Credo siano da lasciare definitivamente da canto le varie questioni sulla collocazione di Franco Fortini nell’ambito di un canone, ovvero se vada compreso in una delle diverse tipologie di scrittori (poeti e, nello stesso tempo, critici, traduttori, intellettuali, ecc.) schieratesi nel corso del Novecento a difesa della libertà di coscienza, o se sia vero che egli occupa una posizione a se stante. Scrittori come Fortini sono così rari, nel corso di un secolo, che meritano di essere letti nel loro intero complesso percorso, e comunque di essere interpretati alla luce di una tensione che nasce fuori dai limiti anagrafici in cui si svolge la loro vita, in un orizzonte più ampio e sfumato. È facile dire che il poeta Fortini si nutre della riflessione critica dell’intellettuale, e l’intellettuale libera la sua attenzione critica nella dimensione poetica. Credo sia opportuno andare oltre, e magari spingersi a sostenere che anche per Fortini vale l’assunto che la poesia va giudicata, ex post, nella prospettiva della perdita, che vuol dire anche di ciò che sopravvivrà alle ideologie caduche del presente, destinate a sgonfiarsi e a esaurirsi, forse a fallire, ma sopravvivrà anche alle tecniche, alle ambizioni economiche di dominio del mondo, ai vecchi e nuovi credenti; e quindi occorre tornare a leggere puntualmente, di raccolta in raccolta, di redazione in redazione, la vicenda di una poesia – qual è quella di Fortini – che guarda alla storia per superare lo specchio ustorio di un’utopia che, a dispetto delle buone intenzioni, rischiava di restituirne solo frammenti, prospetti distorti, scorci parziali, fino a tradursi nel controcanto di una distopia. Non esiste utopia senza libertà della coscienza (anche di non credervi, dissentirne), e là dove essa si realizza fuori da questi termini si può dire che non si è peritata di concretizzare un ideale di Giustizia, bensì soltanto un’ipostasi del Potere. Insomma, è bene ricordare che per Fortini, come per ogni grande intellettuale, dietro il “nemico” non vi è un uomo malvagio, ma un’idea sbagliata; e tale idea va sottoposta a una “verifica” del suo potere, sia repressivo, sia analgesico, di omologazione culturale, di livellamento dei discorsi, di massificazione dei destini, in vista di una società in cui il presunto principio di eguaglianza è fondato sulla coazione consumista. Ma basta individuare gli errori per disarmare i discorsi falsi e correggere così eventuali depistaggi? In verità, la lettura della realtà è un esercizio di percezione più fine e sottile, dal momento che ci dispone – così come avviene nella poesia – ad evitare tanto il linguaggio dell’impegno settario, da scuola di partito, quanto quello del manierismo avanguardistico che predice, contro l’egocentrismo dell’auctor, la navigazione infinita nel “mare dell’Oggettività”; e per contro ci invita a osservare le crepe, le falle aperte, i vuoti d’aria di una scrittura che può, da qualunque parte la si intenda prendere in esame, qualora non funga da ozioso paramento per una élite al potere, sottrarsi alla seduzione del consenso, anzi contestarlo e smentirlo.
Uno scrittore che non s’impegni in tal senso non è uno scrittore, ma un intellettuale organico alla classe che lo coccola con premi e riconoscimenti, e fra i suoi compiti non vi sarà certamente quello di recarsi al tempio per cacciare i mercanti, di «portare la spada nel mondo». Ove non si ceda alla comoda tentazione di adottare un silenzio ben remunerato o di puntare a una trasgressione intellettualistica autoreferenziale, occorre restituire all’homme de lettres un’energia di ricerca intransigente della verità, nello stesso tempo critica e poetica, che mai andrebbero scisse, ancor meno poste in antitesi, anzi riannodate in una radicalità inclusiva, che rimette in gioco, quando tutto ormai è omologabile dal mercato, il valore della letteratura.
