Ideologia digitale
Competenze e discipline
nel sistema di formazione europeo

Alessandra Reccia

Nei discorsi istituzionali sulla didattica “digitale” stupisce senz’altro la carica retorica che li accompagna. Uso spropositato di aggettivazione, ridondanza, neologismi e prestiti dall’inglese, il tutto accompagnato da grandi sorrisi, ampia gestualità, o nel caso di testi su carta stampata, da grassetti, sottolineature, colori, ingrandimenti del carattere. Questa enfasi si ripete anche in contesti non ufficiali e tendenzialmente neutrali.1 Così, ad esempio, in un manuale per la preparazione del Concorso a Cattedra del 2012, il capitolo dedicato alla strumentazione digitale si presenta come un contenuto pubblicitario della pagina web di un produttore di tecnologie informatiche e della comunicazione (ITC). In qualsiasi momento del testo è possibile recuperare un saggio del lessico e delle forme argomentative tipiche di questo genere di discorsi:

La lavagna digitale e le TIC, più in generale, offrono un’ampia gamma di possibilità al docente per creare un mixed reality in cui digitale, virtuale e creatività convivono attraverso modalità di scrittura che non sono più semplici riproduzioni, bensì fondamentalmente, forme di visualizzazione del pensiero che attraverso immagini manipolabili, ibridabili, clonabili divengono parte di un insieme plurisensoriale accattivante.2

Difficile esimersi dal dubbio che questa accentuazione dell’aspetto comunicativo serva a mascherare, con la povertà di contenuti e di serie riflessioni critiche sull’argomento da parte ministeriale, anche il pressapochismo che ha accompagnato l’introduzione del digitale nelle scuole e nella didattica in Italia. A fronte di tanti orpelli linguistici, la strumentazione digitale è infatti presente in modo assolutamente non uniforme e, dove c’è, il personale docente o non è abbastanza formato o non riesce ad integrare le attività digitali nei ristretti tempi della programmazione oppure, semplicemente, le scuole non hanno soldi per aggiornare abbonamenti, software e hardware. Va inoltre sottolineato il fatto che nei corsi di abilitazione all’insegnamento non sono previsti corsi che istruiscano all’utilizzo didattico delle tecnologie. La formazione è o a spese dei singoli insegnanti o delle strutture. Tutta la didattica digitale è in Italia nelle mani di pochi volenterosi. Perciò, si potrebbe dire che, più che le ITC, nelle scuole italiane sia di fatto entrata l’ideologia del digitale.

In un recente libro, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0, l’autore, Adolfo Scotto di Luzio, evidenzia le ricadute socio-economiche che l’introduzione massiccia del tema del digitale ha nei discorsi politici e istituzionali sulla scuola, mettendo in luce come esso contribuisca a delineare l’immagine positiva del mondo in cui viviamo e a sostenere strumentalmente la logica del profitto inerente la produzione di Tecnologie Informatiche.

Dalle analisi portate avanti nel libro risulta, oltre la mancanza di pianificazione e di strategia politica, anche l’assenza di una guida centralizzata per la determinazione degli obiettivi da raggiungere e della pratiche da seguire e quindi la difficoltà d’individuazione di criteri adeguati per la valutazione delle sperimentazioni messe in atto con i progetti ministeriali. Questa inefficienza non solo rende privo di senso il dispendio economico profuso negli ultimi anni per la “Scuola digitale”, ma aggrava anche le differenze tra le scuole del territorio e, all’interno di esse, tra gli studenti che le frequentano, dal momento che, soprattutto per le istituzioni scolastiche svantaggiate economicamente, i fondi impegnati per le Nuove Tecnologie rappresentano risorse rubate ad altre possibili, e più utili, tipologie di investimento. Allo stesso modo, la presenza massiccia di computer e internet nella vita quotidiana degli studenti non cambia, o forse addirittura peggiora, il problema della diseguale distribuzione dei beni intellettuali nella società. «La promessa tecnologica di un accesso illimitato alla conoscenza» (p. 129) si rivela una menzogna.3

Comparando la débacle italiana delle politiche ministeriali in favore della digitalizzazione delle scuole con alcune altre esperienze europee e statunitensi, Di Luzio arriva alla conclusione sensata che il positivismo che sostiene la retorica della Scuola 2.0 è la mera proiezione delle esigenze economiche del settore dei prodotti telematici, che ha trovato nella scuola un nuovo e fiorente mercato. Educare al digitale è dunque abituare le future generazioni al consumo tecnologico.

