delle barriere che dividono testo dal contesto, tanto da far sì che il testo stesso sparisca nella nuova vita delle interpretazioni o, peggio ancora, nell’astrazione di griglie analitiche. La realtà è un testo parlante che offre al cinema il “lessico” del suo linguaggio. Per quanto potente sia la sintassi, il lessico, al di là della dittatura dei significanti e se è vero che al cinema il lemma corrisponderebbe all’oggetto fisico, resta la parte basilare di qualsiasi messaggio, se almeno con l’Amengual di Clefs pour le cinéma siamo convinti che ogni sera ci corichiamo sul letto, e non sulla parola letto.20 E allora, al di là dell’«imperialismo della semiologia» e delle teorie sull’effetto del reale, c’è sempre, in critici come Amengual, la convinzione, prima di tutto etica, che il linguaggio non sia una barriera, ma un ponte di collegamento fra atto di rappresentazione e realtà.

Note

1 B. Amengual, Du réalisme au cinéma, Anthologie établie par Suzanne Liandrat-Guigues, Paris, Nathan, 1997.

2 S. Liandrat-Guigues – Murielle Gagnebin (cur.), L’essai et le cinéma, Seyssel, Champ Vallon, 2004.

3 Cfr. B. Amengual, Une jeunesse cinématographique, Entretien par Pierre Guibert, «Archives», 94, Septembre 2003, pp. 11-12.

4 H. Joubert-Laurencin, Barthélemy Amengual en vérité des descriptions baziniennes, in Id., Le Sommeil paradoxal. Ecrits sur André Bazin, Montreuil, Editions de l’oeil, 2014, p. 198, trad. mia, corsivo del testo.

5 V. Albera, Le fonds Barthélemy Amengual, «1895», n. 48, 2006, pp. 74-115, dove è descritto il Fondo Amengual conservato presso l’Università di Lausanne.

6 B. Amengual, ¡Que viva Eisenstein!, Lausanne, L’Age d’Homme, 1980.

7 Teorie del realismo, a cura di E. Bruno, Roma, Bulzoni, 1977.

8 M. Onofri, Il canone letterario, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 45.

9 R. Jakobson, Il realismo nell’arte, in Tzvetan Todorov (cur.), I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 106-7.

10 Tutti i numeri di pagina senza altra indicazione si riferiscono a Du réalisme au cinéma. Le citazioni son proposte in trad. mia.

11 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956, vol. II, p. 339.

12 Itinéraire de Fellini du spectacle au spectaculaire, del 1963 (pp. 379-399), e Fin d’itinéraire. Du «côté de chez Lumière» au «côté de chez Méliès», del 1981 (pp. 401-424).

13 F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. 24

14 A. Bazin, Che cosa è il cinema [1973], Milano, Garzanti, 1999, pp. 275-333.

15 Per la traduzione italiana delle prime tre citazioni ho fatto riferimento all’edizione italiana, Bazin 1999, pp. 280 e 329; le ultime due, nelle quali il fondatore dei «Cahiers du cinéma» si riferisce alla Strada, non sono, mi pare, lì incluse.

16 B. Amengual, Pasolini, le discours indirect libre et le cinéma de poésie, «Positif» 467, Janvier 2000, p. 78.

17 Ibidem, p. 79.

18 P.P. Pasolini, Cinema di poesia [1965], in Empirismo eretico [1972], pref. di Guido Fink, Milano, Garzanti, 2000, p. 179.

19 G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Milano, Ubulibri, 1984, p. 95.

20 B. Amengual, Per capire il film, Bari, Dedalo, 1981, p. 8 [or. Clefs pour le cinéma, Paris, Seghers, 1971].