Fortini, oggi, più che mai attuale, dunque. In quanto, non riducibile a un pur onesto “studioso” (nel senso etimologico del termine), Fortini è il “critico” che s’interroga sul livello di contraddittorietà di un’opera, sulla capacità di uno scrittore di interrogare il presente e di rappresentare e riflettere sulle complesse dinamiche della storia, e non lesina il giudizio, prende posizione; là dove lo studioso, invece, si ferma alla descrizione dei rapporti di forza, senza entrare nel merito delle contraddizioni, o al limite indugia alle soglie di un giudizio che chiederebbe al lettore di accettare il confronto e forse di mettersi in discussione. Al centro della poesia di Fortini vi è un «concetto di cultura – per usare le sue parole – che sappia autocriticarsi e denunciare le proprie correlazioni col mondo e che sia capace di lottare contro i propri limiti istituzionali e di legarsi a istanze più vaste» (628).
Mi pare giusto precisare questo, parlando di Fortini, perché torna quanto mai utile nel leggere la sua poesia, in cui è fondamentale scendere nelle pieghe di una scrittura che accetta di maturare all’interno di una tradizione verso cui è inevitabile nutrire, stante la secolare cornice ideologica, una salutare diffidenza, saperne leggere l’eredità, per chiuderla in uno scrigno, ma per investirla di una nuova tensione interpretativa. Quante parole appartengono autenticamente a colui che scrive versi e non sono soltanto una inerte eredità del passato? Parole che sono come un campo di forze in movimento continuo, dispersivo, entropico, e vanno rideterminate sia in relazione ai conflitti interiori di chi scrive, sia in relazione a quelli della classe cui egli appartiene, in uno svolgimento apicale che scala dal piano fisico a quello metafisico, dal materiale allo spirituale, e viceversa, che Fortini, nel quale marxismo e fede cristiana valdese convivono, vive con drammatica generosità. Compito del “poeta critico” è, pertanto, quello di individuare un senso nella storia (composta dai noti ingredienti: male, ingiustizia, sfruttamento ecc.) valorizzandone una dialettica, non astratta in una chiave ontologica (come se appartenesse al destino dell’uomo), o ancor meno nel segno di una fatua autoreferenzialità (come per esempio quella intellettualistica di tanti movimenti del pensiero nichilista), bensì affatto concreta, intesa a comprendere e smontare le verità preconfezionate, a rovesciarle, individuando il disvalore che risiede nella contraffazione, anestetizzazione e oblio della realtà, in quella ignoranza che ci impedisce di sconfiggere il male, ammesso che si sia fermamente convinti dell’esistenza di un bene, e di riflettere sulla unicità della vita, anche se sappiamo che essa non vive fuori dalla storia ma profondamente calata e compresa in questa.
Fondamentale partire dalle parole, dal linguaggio, e la critica ha il compito di ricordarci che il significato delle parole è la risultante di una lotta fra chi gestisce la comunicazione e chi ne verifica i limiti; e che, se il linguaggio è ideologia, pure esistono generi discorsivi che in virtù del loro decentramento nel sistema economico-sociale, sono in grado di sottrarre le parole al potere, e che, tra questi generi, sicuramente il più irriducibile è la poesia. Com’è possibile, altrimenti, che Fortini sostenga che «il linguaggio è la via obbligata dell’ispirazione», la quale tuttavia contempla, nella certezza del suo realizzarsi, «il momento critico e autocritico, di controllo» (229). Ogni poeta – vale la pena precisare – non solo è “sentimentale” (come avrebbe detto Leopardi) perché non ignora la distanza delle sue parole da quelle che erano le illusioni che esse un tempo significavano, ma si riserva una costante funzione autocritica in quanto non può rinunciare al disincanto (ancor meno all’angoscia) che il futuro incute. Come spiega in un’intervista (236-243), il poeta preferisce disegnare e colorare su fondo bianco, piuttosto che sul fondo nero di una lavagna, dal momento che il nero – da intendere come il «fondo dell’irrazionale, dell’istintuale, del non controllo critico» – permette di enfatizzare la «sensibilità coloristica», lo spontaneismo emotivo di chi disegna, dando l’impressione che tutto sia ben intonato; al contrario, su fondo bianco ogni imperfezione, o svista, o piccolo sbaffo, viene subito notato, e l’istinto, con tutto il portato di emozioni, quanto più sale dalle profondità, tanto più abbisogna di un’attenta valutazione delle sue potenzialità. Detto altrimenti, se la vocazione di chi scrive fosse la poesia, allora sarebbe come disegnare e colorare su un fondo nero; invece, poiché è la vita, è come disegnare su un fondo bianco, calcolando ogni sfumatura di grigio e di nero, preferendo i chiaroscuri alle accensioni cromatiche. Il pericolo che il poeta deve allontanare da sé è quello di intendere la letteratura in una forma totalizzante: essa non può pretendere di farsi né «supplenza religiosa» né «supplenza politica» (257) in considerazione del vuoto storico dei valori cui approderà il secolo breve, con l’apparente fine delle grandi narrazioni. Se è vero che per essere “qualcosa” deve smettere di essere “tutto”, allora la letteratura deve tendersi come una corda sulla realtà dei rapporti fra gli uomini e la storia: una corda etica, morale e non moralista, che non ha la «pretesa di negare la storicità dei valori morali», anzi, cerca di metterne in evidenza il loro essere frutto di scelte sofferte, operate con consapevolezza esistenziale (come nell’aut-aut già intuito da Kierkegaard), e in dialettica con la storia.