L’autore colloca poi il discorso della didattica digitale nell’ambito delle nuove scienze dell’apprendimento, sostenendo il carattere di continuità con la ricerca pedagogica del Novecento e evidenziando, anche in questo caso, l’ideologia di fondo che supporta entusiasticamente l’uso delle ITC nelle scuole. Tuttavia, pur condividendone le argomentazioni, Senza educazione risulta un libro molto debole nell’impianto generale, giacché l’intera questione affrontata è ridotta alla falsa dicotomia tra libro e digitale, che non sembra dare ragione all’importanza dei problemi affrontati.

La matrice teorico-pedagogica del discorso sulla necessità della didattica digitale si accompagna all’idea, in parte senz’altro fondata, che gli stili cognitivi che possiedono i nativi digitali siano determinati dall’uso continuo e costante della strumentazione telematica. Questa infatti predisporrebbe all’acquisizione di un linguaggio di tipo multimediale, ipertestuale e interattivo.

La questione, però, è che oltre ai linguaggi giovanili, questa modalità cognitiva struttura anche la logica del mercato del lavoro attuale.

C’è dunque un fatto di cui tenere conto: nella nuova fase di produzione capitalistica, non è più accettabile la vecchia organizzazione dei saperi, sulla quale, tra l’altro, si incuneavano le teorie pedagogiche occidentali del Novecento, non solo quelle di stampo idealistico, ma anche quelle dell’attivismo e del costruttivismo.

La scuola dunque è chiamata più che a insegnare una pratica o un uso consapevole e critico delle ITC, ad addestrare i ragazzi al loro futuro lavorativo. Questo modo di impostare la questione ha trovato nel tempo molti sostenitori, dal momento che già da qualche decennio da più parti si lamenta la mancata comunicazione tra le sfere dell’istruzione e del lavoro, gap che la formazione digitalizzata promette di colmare.

Dunque, più che discutere sulla realizzabilità di questa profezia, vale forse la pena sottolineare il fatto che alla base di tutti i discorsi sull’educazione scolastica viene posta un’esigenza economica. L’Unione Europea, auspicando di diventare «l’economia della conoscenza più competitiva del mondo», ha fin da subito posto tra i suoi principali obiettivi quello di una migliore e più fruttuosa relazione tra le necessità del mercato del lavoro, intese in termini di conoscenze, abilità e competenze, e i servizi educativi.4 Non casualmente, il tema del digitale è al centro dei documenti europei sulla «formazione permanente». Non si tratta solo di richiedere ai cittadini di saper usare il computer o i vari programmi e applicazioni fondamentali per lo svolgimento di questo e o quel lavoro. Piuttosto di affidare alla pratica digitale l’acquisizione di conoscenze e abilità, nonché di pratiche di interazione sociale, ovvero di un modo di stare al mondo.

Per capire l’importanza di questo discorso bisogna riferirsi alle trasformazioni didattiche che si stanno imponendo negli ultimi anni nei sistemi scolastici di tutti i paesi membri della UE. L’istanza posta con i processi di riorganizzazione dello spazio della formazione europea, infatti, ha trovato uno sbocco pratico nella “Didattica per competenze”, che supporta in realtà l’intero impianto educativo e formativo della “Società della conoscenza”, ovvero del progetto economico-sociale che l’Unione Europea si è autoassegnato.

La competenza si descrive come un «sapere agito» e implica la mobilitazione di «conoscenze» e «abilità» per mezzo di «capacità personali e sociali», e quindi di risorse relazionali e interpersonali, per la risoluzione di un problema dato. Non si tratta quindi di «sapere» o di conoscere le procedure di applicabilità dei saperi, ma di impegnare il proprio bagaglio culturale, formale, informale e personale, nella vita sociale. Il possesso e l’apprendimento delle competenze implicano dunque una questione di carattere morale o addirittura etico, poiché non si tratta di “sapere cose”, ma di agire in base a un sapere interiorizzato. In questo senso le competenze sono descritte in termini di «autonomia e responsabilità» e sono indicate come il fine ultimo dell’apprendimento e dell’educazione.5

La legislazione italiana ha accolto i suggerimenti europei in materia di riordino dell’impianto generale dell’istituzione scolastica in una serie di riferimenti normativi che negli ultimi anni hanno di fatto cambiato la struttura del sistema di formazione italiano.6

Nel nostro ordinamento sono così state individuate le competenze basilari utili a tutti i cittadini, gli Assi culturali, che sono poi inserite come scopi didattici nelle varie tappe del percorso di istruzione obbligatorio, e le Competenze chiave, trasversali alle discipline e che rappresentano un orizzonte di riferimento non solo per la programmazione didattica, ma «per la realizzazione e lo sviluppo personale; la cittadinanza attiva e l’inclusione sociale; l’apprendimento», il cui possesso «può contribuire ad una vita positiva nella società della conoscenza».

Per mezzo delle competenze, le figure dell’individuo, del cittadino e del lavoratore coincidono.

L’idea di competenza che fonda la nuova didattica in tutti i paesi della UE non nasce nel mondo della scuola e nemmeno in quello della pedagogia o della psicologia dello sviluppo. Marcel Crahay,7 tra i mediatori di questo modello nei sistemi d’istruzione della comunità francofona del Belgio, Madagascar e Quebec, ci informa che essa viene direttamente delle imprese, dove pare sia particolarmente diffusa. È stato l’OCSE8 a trasferirla al mondo decisionale dell’istruzione, che lo ha introdotto quindi nei percorsi di formazione professionali e poi nelle aule. Solo alla fine la questione delle competenze è stata presa in carico dai pedagogisti, ai quali è toccato organizzarla in un sistema teorico di riferimento.

Ne è risultato uno schema capace, almeno apparentemente, di mettere d’accordo diverse e spesso contrastanti impostazioni teoriche. Esso richiama infatti alle abilità e competenze trasversali o meta-disciplinari, ma può ancora riferirsi agli ambiti disciplinari; imposta la didattica per obiettivi, ma mantiene l’importanza delle conoscenze; cura il contesto sociale e relazionale in cui avviene la didattica, riducendola però a “comunicazione”; si affida ad una prospettiva puerocentrica anche se finisce spesso per ridurre l’idea di soggetto all’insieme dei suoi comportamenti; e soprattutto ripropone la centralità del rapporto tra sistemi cognitivi e pratiche di apprendimento, contestualizzandole e finalizzandole alla risoluzione di problemi.

La conseguenza diretta di questo impianto è che le discipline perdono di centralità in quanto le competenze non derivano da esse ma al contrario sono queste che le richiamano, diventandone degli obiettivi. Per fare un esempio, tra le otto Competenze chiave compare quella definita “Competenze sociali e civiche”. Questa pertiene l’idea di cittadinanza in quanto è finalizzata alla convivenza civile e alla partecipazione sociale e politica. Di conseguenza, per essere “padroneggiata” richiede la conoscenza delle vicende passate e presenti della storia nazionale, europea e mondiale e dei processi di formazione dell’Unione europea. Si richiama dunque alla Storia come ad una delle sue discipline di riferimento, individuando in questa la mera base per l’acquisizione dei contenuti e delle abilità ad essi connessi.

Dunque, da un lato viene ribadita l’importanza delle conoscenze (i fatti) e delle pratiche annesse alla ricerca storica (studio delle fonti, collocazione spazio-temporale degli eventi, etc.). Ma, dall’altro, esse non fanno più riferimento alla disciplina, che smette così di essere metodo, struttura concettuale, organizzazione storicamente determinata di saperi e pratiche.

La sottomissione delle discipline sembra uno degli aspetti teoricamente più delicati di questa nuova impostazione, anche se non è in genere affrontata nella critica del sistema di formazione europeo.