Se c’è una lezione che la poesia offre (lectio transit in mores, sosteneva Erasmo), essa è nella lettura che ci trasforma, penetra i nostri pensieri, i comportamenti, i costumi; e se questo non accade, allora siamo nella mera letterarietà. Perciò occorre saper mettere a fuoco l’idea di una letteratura come «istituzione, convenzione e anche ambiguità» (508), ovvero espressione storica della cultura umana, e non sugli aneliti alla «letterarietà» con cui si designa, in una catena effimera di pseudo-valori, «ciò che viene di volta in volta ritenuto tale in ogni società, o gruppo, o momento» (490), sorta di astrazione un tempo solo narcisistica, oggi anche consumistica, della vera sostanza che è la «letteratura» (452).
Di raccolta in raccolta, il pensiero poetante – se così possiamo chiamarlo – di Fortini si rafforza facendo leva sulla posizione strategica che lo scrittore, in cui si annida un “pensiero estremo” (547), in grado cioè di cogliere dialetticamente, e non apologeticamente, la contraddizione della storia, assume nei confronti della realtà. E se il pensiero non è estremo, è preferibile il silenzio, come una forma di dubbio che non si sottrae al confronto, ma che sospende il giudizio per non cadere nella trappola, tesa dal pluralismo anestetico, di una tolleranza omologante delle diversità. In tale direzione vanno l’intellettuale, l’homme de lettres, il poeta – nessuno di loro punta tanto al rispetto che bisogna avere verso il diverso, quanto alla differenza che l’estremo innesca e propaga. E a fare la differenza può essere quel momento in cui ci si mette in ascolto di un uccello che canta su un ramo, e ci si accorge che esso «Non ci sarebbe se non ci fosse il nulla» (344), e si riconosce in questa tensione la dialettica fra la Poesia, inteso come plusvalore che c’invita a liberare le parole dai percorsi obbligati della comunicazione e a nutrirle della memoria e della visione, e il Potere, che confeziona gabbie discorsive. Ma a questo punto, se occorre fare «uso della contraddizione e del dubbio per evitare l’annebbiamento della coscienza di se medesimi», «che uso fare della memoria nell’epoca della catastrofe ideologica» (412)? E come si può parlare di catastrofe ideologica di fronte al «significato tragico della storia» (474)? Allo scrittore-intellettuale tocca assumersi delle responsabilità culturali, civili, politiche, nei confronti della propria opera, nei confronti delle proprie parole, tocca lavorare per costruire una storia diversa, puntare su un’utopia (non c’è nostalgia finché c’è speranza: «La morte può essere meno terribile quando chi muore sa che ciò che egli ha amato di più sarà protetto», ricorda Fortini citando Marcuse); tocca, infine, concentrare la lezione più alta dell’opera d’arte nella sua «forma», nel suo essere «non forma e basta, ma forma di determinati contenuti» (579), strumento di resistenza alla fluidificazione, alla morte, al caos dell’esistenza, dal momento che l’unico modo di resistere è quello di opporsi con un progetto, magari il progetto di un’opera, di un’autoeducazione e autoformazione, anche se però non ci si può limitare a questo, perché si rischia di cadere nel progetto estetizzante di una vita come opera d’arte, no, è necessario tradurre questo progetto in termini esistenziali, là dove «non si sarebbe quello che si è se non ci si consumasse nell’esistenza», ben inteso che «l’esistenza è scontro e conflitto» (579-580); e in tal modo tocca rivolgersi «a coloro che sono ancora disposti a cercare nella letteratura delle domande e delle risposte fondamentali per il genere umano», quali per esempio «perché vivono e perché muoiono gli uomini» (483).