L’importanza strategica delle politiche europee in campo didattico non è quasi mai messa in chiaro nei discorsi critici sul digitale e in quelli in generale sulla scuola. Anche il libro di cui abbiamo parlato, Senza educazione, la presuppone ma non l’affronta direttamente, riferendo sempre il problema alla situazione italiana. Eppure vale forse la pena ricondurre la pressione sulla didattica digitale nel nostro paese, così come tutto il piano di trasformazione dell’istituzione scolastica degli ultimi decenni, alle esigenze generali dell’Economia della conoscenza. In questo modo infatti risulta evidente che la posta in gioco è altissima e non pertiene soltanto le necessità di guadagno delle industrie di software e hardware scolastici, che indubbiamente sostengono e determinano il processo di diffusione di questo tipo di tecnologia e ne supportano l’ideologia. Si tratta, invece, del fine economico stesso dell’Unione europea, che si persegue rivoluzionando il sistema delle conoscenze che avevano sostenuto tradizionalmente, con la struttura socio-economica del Vecchio continente, anche la formazione del pensiero critico europeo.

Nella documentazione europea, la competenza digitale è inclusa sia tra i «Quattro Assi culturali», in quanto è riconosciuta come un linguaggio autonomo, sia tra le otto «Competenze Chiave». La didattica che ne deriva è idealmente didattica finalizzata alla produzione di un oggetto telematico. Essa si struttura in relazione alla risoluzione di un problema specifico (problem solving), per il quale ognuno collabora personalmente in base a compiti differenziati, a partire dalla individualizzazione del problema (problem finding), in una logica cooperativa e di gruppo (cooperative learnig e peer educacion). Questo tipo di lavoro si ritiene stimoli la motivazione degli alunni in modo tale da predisporli ad un apprendimento “efficace” ed “efficiente”, dove oggetto dell’apprendimento sono le competenze socio-didattiche, trasversali alle discipline, di cui durante il lavoro informatizzato lo studente può fare pratica. A parte la retorica delle rappresentazioni indirette del passato, per cui agli entusiasti studenti di oggi si opporrebbero i tristi e annoiati allievi di ieri, non ci sarebbe nulla di male nell’accettare una pratica del genere se fosse proposta come una tra le tante o tra le altre. Il problema è che viene invece imposta come metodo, stile cognitivo da adottare, in alternativa a qualsiasi altra modalità di ragionamento e soprattutto in contrapposizione all’educazione al pensiero astratto, bandita come vecchio e inutile ciarpame. Naturalmente, non è l’astrazione in sé ad essere bandita, ma l’approccio astratto al sapere. Nell’insieme dei processi di apprendimento si dà infatti rilievo alla concettualizzazione, alla simbolizzazione o alla verbalizzazione, ma solo ed esclusivamente in relazione all’aspetto fattuale dell’esperienza.

Adolfo Scotto di Luzio sintetizza molto opportunamente il riduzionismo cognitivo a cui va incontro una didattica così impostata quando dice che in questo sistema di apprendimento conoscere è semplicemente mettere a punto delle abilità mentali strategiche ed efficaci in un contesto determinato e per uno scopo specifico. Ne risulta fortemente ridimensionato anche il ruolo non solo effettivo, ma teorico della cultura. Si potrebbe citare a questo proposito uno studio della UE, L’economia della cultura in Europa (2006), nel quale parlando della relazione tra ITC e lavoro creativo, si legge:

Le nuove tecnologie e la diffusione crescente e l’importanza acquisita da internet sono vettori principali della crescita delle attività di contenuto delle industrie che operano nel campo dei media e di internet […] Il contenuto creativo è un vettore essenziale per lo sviluppo delle NTIC […] Lo sviluppo delle Nuove Tecnologie dipende in gran parte dall’esistenza di un contenuto attraente. (p. 7)

Si capisce che, nel contesto della Società della conoscenza, alla cultura è stato affidato il compito generico di «creare contenuto». Da qui si comprende anche lo statuto affidato a tutte le discipline umanistiche, dalla letteratura all’arte, dalla musica alla danza, passando per il cinema e il teatro.

Ma ciò che conta è che in questa affermazione il rapporto Nuove Tecnologie e Cultura, Macchina e Intelligenza è totalmente invertito. Non sono le prime a supportare le seconde, ma viceversa.

In questo senso la questione non è digitale si o digitale no. Il problema è ben diverso e riguarda la finalizzazione dell’educazione e della formazione scolastica alla realizzazione di prodotti visibili e determinati. La chimera della didattica digitale rappresenta di fatto il sogno di comprimere la cultura in competenza.

Il disegno generale che si va delineando è quello della sottomissione dell’intero impianto della vita civile, sociale e politica dei cittadini alla logica concorrenziale dello spazio economico europeo.

Come ricorda Fortini, la scuola, anche quella impostata sul pensiero logico-astratto, tende ad educare i cittadini ai procedimenti cognitivi sui quali si organizza l’ordine economico e sociale vigente. Ma nella vecchia organizzazione la scuola rappresentava un momento privilegiato della vita dell’individuo, se pur limitato. Si trattava di un periodo in cui la verifica reale dei risultati dell’apprendimento era differita al momento dell’ingresso dello studente nel mondo del lavoro. Questa indipendenza dal risultato generava il terreno adeguato per lo sviluppo di una conoscenza libera, che si concretizzava come elemento della formazione personale e che poteva anche predisporre al pensiero critico. Inserire uno scopo produttivo alla fine di ogni processo di apprendimento, tra l’altro ridotto a compito o task, significa ridurre fortemente lo spazio di possibilità dello sviluppo critico degli studenti e dei loro insegnanti.

Sulla scorta di queste considerazioni l’entusiasmo che accompagna i sostenitori dell’istruzione digitale e con essa dell’intero impianto della formazione permanente mostra il suo lato inquietante. Non c’è bisogno di credere effettivamente nella veridicità degli assunti, per i quali il digitale salverà la scuola italiana, ma è richiesto di condividerne assolutamente lo spirito. Così i futuri aspiranti, spesso già docenti, al prossimo concorso dovranno dimostrare di condividere l’ideologia che anima il dibattito istituzionale sulla questione. La didattica delle competenze è la soluzione! L’economia della conoscenza è il futuro! Il digitale la strada! In ogni paese d’Europa tutti gli insegnanti sono chiamati a ripetere le stesse parole d’ordine. Mentre i tecnocrati al governo diffondono la lieta novella del progresso tra i cittadini: «Vivere è diventato più bello compagni! Vivere è diventato più allegro!».9

Note

1 Per l’aspetto linguistico e politico-culturale generale in relazione al digitale nella Buona Scuola rimandiamo alla pubblicazione e-book del collettivo: Lavoro culturale.

2 Concorso a cattedre nella Scuola Secondaria di primo e Secondo Grado. Avvertenze Generali. Manuale completo sulle avvertenze generali come al bando G.U: 25.09.2012, n.75, Napoli, Edizioni Simone 2012, p. 370. Il grassetto è del testo.

3 La questione degli interessi economici dei produttori di tecnologia digitale nei confronti della scuola, individuata come un fiorente mercato, e degli scopi da questi perseguiti di occupare tutto lo spazio della giornata di un giovane con dei distrattori digitali è stato più volte affrontato. Oltre che nel libro di cui parliamo, si veda R. Casati, Contro il colonialismo digitale, istruzioni per continuare a leggere, Roma, Laterza, 2013.

4 Da qui in avanti si farà riferimento ai seguenti documenti europei, facilmente scaricabili dalla rete: Processo di Lisbona, Raccomandazioni del Consiglio dei Ministri europei in materia di competenze linguistiche del 17 marzo 1998; Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006; Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008; Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente.

5 Un utile riferimento è il manuale di F. Del Re, La didattica per competenze. Apprendere competenze, descriverle, valutarle, Milano-Torino, Paerson, 2013 (scaricabile da internet).

6 Tra i principali riferimenti normativi italiani ricordiamo: il L169/2008 art.3 e il DPR 122/2009 art.8 (certificazione delle competenze); DPR 87/2010, DPR 88/2010, DPR 89/2010 (riordino, rispettivamente, degli Istituti Professionali, Istituti Tecnici e dei Licei); Linee guida per il curricolo del secondo biennio e quinto anno degli Istituti Tecnici e Professionali; Accordo Scuola lavoro in Conferenza Stato-Regioni del 19 gennaio 2012; Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del settembre 2012.

7 M. Crahay, Pericoli, incertezze e incompletezza della logica delle competenze, in La scuola dell’obbligo tra conoscenze e competenze, Seminario n. 12 dell’Associazione TreeLLLe.

8 L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è impegnata direttamente nella valutazione dei risultati delle politiche europee sulla formazione nei diversi stati membri.

9 Frase motto di Stalin, pare sia stata pronunciata la prima volta nel 1935 in un discorso agli stakanovisti.