Ma anche su queste ultime asserzioni, implacabilmente Fortini riporta un dubbio: la “macchina editoriale” modifica il gusto, condiziona il lettore. Esiste ancora il lettore che scopre Rimbaud? E sarebbe ancora possibile – ci viene da chiedere – scoprire oggi un Rimbaud? Che lettore è quello che non appartiene alla generazione di Fortini, a un Novecento che è finito prima che il secolo si chiudesse? «Oggi è in atto una sorta di intercambiabilità tra la grande letteratura, la media e la cosiddetta “volgare”» , osserva Fortini, che aggiunge: «La parte di sangue che il lettore ci mette nel leggere l’una e l’altra, oggi è ormai la stessa» (484). In altre parole, il «predominio dell’industria culturale» sull’opera, intesa nel suo processo di invenzione e realizzazione, si sta affermando in una forma capillare, ragion per cui «la distinzione tra buona letteratura e cattiva letteratura, tra alta letteratura e letteratura di consumo, fra letteratura fabbricata al computer letteratura scritta all’antica […] è diventata non solo più difficile ma, in realtà, quasi inesistente» (527). Entro tale sistema il poeta sembra godere ancora di qualche privilegio, come l’invisibilità, che sembra, sì, metterlo al riparo dai pesanti condizionamenti del contesto produttivo, del così detto mercato, ma lo lasciano con «un sentimento di inappartenenza e di illegittimità» (311), come se, accogliendo lo scontro con il suo tempo (così come predicava Proust), egli accettasse che la “illegittimità” della sua “vocazione”, a meno che non la esibisca celebrandola nella forma di una leggenda parnassiana, sgusciata dal suo vissuto.
Del resto a Fortini non importa dove va la poesia (414), probabilmente verso il suo esaurimento, ed esautoramento, per sopravvalutazione lirica di un ego in cerca di vetrina; e niente di buono può garantire una società in cui la molteplicità dell’informazione logora e svuota la stessa veridicità informazione (361). Contro la «molteplicità inutile», cioè disinformativa, demagogica, populista, iperpoetica, massificante, occorre un nuovo pensiero critico, tutt’altro che criptico, di tipo «ecologico», capace cioè di «differenziare» gli eventi, le opere, gli autori, e in grado di fare pulizia, riciclare il meglio e rimetterlo in circolazione, contro la cultura del «superfluo» (553), verso qualcosa di più solido di un’utopia, una speranza (anzi che una dottrina) di “comunismo”, un regnum dei che non si vota a maggioranza, e consiste in un modo diverso di essere uomini, insomma «un’antropologia abbastanza lucida da non cadere nell’ottimismo cretino» (701). In fondo l’itinerario poetico di Franco Fortini era partito da un foglio di via: provvedimento che oggi siamo abituati a sentire elargito a clandestini e reietti che, privi o meno di carte di riconoscimento, sono ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi e potenzialmente pericolosi per sé e per gli altri. Sarebbe una impropria estensione un foglio di via per ogni poeta il cui reato sia quello di aver letto, ab initio, nella propria vicenda personale non un significato privato, riconoscibile solo da un circolo ristretto di sodali, ma quello che i suoi simili – della stessa epoca e di altre – possono condividere e far proprio, e di aver trovato delle parole in cui ogni lettore potesse sentire la lingua di un’epoca? Come scrive Fortini nella prefazione alla seconda edizione della sua raccolta d’esordio:
1 F. Fortini, Consiglio a pochi, in «La Situazione», maggio 1959, in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, il Saggiatore, 1974.